17 Ottobre 2024

Se ti metti a strizzare questo libro, vedi il sangue gocciolare giù sul pavimento…

Se non fosse stato per le mie amiche Sara e Valentina che me l’hanno regalato, forse non avrei mai letto Di cosa è fatta la speranza (Bompiani, 2024). Tutta colpa del titolo del romanzo di Emmanuel Exitu che mi sembrava, a una prima, superficiale, occhiata, un po’ troppo buonista e retorico per i miei gusti. Tutta colpa di quella parola, quel vocabolo antico e pieno di polvere “speranza” che, a sua volta, mi suggeriva il suo contrario: l’essere senza speranza, la disperazione vera e propria. Strano, mi diceva nel frattempo Valentina, il titolo è proprio quello che, all’inizio, mi ha catturata del romanzo.

Come spesso accade, mi sbagliavo. Non appena ho varcato le soglie del romanzo, infatti, mi sono trovata subito a casa, sin dalle prime righe:

“la speranza è il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio”.

Il romanzo percorre, e ricostruisce, vividamente, la storia di Cicely Saunders, un personaggio realmente esistito, un’infermiera prima e una dottoressa poi che si è presa cura degli incurabili, di quei malati “spacciati”, di cui non c’è più nulla da fare. Da sperare, insomma. Il romanzo, precisa l’autore che ha anche vinto meritatamente con quest’opera il Premio Comisso, non è una biografia: “il personaggio di Cicely non coincide con la persona, però le si avvicina, a volte parecchio, a volte anche confondendosi, perché trae in senso ampio dalle informazioni tratte dalla vita e dagli scritti di Cicely Saunders, dalle pubblicazioni che parlano di lei e dai documenti del suo archivio al King’s College a Londra”.

Il romanzo, nelle sue quattrocento pagine e rotte, cattura, disorienta, stupisce, innamora, ti costringe a un corpo a corpo con la vita, la sua brevità e l’abisso incurabile della sofferenza. Perché – mi dicevo mentre leggevo – questo scrittore non può che averla conosciuta a fondo e fino in fondo la sofferenza per descriverla così bene e minuziosamente, quella cavità carsica del male che ti spezza in due, quello fisico che diviene anche psicologico e che ti fa sputare il sangue e l’anima. E poi pensavo sempre mentre leggevo, se ti metti a strizzare questo libro, quel sangue lo vedi gocciolare giù sul pavimento. Ma oltre e insieme alla sofferenza, c’è la cura, la prima e primitiva forma d’amore e questo struggente e tragico tentativo di curare la vita che coincide sempre con una malattia a causa della quale presto o tardi soccombiamo e di cui poi, sotto sotto, non capiamo bene il senso. E cerchiamo cocci di un disegno divino.

La grandezza di Emmanuel Exitu è proprio quella di dare vita al personaggio di Cicely che esce dal buio della storia ed entra nelle stanze luminose della letteratura. La conosciamo e presto ci affezioniamo a quell’andatura curva e goffa da giraffa, lei così alta e un po’ brutta, quei piedi lunghi e quelle sue anomalie anche biografiche – siamo nel bel mezzo del secolo scorso mentre infuria la Seconda guerra, lei non si sposa mai ma conosce e riconosce l’amore –, insomma questa Cicely Sauders che molla l’Università di Oxford perché ha deciso di diventare infermiera e frequenta la Nightingale Training School for Nurses e parte da Londra per curare i feriti di guerra. Presto si rende conto con orrore che per un medico un moribondo è una causa persa e insieme tempo perso. Così annota tentativi e fallimenti, intuizioni e buone pratiche che consentono di lenire la sofferenza di chi non è guaribile, rende vivibili quegli ultimi estremi giorni che non hanno minore dignità degli altri giorni di una vita. Quando si accorge che il diploma di infermiera è una coperta troppo corta per curare e scaldare l’inverno dei malati senza speranza, si laurea in Medicina e, nel 1967, apre il primo moderno hospice, non un luogo dove si va a morire, ma dove si può vivere con dignità, coccolati e curati, avvolti non dal tanfo di morte quanto circondati dalla dolcezza di un aroma delizioso di una torta appena sfornata.

Di cosa è fatta la speranza poi parla di che cosa è fatta la vita, o di cosa dovrebbe essere fatta. La speranza è fatta anche di tempo e di parole che si dicono e che non si sono mai dette.

“Il tempo nel quale si parla con gli altri e con se stessi: per alcuni una novità, per altri una cicatrice, per chiunque una ferita che si riapre e spurga le infezioni. Per quasi tutti è scoprire che la speranza è fatta di parole che per mille malvagi motivi non si sono mai dette e che ora si dicono, non perché si deve ma perché si vuole e finalmente si può. E poi anche di parole che per gli stessi malvagi motivi si sono sempre dette e che non si dicono più, non perché non si deve ma perché si vuole e finalmente si può. E poi è fatta di altri milioni di cattivi motivi che non se ne vanno, e continuano a uccidere più o meno velocemente come fanno i tumori”.

Leggere questo libro potrebbe essere consigliato, quasi una medicina, a chi ha perso la speranza per strada o per chi invece si dedica alla cura del prossimo, un infermiere, un medico, un insegnante, un po’ per egoismo, un po’ per viltà. Magari anche con indifferenza. Prendersi cura degli altri è un lavoro doloroso e fatto di rispetto: “Prima di ogni terapia, la medicina è uno sguardo all’altro pieno di rispetto”. Perché nessun dolore deve essere considerato “trascurabile”, meno grave di un altro.

Parte della lezione di Cecily si basa proprio su questo:

“Dobbiamo rispondere a tutte le chiamate, anche quando siamo consapevoli che ci faranno male, che ci schiacceranno le dita, ci romperanno la testa, ci faranno molti tagli sulla pelle e sull’anima”.

Ma in fondo, si tratta un “dolore incredibilmente legato al meraviglioso, che prima ti scuoia e poi ti sbrana e poi va all’osso, e quando hai finito vuole il tuo spirito”. Il cammino di “quella cosa piumata/ che si viene a posare sull’anima/ canta melodie senza parole/ e non smette – mai –”, come scriveva Emily Dickinson.

Linda Terziroli

*In copertina: Joaquín Sorolla, Bambino al mare, 1905

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