Elisabetta Fadini è artista poliedrica. Insieme ad altri, ha portato in Italia il reading. Poi, con importanti artisti e intellettuali, ha lanciato il primo Manifesto di Reading. Da esso è nato “Rumors Festival – Illazioni vocali”, festival musicale da lei diretto, in Verona, quest’anno alla sua decima edizione.

Ultimamente è tornata a calcare le scene con uno spettacolo Omaggio a Emilio Salgari. La tigre a Verona. Lo spettacolo, che ha visto la sua prima il due maggio scorso al teatro Camploy di Verona, su testi di Silvino Gonzato, tra i massimi esperti italiani di Salgari, narrava più la vita che le opere del grande scrittore, padre di Sandokan.

“La regia è di Gianpaolo Savorelli, storico direttore dell’Estate Teatrale Veronese, mente illuminata, uomo di grande intelligenza. Anche l’attore Massimo Totola era sul palco con me. Ringrazio inoltre per questo progetto Teo Ederle, uno dei più bravi bassisti italiani, che mi ha permesso di ritrovare la dimensione dello spettacolo, fatto di commozione e dedizione. Quando si mette in scena uno spettacolo bisogna amare, perché non si scherza con la storia e nemmeno con la vita di chi si porta in scena. E così abbiamo fatto, passo dopo passo, noi tre, sul palco. Abbiamo imparato a volere bene al buon Salgari, cercando di rendergli la giustizia che meritava, lui che era anche giornalista, ed era quello il lavoro che gli permetteva di vivere. Capita spesso, molti dei più grandi scrittori devono passare la vita dietro a una scrivania ingrata. Si renda merito ai vinti, prima che ai vittoriosi. Ha creato un eroe, un gigante per i buoni, Sandokan. Salgari è nato a Verona, ma non lo si è mai rispettato. Ci piacciono gli irriverenti, quelli che si fanno anche male pur di difendere qualcosa”.

Il teatro e la sua disciplina ha fatto parte a lungo del tuo percorso artistico. Hai frequentato il Living Theatre, dove era richiesto un rigore psicofisico ai massimi livelli. Che influenza ha avuto il teatro nel tuo modo di gestire altre discipline artistiche? Cosa ne pensi dello stato del teatro odierno e delle sue prospettive?

“Judith Malina è stata una donna pazzesca, non si è mai fatta imbalsamare nelle quattro mura del commercio teatrale. A lei non interessava del mercimonio, si è sempre battuta per la libertà di pensiero, era una persona vera, una che ti faceva credere nella giustizia, una che ti guardava negli occhi e tutto il resto veniva dopo. Direi che le avanguardie teatrali del Novecento richiedevano tutte lucidità mentale e dedizione, chi non ce l’aveva si perdeva nel niente. Sono state un insegnamento di umiltà per chi le ha capite, dovevi partire dal centro dell’essere umano per cercare la verità; nessuna ipocrisia, nessun imbarazzante vestito cucito addosso. Quello che mi porto dietro è un gigantesco ascolto della gente, ascolto tutti, è questo che il teatro mi ha insegnato, e che dovrebbe insegnare, ma così anche la musica. Gli artisti dovrebbero essere prima di tutto sacerdoti dell’ascolto, parafrasi onnipotente di unione. Non è esibizione, si è medium di qualcosa di altro che va ricordato, insegnato a chi arriva dopo di te; si ha una grande responsabilità che ultimamente vedo in pochi, e la storia dovrebbe essere la nostra grande Dea Madre. L’onestà artistica è quella che ci unisce tutti. Non ho mai trovato nessuna differenza tra le arti, è tutto un insieme di gigantesca appartenenza. Il rispetto e l’onestà, perché sul palco si e nudi, così valevano, così valgono e così varranno, le altre cose sono un inghippo momentaneo. La gente ha bisogno di onestà, ora più che mai. Però più sei onesto più ti tolgono la parola, perché dai fastidio”.

Il nostro Paese attraversa una fase di eclissi culturale. All’avverarsi della profezia pasoliniana si è aggiunta una tendenza alla semplificazione dal sapore vagamente orwelliano. L’incultura colpisce i ceti bassi, ma, ed è quello che forse più impressiona, anche le classi intellettual-dirigenziali; in altre parole le élite, siano esse politiche o culturali. Come vivi questa situazione, cosa ne pensi e cosa pensi si possa fare per cominciare a risalire la china?

“È così, da anni, Pasolini lo diceva. Ha sempre difeso i suoi adorabili:

“Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano. Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori”.

Così lui difendeva la purezza, quella dei ragazzi, quella di chi si batteva per la forza della vita. Esistono dei valori da sempre, per questo i supereroi ci sono sempre piaciuti. Serve una visione che oltrepassi tutto, e spetta agli artisti. L’incultura ha colpito anche i ceti alti, e quindi serve “memoria”, serve “poesia”. Però non si usi la gente, o meglio non si abusi dei ceti bassi, per dirla con le parole di Peter Brook, che per lui era il “Teatro Ruvido”:

“È sempre il teatro popolare a salvare la situazione. Nelle diverse epoche ha assunto molte forme, ma l’elemento che le accomuna è uno soltanto: una certa ruvidezza. Sapore, sudore, rumore, odore: teatro che non è in un teatro, ma su carri, palchi mobili, pedane rialzate; spettatori in piedi o seduti ai tavoli, davanti a un bicchiere, che partecipano all’azione, che rimbeccano gli attori; un teatro fatto nei retrobottega, nelle soffitte, nei granai; soste di una sola sera, un lenzuolo lacero appuntato alle due estremità della sala, pannelli malconci che nascondono cambiamenti rapidi”.

È sempre il teatro popolare a salvare la situazione, quello che vince sempre, perché è quello che c’è sempre stato, anche in mezzo alla polvere e alla sporcizia delle strade. Si parte da là. È dalla gente che impari a dare alla gente, tutto il resto è semplicemente un’evoluzione di alcuni che ne hanno fatto una passione e poi una bandiera di libertà. La cultura ce l’hai se la cerchi e te la crei se hai voglia di imparare. Non sempre ti salva, ma ti difende l’anima. L’unica chiave di lettura è la filosofia del respiro, che spero vinca, l’ho detto centinaia di volte: “l’uomo cade e sputa, sputa e cade e raramente impara”. È ora di imparare a crescere con orgoglio”.

La musica popolare sembra ormai avere esaurito il suo corso, a detta di molti. Tra revival infiniti e fenomeni effimeri che ricalcano (male) quelli di venti o trenta anni fa, pare si stia smarrita la bussola. Manca un metro di giudizio e una critica vera e propria, che, agendo puntualmente, contribuisca alla ri-creazione musicale. Come vedi la situazione della musica attuale? Come fai a scegliere artisti sempre efficaci, pur di diversissima provenienza? E quali artisti desidereresti, più di tutti, portare un giorno a Rumors?

“Sinceramente i gruppi che fanno cover non mi interessano. Vorrei vedere artisti sul palco, gente che suona e canta se stessa. A me piacciono i “compositori”, chi sa che sta creando una storia, giusta o sbagliata che sia, ma pur sempre una storia, perché dobbiamo andare avanti, ora e qui, la storia la stiamo facendo noi. Negli ultimi anni stiamo assistendo un imponente ritorno di band storiche, cosa incredibile solo qualche anno fa. Ribadisco che la gente vuole la verità, e quindi gli originali. Ecco perché sta accadendo questo. Si parte sempre da qualcuno prima di te, si impara comunque da altri prima di te, ed è giusto omaggiarli, ma non scimmiottarli. Si deve ripartire da qui, si torni nelle cantine, negli scantinati, si riparta dalle chitarre comprate con i soldi delle mance. Il mercato è inevitabile. Qualcuno di bravo c’è in questo paese, e ci sono anche manager colti, non dobbiamo sempre pensare ai manager come figure avventuriere e ingannevoli. Servono grandi “registi” che con i manager decidono quali sono gli artisti più validi. Il lavoro di sinergia vince sempre. Così faccio da anni, si decidono artisti di qualità, musicisti di valore. Serve rispetto per tutti. Per quanto riguarda la critica, la pensiamo tutti allo stesso modo, serve coraggio per scrivere la verità, e serve cultura per scrivere di cultura. Io ho tentato di sacralizzare la cultura passando dalla gente. Vorrei tanto portare PJ Harvey, ci sto lavorando da qualche anno. E poi vorrei portare lui, il più grande: David Byrne”.

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