06 Gennaio 2020

Elogio dell’eroina: da Rey a Ester, dalla Muta alla principessa Mononoke

Nonostante la Bibbia sembri una sfiatata rassegna di re – spesso dissennati o esaltati dal potere – sono le donne a svolgere i ruoli cruciali. Dei Giudici è Deborah – che significa ape – la più grande: “profetessa”, “sedeva sotto la palma… e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia” (Gdc 4, 4; 5). Di Deborah, figura dal verbo affascinante, è uno dei canti più antichi della Bibbia, un canto di lode e di guerra, in cui, tra l’altro, si elevano onori a un’altra donna, Giaele, che ha avuto l’audacia di uccidere Sìsara, capo dell’esercito nemico di Israele. In rotta, Sìsara si nasconde presso la tenda di Giaele: la donna prima gli leva la sete con del latte, poi lo ammazza in modo atroce. “Prese un picchetto della tenda, impugnò il martello, venne pian piano accanto a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a farlo penetrare a terra” (Gdc 4, 21). “Ne fracassò, ne trapassò la tempia,/ ai piedi di lei si contorse, cadde, giacque”, canta Deborah, “sia benedetta fra le donne Giaele” (Gdc 5, 24; 26-27).

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Nei momenti capitali, le donne agiscono: con violenza o con sapienza. Nel primo caso, è statuario l’episodio di Giuditta, “bella d’aspetto e molto avvenente”, dilaniata dal digiuno e dalla vedovanza (Gdt 8, 7), che penetra con lo stratagemma nel campo nemico, avvince Oloferne, “comandante supremo dell’esercito di Assur” (Gdt 5, 1), con le parole, lo vince: “staccò la scimitarra di lui, poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma… e con tutta la sua forza lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa” (Gdt 14, 7). Ester, invece, è l’ebrea – il nome originario è Adassa – eletta regina da Assuero, in Persia, che riesce a estirpare dalla schiavitù e dalla dannazione del dominio Israele in esilio. Il talento di Ester è magico: “elevava a benevolenza gli occhi di chi la fissava” (Est 2, 15). Misterioso, invece, è il ventre di Rut, una moabita, una non ebrea, che unendosi Bòaz, ebreo, darà avvio alla stirpe di Davide e di Gesù. “La miserabile idolatra piena di tenerezza vale per Israele ‘più di sette figli’ (4, 15), i figli che suscita dalla morte più della pienezza della fecondità: da lei nasce l’avo di David, da lei esce la gloria senza fine del regno di Giuda”, scrive Sergio Quinzio nel suo Commento alla Bibbia. Specificando: “il Dio d’Israele redime la straniera Rut; ma è il Dio d’Israele che attraverso l’abominio moabita trova redenzione e fecondità per i suoi figli che sono morti”.

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L’impasto biblico mi è venuto in mente guardando l’ultima puntata – definitiva? – di “Star Wars”, L’ascesa di Skywalker. L’aura sacra del ciclo – un poco di zen, un poco di aikido, un poco di tutto – è banale ma efficace. L’uomo anela all’impossibile: il dominio su questo mondo è niente, il vero potere si esercita nell’al di là. Da sempre, attraverso formule magiche, teorie filosofiche, poemi, armeggi scientifici, l’uomo vuole vincere la morte – per lo meno, fissarla negli occhi senza paura.

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Per lo più, nella vita, conta il rapporto intrattenuto con i morti – fossero pure in forma di pietra, pietrificati, o di albero, sagomati dai tuoni. I morti, però, non sono i pupazzi sorridenti che si vedono nel film di J.J. Abrams. I morti a volte sono benevoli – spesso mordono. Parlare con loro non è una terapia per spianare il trauma, è vita.

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Purtroppo, il film si schianta quando dovrebbe decollare: nell’istante in cui Kylo Ren si converte a Rey, lei lo bacia, lui muore. Adam Driver è il personaggio più riuscito – mentre gli altri sono ‘tipi’, tipici eroi bidimensionali, da fiaba – perché scoscende nel male. Per questo, narrativamente, la porzione della saga più interessante è quella girata vent’anni fa, dedicata alla corruzione di Anakin Skywalker in Darth Vader. In quel caso, il personaggio femminile predominante era la principessa Amidala, interpretata da Natalie Portman. Quando l’ho vista, la prima volta, sono andato al modo in cui Cristina Campo parla della Muta di Raffaello: “è una donna in forma di liuto, silenziosa come solo può esserlo uno strumento posato, abbandonato appena dalle mani”.

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Non se sia una concessione ai tempi aver scelto come Jedi una ragazza: sarebbe una stupidaggine. Nel crinale della storia è una donna – non per forza virile – a ribaltare i canoni del caso. Nei film di Hayao Miyazaki, un capolavoro di fecondità narrativa, le protagoniste sono sempre ragazze: Nausicaä (in Nausicaä della Valle del vento), Kiki (in Kiki. Consegne a domicilio), Mononoke (in Princess Mononoke), Chihiro (in La città incantata), Sophie (in Il castello errante di Howl). In particolare, la Rey di “Star Wars” sembra la sintesi di due eroine di Miyazaki: Nausicaä e Mononoke. Della prima richiama l’audacia nel preferire il bene al di là di ogni ragionevolezza, la capacità di esiliare il terrore, di soffocare la paura che porta all’aggressività, la dote di entrare in contatto con ogni creatura (Nausicaä dialogando con i giganteschi insetti che stremano il suo mondo; Rey guarendo e pacificando un mostruoso cobra del sottosuolo). Della Principessa Mononoke, invece, sono desunti l’unicità – è la sola della sua stirpe –, il rapporto con le divinità, la perseveranza nel selvaggio, la necessità di ricomporre l’equilibrio con le forze della natura (rotto dall’azione di religiosi malvagi e dal genio sinistro di un’altra donna, Signora Eboshi, che signoreggia sulla Città del Ferro).

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Diversamente da quasi tutti i personaggi del ciclo fiabesco di “Star Wars”, ogni eroe di Miyazaki non è assolutamente buono né assolutamente malvagio. Porta in sé la dote del bene, la possibilità del male. In realtà, è proprio il bene a sfuggire dal gergo umano, dalla sua comprensione – l’uomo annaspa, entro la mandorla di un candore.

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Nel 1953, per l’editore Casini in Roma, Cristina Campo abbozza “una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi”. La lista pensata per un “Libro delle ottanta poetesse” va da Saffo e Corinna a Christina Rossetti, Rosalia de Castro, Simone Weil. Dovremmo costruirla, completando la rassegna di queste donne virtuose al verbo. Questo, in ogni caso, voleva essere un elogio dell’eroina. (d.b.)

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