“All’ultimo luogo, dove tendono le stelle”. Chandra Candiani, o dell’arte della fiaba
Libri
Franco Acquaviva
Collezionare pezzi di carta accartocciata da perfetti sconosciuti, magari incrociati per caso al bar parigino della brasserie La Lorraine, in place des Tornes: ebbene sì, fino a tanto poteva spingersi l’ossessione di Pedro Duytveld – «un tipo snello, molto scuro, dallo sguardo intenso» – conosciuto sul treno diretto a Zurigo, un attimo dopo aver superato l’imponente fabbrica del Fernet-Branca. Lui che con quei “rifiuti” ci riempiva le pareti della sontuosa villa des Termes, la stessa in cui aveva vissuto Jean Luchaire, freddato da un colpo di fucile dopo la Liberazione. Il perché lo facesse, poi, risiedeva nel gioco di luci e ombre che su ogni lato della carta si alternavano casualmente, frutto dell’inconsapevole e troppo spesso irruente azione dell’uomo. O forse no e c’era dell’altro, chi può saperlo?
Ecco, questa è soltanto una delle storie contenute in Qualche collezionista (Johan & Levi, 2024), la splendida galleria di ritratti che Pierre Le-Tan ha dedicato ad alcuni dei personaggi che ha incrociato sul suo cammino, tutti immancabilmente irregolari, tutti ammalati di quella strana malattia chiamata collezionismo – che, più che una semplice passione, è piuttosto una vera e propria sindrome dell’accumulo, un desiderio, talvolta spinto fino alla nausea, di infantile possessione.
Figlio di un pittore vietnamita e di madre francese, l’autore, scomparso a Vilejuif nel ’19, è stato illustratore di riviste prestigiose – New Yorker, Vogue, Harper’s Bazaar – e grande appassionato d’arte, con un destino insolito: quello di conoscere o semplicemente aver avuto la fortuna di avvicinare nel corso della sua lunga vita gli eccentrici tipi umani presenti in questa raccolta. La quale naturalmente comprende anche sé stesso, Pierre Le-Tan in persona. Non apparirà banale, allora, dire quanto la sua e le altre biografie – nel volume saranno in tutto una ventina – siano tasselli di un unico grande mosaico, un paesaggio di esperienze accomunate dalla sola cosa che riguardi realmente noi tutti: l’essere vulnerabili. In tal caso, nei confronti del bello, il più contemplativo e inutile possibile.
Come spiega l’autore, questa debolezza – certo patologica ma tutt’altro che dannosa – risale a quando il padre, durante il secondo conflitto mondiale, «si stabilì a Nizza», in una casa che ricordava molto da vicino quella di «Anatole France: tessuti antichi, sculture religiose medievali, mobili Luigi XIII e persino un frontale da cavallo, una sorta di maschera di metallo per i destrieri del Rinascimento». Naturale, dunque, che il giovane Pierre – accompagnato fin da piccolo dagli antiquari e al mercato delle pulci, dove in regalo poteva ricevere, tra le altre cose, l’enciclopedia illustrata da Hokusai, una tazza della Compagnia delle Indie e un frammento di pittura cinese – diventasse a sua volta «un insaziabile collezionista», e che il suo destino fosse «guardare, cercare, desiderare e acquistare oggetti e opere». Non per specularci sopra, e nemmeno per l’idea della decorazione fine a sé stessa, ma per la profonda necessità di acquistare qualcosa di indispensabile. Dai libri ai pittori del Bloomsbury Group, tra cui Vanessa Bell, sorella di Virginia Woolf; dalle armi e armature del Giappone alle fotografie di Cecil Beaton; dalle tele di Lucien Freud e Francis Bacon, fino all’interessamento per i “neoromantici” e l’archeologia islamica, Pierre Le-Tan ha sempre «venduto tutto prima che acquistasse un valore», compiacendosi di aver amato quegli oggetti «in anticipo sulle folle che, solo in seguito, se ne sono innamorate».
Il suo è il destino del collezionista povero, senza guadagni ma neanche rimpianti, non come gli uomini d’affari di oggi che usano l’arte e il mecenatismo per avere più potere, più soldi, più glamour. Pensando di autoincoronarsi, in realtà annaffiando la mala pianta del loro conformismo, non riusciranno mai a raggiungere la qualità testimoniale di una collezione come quella di Calouste Gulbenkian a Lisbona – eccolo il modello da perseguire, l’unico cui valga la pena conformarsi – dove eclettismo e perfezione rendono la vanità dell’uomo il sigillo di un’epoca, l’occhio di una civiltà intera. E di modelli, a dire il vero, in Qualche collezionista se ne trovano tanti e ognuno diverso. Si pensi a Eduard M., parigino giramondo, che sulla bacheca bianca situata sopra la scrivania teneva allineati i suoi disegni parecchio simili a quelli di Antonin Artaud; e nella camera da letto
«una vertebra dipinta raffigurante un personaggio, delle selci, un fallo artificiale appartenuto al poeta Robert Brasillach, una fotografia dell’attrice Michèle Morgan nuda, che sfoggiava con fierezza il pube, il passaporto di Bakunin e delle chiavi, molte chiavi, alcune di epoca medievale».
Oppure alla straordinaria figura del signor Wu, «un anziano cinese che viveva in un piccolo padiglione», possessore di «una delle più belle collezioni di porcellane che ci si potesse immaginare». O, ancora, alle case di Tangeri e Milano dello scrittore Umberto Pasti: l’una, piena di cianfrusaglie pescate al mercato delle pulci, «un tempo residenza di Sanche de Gramont, più noto come Ted Morgan, il biografo di Somerset Maugham»; l’altra, stipata di
«piume del Sudamerica, frammenti archeologici, opere di un’epoca che interessava entrambi: disegni di Filippo de Pisis, di Philippe Jullian, naturalmente, di Celiscev, e alcuni quadri di Christian Bérard e dei fratelli Berman».
Infine, a Pierre R., il cliente fisso dell’Hotel Drouot con l’immancabile sciarpa rossa al collo, ex direttore di un grande museo e collezionista di artisti quasi sconosciuti che, di fronte al palazzo in cui un tempo soggiornava Francis Scott Fitzgerald, aveva fatto del suo appartamento una specie di labirinto ricolmo di ogni cosa, fosse una tela di Philippe Champaigne o qualche ninnolo veneziano, a cavallo tra kitsch e incanto.
Si potrebbe continuare, insomma. E, come in un crescendo, gli esempi non farebbero altro che aumentare la curiosità. Così come il rimpianto per una specie – fatta di uomini ancora legati alla materia, all’oggetto fisico – in rapida estinzione qual è quella ritratta da Pierre Le-Tan, che senza accorgersene ne ha testimoniato alla grande gli ultimi fuochi. Oggi però al bando la malinconia. Se scrivere un ritratto è segno di ottimismo – almeno così dice il nostro principe dei ritrattisti Giancarlo Perna – in Qualche collezionista di motivi per tenere alto l’umore il lettore ne troverà più d’uno. Tutto sommato, potrebbe pure bastare.
Alberto Scuderi
*In copertina: Joseph Cornell, Untitled (Lily Losch), c.1935-38