11 Ottobre 2023

“Il tuo cuore non abbia fretta di sproloquiare davanti a Dio”. Brandelli di Qoelet

Paradosso dei paradossi: Qoelet, il più duro tra i rotoli del canone biblico, è diventato un giardino, felice porticato per filosofie e teologhemi da taschino. Qoelet, che s’incunea nella contraddizione, scassa il dire civico e l’elegia del buongusto a lambire il sacrilegio, ha il gergo dell’incivile e dell’artista che leviga avvelenati aforismi, possiede il gusto della provocazione e le virtù del visionario. Non è parola cifrata la sua, che annette a chissà quale rivelazione, ma dire schietto, scaltro, calato su pietra; non oracolo di mago ma parlata da vagabondo che conosce la vita e il suo fango; brutale e disinvolto sulle ipocrite rose del tempio. Il paria ha imparato presto a farsi re.  

Eppure, Qoelet, rotolo sottile al sapor di lama, da leggere insieme al suo gemello opposto, il Cantico dei Cantici – sempre salomonica saggezza è di mezzo: l’uno distrugge l’altro, eroticamente, crea – è il più puro punto d’accesso alla Bibbia, per chiunque. Chi ha in orrore il Dio dei deserti, troverà sapienza crudele, qui, di uno che dice – all’apparenza, pur per rifrazioni – le ‘cose come vanno dette’ (cioè: l’indicibile). Non a caso Guido Ceronetti – che di Qoelet, “colui che prende la parola”, ha esasperato la gnosi – fa dei Qoelet una falange, una legione; suoi discepoli, più o meno diretti, sono Kafka e Mandel’štam, Saul Bellow e Isaac B. Singer, Karl Marx e Simone Weil; sono “altri ecclesiasti” Solone e Orazio (“un Qohélet senza trascendenza e senza infiniti, volontariamente amputato d’infinito”), François Villon e Francesco Guicciardini, ovviamente Chamfort, certamente Leopardi (“la dottrina del piacere leopardiano è la stessa del suo Salomone – come sempre chiamò l’Ecclesiaste –: l’impossibilità del piacere assoluto è il fondamento inesorabile dell’infelicità umana”). Anche Lucrezio ha lampi qoeletici; anche Carlo Michelstaedter. Pare che Qoelet, che a morsi si è guadagnato assolata solitudine nel Testo – tana sia la sua bocca prima che libro –, abbia fondato una tribù.

Io no.

Credo ancora che questo tizio immobilizzato nell’anonimato sputi sulla terra, faccia perle di melma per gettarle contro i parlamenti e i paramenti d’ogni epoca. Inossidabile violenza dell’uomo che investiga dove non si deve e al fuoco del timore di Dio concretizza il creato nel caos, ribalta le leggi, riabilita il brigantaggio, denuncia l’insanità del tutto, la sua tortuosa inutilità. Nel niente – nessuna mistica intacca l’avido oratore: questo niente è l’annientamento della città dopo la razzia, deserto salino creato dall’umano per vizio d’ammazzare, dacché la storia è un incubo – balugina Iddio, figura ferina che appare quando il sangue è già crosta, geroglifico del massacro.

Di Qoelet tutti han detto tutto: ogni altro bla bla è sasso che muta gli specchi in risaia, in risata. Per capire un poco la questione, si può leggere un libro di Andrea Ponso, Qohelet o del significante, uscito per San Paolo nel 2019. Chiamato a tradurre Qoelet per un progetto nato dall’annientamento editoriale odierno, opera, dunque, laterale, di latitanza, di feconda fronda, mi fisso sul capitolo 5. Il tema urta: come ci si rivolge a Dio? Che parole usare per parlargli? Infine, come parla Dio? Questa è la traduzione letterale del primo versetto:

“Non affrettare la bocca non abbia fretta il tuo cuore
di far sbocciare parola sulle facce di Elohim
perché l’Elohim è nei cieli e tu sulla terra.
Perciò, saranno rare le tue parole”.

Ricalco il commento di Giuseppe Laras (1935-2017), già Rabbino capo della comunità ebraica di Milano, mio professore di Filosofia ebraica in ‘Statale’: “Rivolgersi a D-o è un bisogno naturale del fedele; tuttavia i mistici raccomandano che le preghiere siano brevi. Pregare è un atto impegnativo, rivolgersi a D-o implica la coscienza di un impegno… Dice Ibn Ezra che quando si prega si deve sempre ricordare di essere al cospetto di Colui che ha il potere di far vivere e di far morire; bisogna perciò prestare attenzione a quel che si dice, bisogna essere prudenti. Al contrario, lo stolto si profonde in un diluvio di parole che variano come variano le immagini all’interno di un sogno”.

È come se Qoelet recintasse il terreno della mente – il campo dell’immaginazione e del sogno – e quello del cuore. La mente pensa, strologa, esige esegesi; il cuore sviluppa l’unica parola che, attraverso la bocca, deve essere donata a Dio. La lingua dei cieli non è quella che si parla sulla terra.

Sviluppando il discorso, Qoelet sancisce una differenza tra sogno e voto.

“Il sogno è compenetrato da molte preoccupazioni
e voce di stolto prolifera parole.

Il voto votato a Elohim non tardare ad adempiere
perché non compiace gli stolti:
                                     adempi ciò che hai votato!”

Lo “stolto”, kasal, è lo stupido, l’idiota, il mentecatto, il folle, senza alcuna accezione romanticamente positiva nel termine. Il sogno – chalam – svia dal vero se non è il tramite della visione divina. In alcuni momenti particolari “Dio viene, di notte, in sogno” (Gen 20, 3): la distinzione tra sogni profetici e impuri, di materia vile, che gravano la mente di attese vane e intorpidiscono il cuore è nota da sempre (nell’Odissea, per voce di Penelope, si insegna che i sogni veritieri passano per la porta di corno, quelli falsi da quella d’avorio).

Un altro aspetto affascina. La parola offerta a Dio è un voto. E un voto esiste perché sia esaurito – “Meglio non fare un voto che farlo senza adempierlo”. Esaudire un voto: parola che esce dalla crisalide e diventa farfalla di un giorno. La parola offerta a Dio ha un tempo, un tempio: seme che sboccia. Il grano di Dio: le parole che abbiamo deposto al suo cospetto. Al momento esatto egli le falcerà. Allora, il nostro vocabolario, come la terra, dovrà essere divelto e smosso, in attesa di altra seminagione. Parlare: atto contadino, gesto di agrimensura. La caccia non riguarda il parlare, ma l’imitare il verso di chi si insegue. Qui siamo nella cura, non nella predazione – un voto reclude, occlude ogni altro verbo. Il voto, se non si conoscono gli stagionali ritmi, è un vampiro.

Non si resti a lungo legati al voto (neder) per non suscitare l’ira di Dio: un voto non va troncato con la spada, ma raccolto a mano aperta. Per “adempiere” si intende shalam, verbo che ha a che vedere con la completezza, la risoluzione, una fine che consuona. Arrivare al termine di un’opera, mettere la parola fine.

Guido Ceronetti traduce in questo modo i versetti che ho citato:

“La tua bocca non corra
Il tuo cuore non abbia fretta
Di sproloquiare davanti a Dio

Perché nel cielo è Dio
E sulla terra tu

Dunque poche parole”

Come ci si rivolge a Dio, qual è la topografia dell’inno? Sufficiente ripetere parole sacre, insegnate dai patriarchi, offerte dal Figlio. Nel libro dei Re si racconta che quando Dio si rivolge a Elia “non era nel vento… non era nel terremoto… non era nel fuoco”; non era, cioè, negli elementi naturali canonici che annunciano la presenza potente dell’invisibile. Dio è nel “sussurro di una brezza leggera” (1 Re 19, 12; letteralmente: “sottile bisbiglio”), qualcosa che appena si incide nel silenzio, di appena distillato dal nulla. Riconosciuto il verbo di Dio, Elia gli si avvicina, “si coprì il volto con il mantello”. Suono appena scalfito, voce di Dio.

“A te il silenzio è lode, per te si adempie ogni voto”, attacca il salmo 65, in una vocalizzazione raccolta da Girolamo – Tibi silens laud – e da alcuni esegeti, ma respinta da molti (Ceronetti: “Tu sei il Dio a cui Sion dà gloria”), a sottolineare il silenzio mendicante, mancante; fiato che non ha getto, mutismo in muta. Il silenzio incorpora il voto: cosa sarà restituito? Che lingua si parla parlando il silenzio? Quali praterie grammaticali si stagliano lì?

Da qui, la via s’interrompe. Siamo tutti cospiratori, lingua corsiva – o corrispondenti, al cospetto.

***

Qoelet

5

Non affrettare la bocca
        non affamare il cuore
Dio presiede i cieli
tu siedi sulla terra:
sia rara la tua parola

Tentacolari i sogni
sfiancano – il vile
vive di chiacchiere

Adempi ora il voto
contratto con Dio
senza esigenza d’inganno:
lo stolto tentenna

Evitare il voto
è meglio che rivoltarlo

Non imboccare la carne
di colpe – non dire all’angelo
che hai peccato: Dio inghiotte
l’opera delle tue mani

Sogni a branchi:
brancoli nella rovina –
devi avere paura di Dio

Se vedi il povero torturato
ruberia di leggi – giudizio sconvolto
non stupirti: sull’autorità
grava autorità più grande

Vantaggio di un re
che ha dominio sui campi

Chi ama l’argento
non ne ha mai abbastanza –
chi ama la ricchezza
non ne ha ricavo – tutto è
sbadiglio di vento – è nulla

Se si moltiplicano i beni
si moltiplicano parassiti
sanguisughe, insetti d’uomo –
il padrone è posseduto
dai loro occhi

Dolce è il sonno del servo
notte insonne, penuria nottambula
per il padrone insaziabile

Ennesimo dolore sotto il sole:
ricchezza mal custodita e sperpero

Svanisce il denaro
investito male: al figlio
non resta niente

Nudo è uscito dal ventre
         nudo torna alla terra
fatica che non feconda ricavo

Male che ammalia – lebbra:
come è nato muore – fatica
che sfama i venti

Giorni ingioiellati di tenebra
dolore delirante – rabbia
        malattie miliari

Il solo bene
è bere e mangiare
godere dei beni
sotto il sole
che ammazza
per tutta la vita
Dio non dà altro

Il dolore è ovunque: godi
dei privilegi che Dio ti ha dato
consuma il tuo resto – questo è il dono

Dimenticherà la vita
chi corrisponde
a Dio nella gioia

*La traduzione di Davide Brullo da Qoelet è per questo progetto editoriale

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