Il racconto biblico di Davide reca il senso della poesia. Secondo la storia, narrata nel primo libro di Samuele, Davide è giovane e bello; è il più piccolo dei figli di Iesse, quello a cui nessuno, all’apparenza, riconosce virtù regali. Unto dal profeta Samuele, Davide entra al servizio di Saul, il re d’Israele – figura tragica, shakespeariana viene da dire – con due compiti: è il “suo scudiero” (il custode delle armi) e il suo poeta. Nella poesia – nella lirica: parola che si accomuna a musica – è implicito un valore di lotta, violento.
Gli attributi di Davide, il re poeta, “dolce salmista di Israele” (2 Sam 23, 1), sono la cetra (kinnor) e la fionda (qela’). Sembrano strumenti analoghi, con corda, muti: la cetra richiede capacità retorica, la fionda qualità strategica. Occorrono mani capaci, occorre addestramento. Non è cosa da tutti accordare lo strumento.
Un versetto, in particolare, spiega il valore della poesia nella Bibbia. “Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sam 16, 23). La poesia ha un senso orfico, per variare sul tema: scende negli abissi del cuore, scava l’uomo, allontana da lui gli spiriti cattivi. Ha un valore sciamanico, benefico. Saul è un re roso dall’inquietudine, unto di colpe, che consulta la “negromante” di Endor: la poesia ha mani pazienti, lo placa.
Lenitivo temporaneo, certo, la poesia: non richiama in vita i morti (Orfeo), ma porta ai portoni del padre (i Salmi).
Cos’è lo “spirito cattivo” (ruah hara’ah) che dilania Saul? Il nocciolo linguistico di quel “cattivo” ci conduce a ra’, il male originario, che troviamo in Gn 2,9, quando si parla dell’“albero della conoscenza del bene e del male”. La poesia, allora, ci riporta all’Eden, per un attimo, nel mondo puro, che precede la distinzione tra bene e male, buono e cattivo, giusto e ingiusto. Dove non esiste vergogna perché tutto è nudità.
La poesia – senza reflui nostalgici che fruttificano disperazione – pone su una soglia. Obbliga al bivio.
Presso l’Arca, Davide “saltava e danzava davanti al Signore” (2 Sam 6, 16), seminudo, provocando il disprezzo negli occhi della figlia che lo fissa. Le parole diventano gesti: lo svergognato di Dio balla perché quella è la sua regalità. Il poeta-guerriero, maniaco di Dio.
*
Non so bene perché ho scritto queste cose: forse per ribadire che la poesia è un tu-per-tu, gira scalza, danza, può uccidere, si occupa di scacciare – inconsapevole, mai innocua – gli spiriti cattivi.
Di recente, infatti, in Italia si è parlato di poesia per i suoi aspetti quantitativi. È un paradosso. La poesia non si legge – non vende, è invendibile, per fortuna – ma si produce in quantità abnormi. Così, al Premio Strega Poesia, prima edizione, una buffonata, hanno concorso 135 libri, da cui ne sono stati selezionati 44 – che è come dire 135mila o 4444, un numero vale l’altro. È come dire, cioè, che la poesia non conta nulla. Visto che non conta nulla – per sua fortuna – allora, forse sarebbe stato meglio che il “Comitato scientifico” (un concetto accademico, dunque poco poetico) eleggesse un unico poeta, e stop. La competizione va bene per il romanzo, genere che nasce nell’alveo borghese, industriale, produttivo; stride per la poesia, parola sottile, legata al tiaso e al dedalo divino, alla corte e allo scorticato. No. Il poeta non ammette di essere uno tra tanti: egli è il solo. Se sfida deve essere, che sia un duello al sole, una di quelle ‘gare poetiche’ che si facevano, per dire, nel Giappone medioevale, in cui si scriveva, all’impronta, lì per lì, ispirati o disperati, una poesia su temi canonici: la primavera, i fiori di ciliegio, il memento mori…
Non per competizione o per competenza vince il poeta, ma per eversione, semmai, evasione dai ruoli, divina invasione.
Ecco: al concorso preferiamo la gara, alle manovre occulte dei comitati scientifici la sfida a viso aperto, alla strega e ai negromanti la chiamata divina – e il disattendere la chiamata.
Poi i poeti sono tanti – tanti non sono neppure poeti benché lo credano; tanti sono poeti bravissimi. Tra i poeti ‘in concorso’ allo Strega, ad esempio, mi pare ovvio che vinceranno Umberto Fiori o Vivian Lamarque; ma a quel punto, perché non assegnare un ‘premio alla carriera’? Mi pare bello il libro di Silvia Bre, Le campane; mi piace la poesia di Gabriel Del Sarto e quella di Roberta Castoldi, leggo sempre Stefano Simoncelli e Massimo Gezzi, vorrei che vincesse Federico Italiano perché La grande nevicata è un bellissimo libro. Ma il punto non è quello. Che senso ha uno Strega ricopiato per i poeti? Secondo me un poeta rifiuta tutti i premi tranne il Nobel – e i premi pieni di soldi, ottenuti di straforo, per sotterfugio.
*
Tommaso Di Dio è un nome da evangelista apocrifo, meraviglioso. È tra i 44 poeti selezionati allo Strega. 44 immagino non sia un numero qualsiasi, ha venature pitagoriche; ma alla selezione, mi ripeto, preferisco l’elezione.
Ad ogni modo. Tommaso Di Dio ha messo le mani nel costato della poesia: ha pubblicato per il Saggiatore uno studio antologico che s’intitola Poesie dell’Italia contemporanea. Anche in questo caso, è prediletta, addirittura in ‘quarta’, la quantità alla qualità. “Più di seicento poesie. Più di duecento autori. Cinquant’anni di poesia italiana”. Anche in questo caso, le cifre non vogliono dire nulla, dicono il nulla, con teatralità aritmetica, hanno una neutralità che condanna. “Più di duecento autori” potrebbero essere anche più di duemila, cosa cambia?
Tommaso Di Dio inquadra la poesia italiana in cinque decenni, dal 1971 in qua, convocando i fatti della nostra storia, dalla lotta armata alla caduta del muro di Berlino, dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi all’oggi, “una fede in niente ma totale”. Sembra di sfogliare un album di figurine; le poesie sono le stelle filanti, le decorazioni, i poeti i vessilli, i figuranti.
I poeti, cioè, mi pare, nel lavoro di Tommaso Di Dio – scritto bene, con garbo, con un poco di brio – sono figure a margine, che non sfondano, alla mercè, merce. Tra i poeti ci sono tante belle scoperte – Michele Zaffarano, Isacco Turina, Claudia Castellucci, ad esempio, oltre a Simone Cattaneo, a me tanto caro – come tante mancanze. Quelle, a occhio, più gravi – non per il gusto, va da sé, ma per la maestria, cioè per l’importanza germinale, oggettiva – mi paiono Andrea Temporelli (o Marco Merlin, che dir si voglia), Andrea Ponso, Gian Ruggero Manzoni, Riccardo Ielmini, Valentino Fossati.
Certo, è difficile, quasi impossibile dire il contemporaneo. Pier Vincenzo Mengaldo, un’era fa, nel 1978, aveva radunato una cinquantina di Poeti italiani del Novecento per uscire dalle pastoie del consolato Pascoli-D’Annunzio. Una falange di poeti organizzati in pleromi. Alla triade Ungaretti-Montale-Saba e al pentagono Bertolucci-Luzi-Caproni-Sereni-Zanzotto facevano seguito altri gruppi, misti, a piacere. Ergo: erano chiare le gerarchie, dunque, per spirito di sovversione, qualche ‘minore’ (Rebora, Sbarbaro, per dire, diciamoli così) poteva ambire a farsi grande. Giganteggiava, ai margini, Dino Campana.
Oggi resta il branco – e la biada è troppa, si va all’ingrasso lirico. Le vie per censire il contemporaneo, così, sono enciclopediche (in Trent’anni di Novecento, Book Editore, 2005, Alberto Bertoni riferiva le uscite librarie con scheletriche schedine, o mo’ di album) o per principio di enogastronomico egotismo (Braci, Bompiani, 2021 è un repertorio della “Poesia italiana contemporanea” secondo gli incontri e i vezzi di Arnaldo Colasanti, tanto da diventare, per lo più, un’opera romanzesca propria, autonoma, del critico). Nel 2005 Daniele Piccini tentò di descrivere La poesia italiana dal 1960 a oggi per individui, da Luciano Erba ad Alessandro Ceni, secondo l’organo dell’autorità individuale: 19 personalità a riassumere, anche qui, cinquant’anni di italica lirica.
*
Né enciclopedica né carismatica, né ideologica – che intelligenza meravigliosa la Poesia italiana del Novecento elaborata da Sanguineti – né istrionica, l’antologia di Tommaso Di Dio – mille e pagine e passa a 35 euro – non si sa bene a cosa serva, se non a far risplendere quel nome, da bruno evangelista, se non a ribadire che i poeti sono tanti, bravi a tratti, a tratteggiare il vuoto che resta.
La cifra spaventa noi poveri pettirossi, il computo, l’esercizio del censimento – punito da Dio, perché non ha conto ciò che conta –, convince che è bene cambiare alloggio, mutare passo e passione, formula e forma.
Ma la poesia è materia labile, che non sta dentro chiese, botteghe, angiporti. Ha bisogno di vivere libera, con il coraggio di spiumarsi e se possibile di mettere una doppia arcata di denti, le unghie retrattili. Di fare l’incendio o l’accordo stagionale coi rapaci. All’opera critica, forse, preferisce il capriccio, che si fa, semmai, eccidio.
Opinioni di un clown.
*
Al momento, mi pare poetica la figura di Evgenija Černosvitova, l’ultima segretaria di Rilke, la sola che lo ha visto morire. “Che cosa significhi questa perdita per noi, per l’umanità – Voi stesso lo capite e lo sentite. Che cosa significhi per me – non sono neanche in grado di esprimerlo”, così scrive, l’11 gennaio del 1927, a Leonid Pasternak, il pittore, amico di Rilke e padre di Boris. Scrive che “Rilke ha sofferto molto, soprattutto gli ultimi giorni”, che “è sepolto in un piccolo cimitero sperso tra le montagne del suo amato Valais, non lontano dal castello di Muzot dove ha vissuto in solitudine tanti silenziosi inverni, tante afose estati”. Al padre, Evgenija ricorda che Rilke “amava molto” il figlio, Boris.
Nella busta, affrancata a Beauvallon, in Francia (“il paese dove lui desiderava molto che potessi recarmi”), la donna inserisce anche una fotografia del poeta – e memoria e monito e conforto.
Chissà che vita ha avuto, se ha scritto, e dove, e per chi, e che latitanza, a latrati – e nessuno che possa catalogarla, reperirla, riferirla.