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Cultura generale
Paola Tonussi
NICK
Ad Algeciras, in Costa del Sol, nell’estate del 1971, il cantautore inglese Nick Drake è ospite della villetta sul mare messagli a disposizione dal capo della sua casa discografica, la Island Records. Chris Blackwell, così si chiama, continua a credere in questo giovane talento di ventitré anni, dal carattere ombroso e introverso, ma dal forte carisma, nonostante l’insuccesso commerciale dei suoi due dischi precedenti: Five Leaves Left, del 1969, e Bryter Layter, uscito l’anno dopo, due perle della musica folk.
Blackwell è preoccupato per le condizioni psichiche di Drake, che soffre di depressione, e pensa che una vacanza al mare, sulla costa mediterranea, possa fargli del bene. In effetti, durante il soggiorno in Spagna, Drake si sente ispirato, elabora diverse idee, e al ritorno a Londra è pronto per incidere un nuovo disco. Telefona al suo fidato fonico, John Wood, e gli comunica le sue intenzioni. Drake ha carta bianca dalla Island e dunque l’appuntamento è fissato. Si presenta agli studi di registrazione di Chelsea, i Sound Techniques, verso mezzanotte di un giorno di ottobre, solo con la sua inseparabile chitarra acustica Guild e la sua voce. Non vuole nient’altro, nessuna post-produzione, nessuna collaborazione.
Incide in una sola notte tutti i brani del disco – undici tracce per soli 28 minuti – e la notte successiva torna per una breve linea melodica di piano, che suona lui stesso, inserita nella prima canzone che darà il titolo all’album: Pink Moon. Chi si sarebbe aspettato un cedimento di Drake alle mode commerciali di quegli anni, un venire incontro ai gusti del pubblico dopo il fallimento dei due dischi precedenti, resterà sconcertato. Pink Moon è un disco nudo e crudo, un’opera notturna, buia, da cui è stato eliminato tutto il superfluo, qualsiasi orpello, abbellimento, per costringere l’ascoltatore a guardarsi allo specchio, a riflettersi nelle proprie disillusioni, nei ricordi, nelle insofferenze, nello sconforto.
È uno dei dischi più intimi e rigorosi della storia della musica pop. Un lavoro di sottrazione radicale. È qualcosa che si avvicina molto a quell’idea di arte intesa come un «andare all’anima delle cose», che una volta Flaubert confessò in una lettera all’amica George Sand. Provare ad ascoltarlo di notte, in cuffia, è un’esperienza coinvolgente, immersiva. La voce di Drake, con la sua incrinatura malinconica, quella tonalità inconfondibile, quel timbro di una sensualità tenebrosa, può anche far male, tale è la disarmante e desolata bellezza di questi brani.
«I più oscuri e inebrianti ventotto minuti di musica acustica mai incisi su disco», è stato detto di questo album: alcuni brani hanno una struttura scheletrica, ridotta all’osso nel vero senso della parola, con giri di accordi ipnotici o aspri, o quattro note blues ripetute ossessivamente con la tecnica del fingerpicking; altri invece hanno un andamento più rilassato, caldi arpeggi, perfino un’aria inaspettatamente idillica, pastorale, seppure tutti contengano come un senso di arcano sortilegio. I testi parlano di una incombente luna rosa in cammino che «prenderà tutti» (quella luna dell’eclissi che nel folclore cinese è portatrice di sciagure), di ricordi d’infanzia, di strade da percorrere fino in fondo, d’incapacità d’amare e inadeguatezza, di cadute veloci e smarrimenti, e parlano della ricerca di un posto dove poter stare.
«Ora sono più buio del mare più profondo» dice, Drake, in una di queste canzoni.
Pink Moon esce il 25 febbraio 1972. Le accoglienze non sono buone, come c’era da aspettarsi per un album così estremo, così essenziale, così dolente. Vende ancor meno dei due precedenti (appena 4000 copie), e si rivela, anche questo, un clamoroso insuccesso. Un insuccesso segretamente voluto, forse, poiché il giovane cantautore era refrattario alla promozione e perfino terrorizzato dal pubblico (nei pochi concerti che ha fatto, lasciava passare molti minuti tra un pezzo e l’altro per riaccordare la chitarra, fino a innervosire il pubblico). Era convinto che le sue canzoni dovessero camminare da sole, con la forza della musica. E invece quella forza non si è rivelata sufficiente, o almeno non nell’immediato. Così, Drake decide di rinunciare.
Si ritira dai suoi genitori, a «Far Leys», una villetta in mattoni rossi a due piani, dove ha vissuto la sua infanzia felice, in un piccolo villaggio a nord-est di Birmingham, a Tanworth, nella campagna del Warwickshire. Non sono giorni facili per lui. Viene ricoverato per cinque settimane in un ospedale psichiatrico, e dopo le dimissioni si sottopone a una terapia di Tryptizol (per la depressione e l’insonnia), di Stelazina (un antipsicotico) e Disipal (un derivato dell’antistaminico per ridurre gli effetti collaterali della Stelazina). In più, Drake ricorre ad abbondanti quantità di marijuana. Si va chiudendo, così, in un isolamento sempre più greve, dedicandosi a lunghi, solitari giri in macchina (si mette in auto e guidava per chilometri e chilometri, allontanandosi senza meta, finché non gli finisce la benzina e allora chiama dal primo telefono pubblico qualche amico o i familiari, affinché gli portino una tanica di benzina per tornare a casa). Tenta perfino di arruolarsi nell’esercito (ma viene scartato).
Nel febbraio del 1973 contatta di nuovo Wood, per incidere un quarto album, sempre ai Sound Techniques, ancora una volta solo con la sua chitarra acustica. Registra cinque pezzi, i suoi ultimi, che probabilmente ha già composto da tempo e messi da parte, ma Drake è così malmesso che non riesce a cantare e suonare insieme, per cui è costretto a registrare prima la musica e poi la voce. In una di queste canzoni, Black Eyed Dog, il testo parla di un cane dagli occhi neri che lo chiama alla porta. Un cane che conosce il suo nome, che gli chiede di più. In un’altra, la sua ultima, Tow the line, tesa, nervosa, cupissima, la voce è fuori tono, impastata dagli psicofarmaci, mentre canta:
«Questo è il giorno in cui ci alziamo o cadiamo.
Questa è la notte in cui vinciamo o perdiamo tutto».
È il suo congedo dal mondo. Cadrà, perderà tutto. La sua giornata, la sua notte, la sua vita volgono al termine.
Nell’autunno del ’74, Drake compie un viaggio a Parigi, ma la sua depressione non migliora. La cantautrice Françoise Hardy ricorda una cena da amici dove lo ha incontrato. Drake si è seduto davanti a lei ed è restato tutto il tempo a fissarla senza dire una parola. Poi torna a «Far Leys». «Ho fallito in tutto quello che ho cercato di fare» dice alla madre, camminando ossessivamente su e giù per la stanza. La stessa madre che lo troverà morto, la mattina del 25 novembre, nel letto della sua camera, con il corpo sopra le coperte, indosso solo un paio di slip. Sul piatto del suo stereo gira ostinatamente, mutamente, la puntina alla fine del disco dei Concerti Brandeburghesi di Bach. Sul comodino una copia, in francese, di un libro di Camus, Le mythe de Sisyphe.
Aveva solo ventisei anni, e un’overdose di Tryptizol (circa sessanta pillole) lo ha stroncato dopo l’ennesima notte insonne.
Eppure, alla fine di Pink Moon c’è un’alba che biancheggia nel cielo. Si trova nell’ultima traccia, From the Morning.
«Una volta spuntò un giorno, ed era bellissimo.
Una volta spuntò un giorno dalla terra.
Poi cadde la notte
e l’aria era bellissima».
La canzone, dal tono fiabesco, è un inaspettato invito a giocare al gioco della vita, a guardare i giorni, e gli infiniti percorsi colorati, e le notti d’estate senza fine. Un giro armonico di due accordi e una frase ripetuta con poche variazioni per tre volte, fino alla cadenza conclusiva accompagnano il testo. Il fatto che compaia alla fine dell’album, aperto dalla funesta «luna rosa», non può essere un caso.
Nel suo viaggio al termine della notte, sembra che Drake qualcosa abbia appreso, una pacificazione quasi taoista: lasciare che tutto segua il suo corso, che al mattino succeda la notte e alla notte di nuovo il mattino, in un ciclo di cui noi siamo parte. Nel testo originale Drake usa un misterioso «she», non un pronome neutro, come ci si aspetterebbe, per indicare l’alba e la notte, quasi fossero un’entità unica femminile, un’Anima Mundi, un principio di inizio e di fine. Come se perdersi in quell’entità fosse una trasfigurazione oltre la morte incombente.
«E ora sorgiamo
e ora siamo ovunque».
Fabrizio Coscia