Umberto Eco e la semiotica del “complotto”
Letterature
Mi hanno regalato prima che l’anno finisse un libro bello fin dalla dedica. È difficilissimo scrivere dediche belle. Sanno sempre di bigliettino attaccato al mazzo di fiori sbagliato. Mi piacciono le dediche nei libri di Aldo Busi: dichiarazioni d’amore civile (Le consapevolezze ultime è dedicato a Jürgen Fuchs, che non sapevo chi fosse, a Deniz Naki e a Ilaria Cucchi; chi sia Ilaria Cucchi dovrebbe saperlo chiunque). Mi piace la dedica che Ilija Trojanow appone a Dopo la fuga: “Ai miei genitori,” – e, a capo – “che mi hanno fatto il dono della fuga”.
Io non sono dovuto fuggire dalla Bulgaria attraverso la Jugoslavia e l’Italia, per arrivare in Germania e chiedere asilo politico assieme alla mia famiglia (la sommaria biografia di Ilija Trojanow sembra un piccolo racconto di Patrick Modiano, con il nome delle nazioni al posto delle strade di Parigi: Kenya, Monaco di Baviera, India, Sudafrica, Austria). Non sono mai dovuto scappare da un paese all’altro, giusto un po’ all’interno dello stesso paese, e lo riconosco: mi mancano i titoli per mettere sulla mia bocca la bocca di un profugo, non lo sono mai stato – neanche ci tengo a diventarlo. Però ho la netta sensazione che l’argomento della fuga mi riguardi, in quanto me stesso e in quanto lettore e in quanto persona umana che cerca di stare in piedi, come un acrobata, sulla palla instabile che è il pianeta.
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Il mio amico K. mi regala Dopo la fuga di Ilija Trojanow perché è sicuro io non ne sappia niente di Ilija Trojanow, e infatti non ne sapevo niente. Il mio amico K. mi ha scritto una dedica a matita sul libro, sulla prima pagina bianca del libro, sotto il titolo di collana: La Piccola Biblioteca di Ulisse. La dedica si conclude con “E tutto questo per evitare l’esilio.” Ci hanno sempre detto che è bella la mente colorata di Ulisse, e ci hanno ricordato meno che è terribile dover darsi alla fuga mentre Troia brucia. Il viaggio, le sue bellezze e i suoi orrori, fanno parte della nostra essenza culturale, ci dicono, e tante volte è stata usata la parola viaggio laddove sarebbe stato più onesto parlare di esodo obbligatorio. Le tanto decantate radici cristiane, mi ricordo pure, cominciano con uno sradicamento, con una cacciata da un paradiso presunto: ma non poteva essere il paradiso un luogo in cui il benessere costasse il prezzo della libertà di scelta, la scelta di sbagliare.
Non ho i titoli per parlare della fuga ma ho letto un libro, ce l’ho tra le mani: Dopo la fuga; e al paragrafetto II della Parte Prima, Dei turbamenti, ho la frase: “Non vi è nulla di fuggevole nella fuga. Avviluppa la vita e non la lascia mai più libera.” Il paragrafetto I recita: “La fuga giustifica se stessa, la vita che viene dopo pone sempre nuove domande.” Credo di avere in comune con gli altri di non aver avuto da sempre trentasei anni, di non aver sempre saputo quanto dolce e desiderabile possa essere l’approdo. Credo che molti altri, prima di me e con me e dopo, abbiano sentito la necessità di darsi al mare aperto, dopo aver avvertito il pericolo incombente. Lo stesso pericolo che mette in moto molti personaggi nelle storie enigmatiche e emblematiche di Patrick Modiano: bisogna andar via dal posto in cui ci si trova perché quel posto è diventato sabbia mobile. Per non andare perduti occorre avere il coraggio di smarrirsi.
Talvolta che compassione mi muove verso coloro che non hanno saputo riconoscere per tempo quando si era fatta ora di darsi alla fuga. Annegati sulla terraferma, con la falsa convinzione di essere in ogni caso sopravvvissuti sotto qualche forma. Mia sorella è una migrante economica: è una italiana che è andata in Inghilterra per cercare un lavoro che le garantisse di poter condurre una vita adulta ovvero autonoma. Ha vissuto la tensione della Brexit, degli inglesi secondo cui dovrebbero venire prima gli inglesi, anche se mia sorella ancora non ha ben capito in cosa gli inglesi pensano lei li abbia scalzati; d’altronde neppure agli inglesi è ben chiaro in che modo il governo inglese preferisca i non-inglesi a loro; che Iddio e la Regina li scampino. Dopo qualche tempo m’è venuta voglia di fare un regalo a mia sorella, siccome non sono stato bravo a dirle quanto mi abbia inorgoglito la sua fuga in avanti. Le ho comprato un brutto astuccio di latta con all’interno una penna ancora più rozza, l’ho acquistato perché m’era piaciuta la frase stampata: “Se vuoi fare un passo avanti, devi perdere l’equilibrio per un attimo.” Cheppoi lascio immaginare la mia faccia quando ho scoperto si trattasse di un aforisma di Gramellini.
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Nel paragrafetto VI della Parte Prima Ilija Trojanow scrive “(…) la lingua è potere. Chi è padrone dell’alfabeto è in grado di difendersi da solo”. Mi affascina il rapporto che lo straniero, il profugo, instaura, deve instaurare, con una lingua nuova. Io le lingue-straniere le ho incontrate per le prime volte in una scuola dove volevano insegnarmele senza che io ne intuissi l’utilità: con chi mai avrei dovuto mettermi a parlare in una lingua diversa dall’italiano? Ho vissuto nei miei primi tempi in una provincia dove tutti parlavano l’italiano, ovvero dov’erano in pochi a parlarlo senza la modanatura del dialetto, e il dialetto in cui sono cresciuto io non vanta i lustri natali del napoletano classico: il mio dialetto è cresciuto alle pendici del vulcano, è scontroso come lui, sottoposto periodicamente a crolli e a esplosioni e abbandoni e fughe, instabile, come fosse mai nato e mai morto.
Che cretineria, pensare il rapporto con la lingua importi strettamente e esclusivamente agli scrittori cioè a coloro che con la lingua ci lavorano: Beckett ha scritto in una lingua che non era la sua, pensa!, l’ha fatto anche quel dritto Nabokov, e via andare, fino alla Kristof, ungherese, che ha scritto in francese, e a Jhumpa Lahiri, bengalese, che ha scelto gentilemente l’italiano (leggendo Dove mi trovo che straniamento aggiunto, per me, è stato leggere la frase modianiana – anche io però, è una fissazione! – “Mi ricordo dei vagabondaggi assurdi da un quartiere all’altro alla ricerca di un formaggio sfizioso, delle melanzane più lustre”: fosse provenuta da una mano nativamente italiana forse non mi avrebbe smosso altrettanto ammirazione la scelta delle parole montate nella frase: vagabondaggi, formaggio, melanzane lustre; chi scrive in una lingua che non è la sua, e che magari è la mia, mi fa sentire un visitatore per primo in quei luoghi che credevo comuni e che invece sanno conservarsi assurdi, imprevisti, quando vengono attraversati dal fantasma di una lingua straniera in cerca di un nuovo corpo testuale in cui manifestarsi).
Oh, che suggestione quando l’argomento delle peripezie tra una lingua e un’altra ha al suo centro gli scrittori che hanno saputo impadronirsene!; che insofferenza, invece, quando è una questione da profughi che con quella lingua ci devono imparare a bere e a mangiare, cioè a vivere, ossia a parlare, i quali profughi, che screanzati!, tante volte manco la imparano mai come si deve la lingua del paese che li ospita!, in questo simili agli abitanti del paese delle mie origini, e forse anche a me: chi sono io per dire che l’italiano-italiano è proprio quello che conosco e con il quale mi destraggio io? E se l’italiano-italiano fosse quello di chi dell’italiano conosce parti che io non conosco (sebbene ci sia la buona probabilità che anche lui ignori parti d’italiano invece a me note)? E alla domanda: ma chi glielo insegna l’italiano ai profughi? Tu? Rispondo: No, io no; io la lingua la pratico, ma da qui a dire che la conosco abbastanza per aiutare qualcun altro a varcarla, ce ne passa.
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La gran parte delle cose che accadono nei miei paraggi mi accade in metropolitana. L’altra sera un buon uomo di grande stazza e in vena di ottime intenzioni ha preso posto di fianco a me (leggevo, assorto, un romanzo di Jun’ichirō Tanizaki, una delle sue storie così consolatorie per l’uomo quando può giustificare la propria debolezza addebitandola alla forza delle donne che appena si emancipano dal ruolo di mogliettina economa e sottomessa non possono essere considerare meno che delle diavolesse so sexy) e si è rivolto al ragazzo nero e alto e magro magro e con le braccia lunghe e sottili che si teneva ai maniglioni paralleli della metro, assumendo la posa da inchiodato a una croce di Sant’Andrea. Gli ha detto in tono marcatamente buffo, amichevole: “Guarda che non c’è bisogno che ti tieni a due mani a quel modo, il treno non ti crolla mica in testa!”. Di per sé una battuta a cui si sarebbe sorriso per buona educazione, la si fosse capita; il punto è che il ragazzo non l’ha capita, né lui né il suo amico, a occhio due turisti francesi i quali hanno chiesto a loro volta in inglese al buon uomo cosa stesse provando a dirgli. L’uomo ha ripetuto due o tre volte la stessa frase, soltanto in italiano, aiutandosi a gesti, con risultati ancora più infelici; i due ragazzi hanno cominciato a oscurarsi in viso, sentendosi presi in giro, cos’era quello sbracciarsi un po’ scimmiesco? L’uomo allora è diventato taciturno e scuro, sicuramente pentendosi del suo estro; chissà che dentro di sé non li abbia mandati al diavolo o per lo meno al loro paese, il quale paese doveva fargli la cortesia di essere un inferno in terra altrimenti quei due come giustificavano il loro essere voluti venire in un paese di cui non capivano manco una parola? Quando non c’è una lingua che faccia da ponte tra le persone, la soluzione più azzeccata resta quella di darsi alla fuga l’uno dall’altro, con Pirandello a pochi metri di distanza che raccoglie materiale per la sua teoria dell’umorismo con la malinconia in vena.
La rivincita su Babele io non me la immagino come una torre ancora più alta ma come una scuola di traduzione di altissimo livello, con a sua disposizione un pool di interpreti capaci di mettere in dialogo chiunque, quale che sia la sua versione di lingua di provenienza, anche una capra con un cavolo, un fischio con un fiasco, uno di Roma con uno di Toma.
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Rileggo più volte e con piena soddisfazione diversi paragrafetti del libro di Trojanow tradotti con grande stile da Umberto Gandini (in traduzione di Gandini ho letto Il castello di Kafka, e io che amo trovare congruenze anche laddove non c’è nessun bisogno che ce ne sia qualcuna ho trovato conseguente che un traduttore di Kafka traducesse pure questa sorta di vedemecum del profugo di Trojanow: chi ha vissuto più in esilio di Franz Kafka?, anticipando i tempi, vivendo da profugo prima che i distratti della sua epoca lasciassero che profughi ci diventassero lui e i suoi dissimili; e solo i più fortunati, gli scampati). Rileggo volentieri i paragrafetti X, XII, XIII, XIV, XV (il XV è tra i miei preferiti!, come il II, anche il XVI lo è), il XVI, il XX, il XXIII, il XXIX, il XXX, il LII, il LVII, il LXII, il LXIX, il LXXII, il LXXV, il LXXVII, il LXXXI della Parte Prima, così come i paragrafetti 94, 82, 76 (dal paragrafo 76: “Occorre forza per non essere benvenuti da nessuna parte.”), il 70, il 59, il 52, il 49, il 40, il 30, l’1 della Parte Seconda, Dei salvataggi. Bello anche il Poscritto, una citazione di Ugo di San Vittore. Poi c’è una selezione di opere da The migration series di Jacob Lawrence, ma quelli, a parte una breve didascalia, non si leggono né si traducono, neppure in parole.
Gran parte di quello che è necessario oggi venga scritto è stato scritto nel paragrafetto XXIII della sezione Dei turbamenti: “Talora il rifugiato s’imbatte in persone che hanno paura di lui. Vorrebbe tanto toccarle, prenderle per un braccio oppure poggiare una mano sulla loro spalla e sussurrare loro: badate che quello che ha paura sono io.” L’invidia che separa il profugo da chi non lo è, secondo me più forte dell’invidia che prova lo stanziale verso il nomade che non lo invidia a sua volta, è dovuta all’accesso privilegiato alla paura che il profugo può rivendicare e il non-profugo no, se non vuole passare per un psicotico in cerca di un caro leader. Quello che non perdoniamo al profugo è il suo essere più giustificato di noi ad aver paura. Vogliamo poter aver paura a pieno titolo anche noi. Anche noi, a cui non può essere fatta una colpa se non viviamo in una nazione che ci abbia messo già definitivamente alle strette e dunque o alla fuga o alla mummificazione da vivi, vogliamo poter aver paura delle persone in cui ci imbattiamo. Anche noi vogliamo tanto toccarle, prenderle per un braccio e poggiare una mano sulla loro spalla e sussurargli: badate che non è come sembra, siamo noi quelli che hanno paura per primi! Sono io che ho paura e che ho ragione di averla. È me che dovete consolare e accogliere. Di me dovete prendervi cura, siccome non ho chi si prenda cura di me e di me io per primo non so prendermi cura. Se esiste un dio, gli sia ben chiaro che la pecorella più smarrita di tutte le altre sono io, e se un dio non c’è occorre sgomitare ancora più forte per entrare nella lista degli ultimi da soccorrere per primi.
Ai profughi reali non vogliamo cedere il nostro diritto di volerci sentire dei profughi che in quanto immaginari non sono per questo meno dispersi degli altri, anzi: i profughi reali qualche esperienza sul come si può reagire e tenere fuori la testa ce l’hanno: noialtri no, perciò siamo i più sfortunati e vulnerabili, e via così, di avvitamento in avvitamento. Che per recuperare le debite proporzioni, per riavvicinarci al principio pragmatico dell’empatia, non ci resti che attendere il nostro turno di diventare dei profughi di fatto? Lo ha scritto il profugo in pectore Ilija Trojanow per primo: “La fuga giustifica se stessa, la vita che viene dopo pone sempre nuove domande.” La fuga più rovinosa è quella che brucia immediatamente i ponti che ci collegano con la realtà che ci cinge d’assedio.
Antonio Coda