Agnus Dei
L'Editoriale
L’ermeneutica – in particolare quella inaugurata da Hans-Georg Gadamer – ci insegna a considerare, nella genesi ed evoluzione del pensiero, non soltanto i concetti, ma anche la Wirkungsgeschichte, ovvero la storia dei loro effetti. In campo estetico, possiamo impiegare la stessa immagine per riflettere sulla potenza iconica di talune espressioni figurative. La loro significanza nella storia dell’arte – e, in senso lato, nella storia delle idee – è confermata dagli effetti esplosivi che questi capolavori hanno suscitato nei cuori degli impavidi ed eccentrici viaggiatori dello spirito che hanno osato scrivere “note a margine” dei loro contorni. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla Gioconda, alla sua infinita storia. Per usare un’immagine icastica: da Leonardo ad Andy Warhol, passando per Duchamp. Se, nell’emblema citato, lo strappo dal modello – uno strappo sperimentale, à la Fontana – è netto, rivoluzionario, modernissimo, è bene ricordare che vi sono artisti interessati a un’arte dal compito assai differente. Un’arte che sia paziente, costante, sofferto lavoro tecnico e, insieme, iterazione della differenza e dell’unicità nella metamorfosi del segno. Un’arte, cioè, che accolga la sfida della contemporaneità – ogni arte è sempre, in fondo, contemporanea a se stessa – facendosi tuttavia carico dell’integrità della propria tradizione. Meno sensazionale, più intima e compassata, quest’arte, tutta ispirata all’idea di meraviglia (su cui, in Occidente, si riflette almeno partire dalla celebre dichiarazione platonica sulla nascita della filosofia) si realizza nel dialogo. Tra presente e passato.
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È un’arte che ben si presta a fronteggiare il tempo della povertà su cui s’interroga Hölderlin nell’elegia Pane e vino, su cui si interroga Heidegger in Sentieri interrotti, domandando a Hölderlin ragioni e risposte, su cui ci interroghiamo oggi noi, domandando ad Heidegger di domandare a Hölderlin. Anche questa è la pietà del pensiero che il filosofo tedesco ci ha lasciato come stile imperituro dell’interrogare, del tentare, del pregare.
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Simile è la disposizione artistica cui si ricollega l’impegno estetico di Davide Foschi e del suo dialogo con Leonardo Da Vinci. Si tratta di un discorso che l’artista milanese intrattiene col maestro fiorentino da diversi decenni – dalla sua infanzia, stando alle note biografiche contenute nel volume Il segreto di Foschi. L’artista tra luce e mistero, a firma di Alberto Sacchetti. Un colloquio che si esprime attorno a due nuclei portanti della postura artistica (ed esistenziale) leonardesca: l’olismo antropologico e l’estetica del sovrasensibile.
Con la prima espressione ci riferiamo a una qualità del “Leonardo filosofo” (così lo definisce Karl Jaspers) che ne fa l’emblema par excellence della cultura rinascimentale: la convinzione dell’essenza organica, relazionale, pluridimensionale dell’uomo, e la conseguente necessità di integrare macrocosmo e microcosmo mettendo in dialogo i diversi saperi. Quella multidisciplinarietà che Foschi ha potuto approfondire e, a sua volta, stimolare, facendosi portavoce di due grandi progetti, fra loro collegati: l’avanguardia artistica del Metateismo e la sua proiezione “movimentistica”, il Nuovo Rinascimento, che dal 2016 ha conquistato le principali città italiane mettendo in relazione e dialogo arte, letteratura, filosofia, musica, scienza, economia, gastronomia persino.
Con la seconda espressione, estetica del sovrasensibile, intendiamo rifarci all’etimologia greca della parola aisthesis, che significa “percezione”, in senso sensibile, empirico appunto. Ne deriva una formulazione ossimorica che permette di identificare efficacemente la pittura leonardesca come un affascinante tentativo di riunire la dimensione del sensibile e quella del sovrasensibile – ossia immanenza e trascendenza, materia e spirito, umano e divino – entro lo spazio della pittura. Il segno artistico diviene così foriero di una potenza trasfiguratrice e unificatrice: il Due viene ricondotto all’Uno. Questo processo si realizza portando a compimento la natura pontificale dell’immagine, che è, strutturalmente, costante compresenza simbolica di particolare e universale – un ponte, appunto, fra questi mondi.
A tale prospettiva estetica si richiama esplicitamente Foschi nella sua pittura, accentuando, grazie al ricorso agli sfondi dorati da lui tanto amati, il richiamo all’icona tradizionale, ossia a quella forma artistica che più di ogni altra ha sapientemente espresso la dinamica sopra indicata. Aprendo all’uomo le porte regali di cui parla Pavel Florenskij: grazie ad esse la materia stessa, «avendo ricevuto il suo sussistere dalla Bellezza assoluta, conserva, grazie alla sua ordinata composizione materiale, qualche traccia della bellezza intellettuale. Sicché è possibile, con la mediazione della materia, innalzarsi agli archetipi immateriali». Lo stile di Foschi incorpora, in questo senso, un’estetica del sovrasensibile: mostra senza dimostrare, svela senza identificare, allude, sempre mirando al viaggio prim’ancora che alla meta. L’arte diventa risveglio, consapevolezza, iniziazione. O, forse, semplicemente torna ad esserlo.
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Il Dialogo con Leonardo Da Vinci diventa, per Davide e per il suo pubblico, un tramite d’eccellenza di questo passaggio. Il suo emblema ultimo è la Nuova Cena, l’opera su cui l’artista ha negli ultimi tempi maggiormente meditato. Una tela, infatti, che rimanda ad altri lavori, speculari e progressivi, in un percorso che si snoda fra numerose creazioni, tutte accomunate da una rilettura feconda dell’Ultima Cena leonardesca. Compiendo un balzo indietro – e, insieme, in avanti – Foschi diventa antenato e, nel contempo, discendente di Leonardo, ne raccoglie l’eredità, la prospetta nella novità del futuro, quello in cui la Cena non è più ultima, ma nuova; eppure la sua novità si realizza nell’arcana trasfigurazione sacra, a sfondo dorato, che annienta tutte le forme sensibili nella potenza estatica della luce. Mezzi arcaici per progetti postmoderni. Anche questo è Davide Foschi.
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Per proseguire il Dialogo con Leonardo, in occasione del celeberrimo cinquecentesimo, l’artista ha concepito una struttura artistica imponente: una Nuova Cena retro-illuminata capace di suscitare, con la risonanza offerta dalle moderne tecnologie, l’esperienza di meraviglia che contraddistingue la sua poetica. Facendo, in questo modo, del suo vigoroso segno pittorico una leggiadra forma musicale, capace di rappresentare iconicamente il metamorfico procedere della storia. Proviamo a comprendere il tempo come musica – sembra dirci Foschi. Nella musica, infatti, così scrive il filosofo russo Aleksandr Dugin, «udiamo la nota antecedente, quella presente, e anticipiamo la successiva. Altrimenti, se ci limitiamo a udire una sola nota, udiamo rumore, non musica. Così la storia e il futuro non sono una nota completamente nuova, ma la continuazione della melodia che stiamo attualmente suonando». Adottare quest’orecchio musicale, per sintonizzare il futuro con il passato e percepirlo nella potenza dell’istante presente, è compito quanto mai arduo, ma necessario. Alla ricerca di quell’Origine che è insieme interna al tempo e al di là del suo fluire.
Luca Siniscalco
*In copertina: Davide Foschi, “Nuova Cena”