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Cultura generale

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Libri
Massimo Maggiari
Cooperstown esiste ancora oggi: 1800 anime e un tot nella contea di Otsego, stato di New York. Il village è famoso perché accoglie il National Baseball Hall of Fame Museum, ma deve la sua fama e la sua nascita a William Cooper, mercante, abile proprietario terriero, che fonda il borgo nel 1785, tra boschi e fiumi, e lo chiama con il suo nome. L’undicesimo dei dodici figli di William Cooper, che servirà al Congresso degli Stati Uniti, è James Fenimore Cooper, il primo scrittore autenticamente americano.
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Fenimore Cooper – nato a Burlington, New Jersey, nel 1789, cresciuto nella città fondata da suo padre – era uno studente discontinuo, discolo. A 13 anni, a Yale, un giorno fece esplodere la porta della camera di un amico, un altro giorno fece recapitare al prof di recitazione, in aula, un asino. Fu espulso. Era quel che desiderava. Anelava l’oceano – come Melville, qualche decennio dopo – e nel 1806 fu reclutato su un mercantile come mozzo. In marina trovò affari per il suo genio: girò l’Europa, guidò una esplorazione verso le cascate del Niagara, gli diedero il timone di un bombardiere. Nel 1806, nel Mediterraneo, venne a conoscenza delle guerre napoleoniche, fu impressionato dalla forza della British Royal Navy, e al cospetto degli antichi padroni degli States si convinse che il suo Paese aveva bisogno di una letteratura autonoma, autoctona, di una cultura non più serva della vecchia Europa. Si sposò, nel frattempo, nel 1811, a 21 anni, con Susan Augusta de Lancey, piuttosto ricca. Da lei ebbe sette figli, di cui uno, Paul, sarebbe diventato avvocato di grido; Susan, naturalista autodidatta e scrittrice attenta ai diritti per le donne, fu, invece, la sua fedele segretaria. I propositi di dare agli Stati Uniti una letteratura propria si concretizzarono ‘all’americana’, cioè con tanta volontà – leggendo un po’ di Jane Austen e di Walter Scott, trascinando Shakespeare tra le foreste americane –, cominciarono nel 1820 con un libro piuttosto modesto, Precaution.
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Fenimore Cooper era un uomo solido, meticoloso, metodico. Quando, duecento anni fa, si mise in testa di fondare la letteratura statunitense, si applicò con l’energia di chi vive una missione. Fino al 1851, la data della morte, pubblicò un libro all’anno, a volte di più – nel 1838, per dire, pubblicò un saggio, The American Democrat, un reportage dall’Italia, un libro storico, The Chronicles of Cooperstown, e due romanzi. Il romanzo più celebre, L’ultimo dei Mohicani, uscì nel 1826, ed è il secondo capitolo dei “Leatherstocking Tales”, il capolavoro di Fenimore Cooper (che comprende, in ordine di apparizione, The Pioneers, The Prairie, The Pathfinder, The Deerslayer). “Leatherstocking”, tradotto, in italiano, ora come Calza di Cuoio, ora come Occhio di Falco, è un vecchio cacciatore, un uomo tra i due mondi, quello dei coloni e quello dei nativi, che vive nella natura americana pur essendone, di fatto, ospite inatteso. Come Mowgli e Peter Pan, varca i mondi, ma non è un fanciullo, ha la concretezza di un Robinson Crusoe. “Sappiamo che si trova ‘in queste pianure per sfuggire al rumore dell’ascia, perché qui non arriveranno i taglialegna’. Oggi il contenuto del messaggio di Leatherstocking verrebbe definito ‘ambientalista’. Il vecchio scout disapprova lo scempio immotivato che Ishmael fa dei pochi alberi che crescono nel luogo dove si accampa e lancia il suo avvertimento sulle conseguenze dell’espansione coloniale nel West: ‘Non ci vorrà molto prima che la maledetta banda di boscaioli e taglialegna che sta alle loro calcagna venga a umiliare le terre selvagge… così quella terra diventerà un deserto popolato, piena di tutti gli abomini e le opere dell’uomo e spogliata della serenità e della bellezza che ha ricevuto dalle mani del Signore!’” (così Ira Rubini nella ricca Postfazione a La prateria, edita da Frassinelli nel 1997).
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Da L’ultimo dei Mohicani – tra i rari libri di Fenimore Cooper che ancora resistono nel nostro panorama editoriale: le avventure ci piacciono meno, forse – sono stati tratti una decina di film. Il più bello è l’ultimo, diretto dal bravo Michael Mann nel 1992: in quel caso Nathaniel Bumppo/Occhio di Falco è un indimenticabile Daniel Day-Lewis. Del film è oro l’incipit: la corsa miliare di Day-Lewis nelle foreste irochesi, all’inseguimento del cervo.
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Fenimore Cooper era un inquieto. Nel 1826 parte per l’Europa, conquistando i favori di Balzac e di Victor Hugo, che con enfasi lo giudicava “il più importante romanziere del secolo”. I francesi erano conquistati dal paesaggio esotico e crudo dei romanzi di JFC e dalla sua scrittura involuta, complessa, contorta (che oggi lo rende lettura difficile per i poppanti del libro). Scoprì che anche Franz Schubert lo leggeva con gioia, sognando, forse, il West a Vienna; i suoi romanzi furono tradotti, con un successo insperato, in Russia. JFC non disdegnava la fama, tuttavia, i marmi e i cristalli e i salotti europei gli vennero in schifo: tornò negli States nel 1833, livido con il mondo. Nel 1838 Home as Found costituisce una specie di atto d’accusa, “è un caustico commento sulle mancanze della sua nazione: le leggi della plebe, la stampa irresponsabile e ingiuriosa, la deferenza verso l’Europa” (Daniela Guglielmino nell’edizione Einaudi de L’ultimo dei Mohicani). Finì per stare sulle scatole a tutti, il cantore della vita nelle praterie. Dopo di lui – ma anche grazie a lui – nacquero Nataniel Hawthorne e Herman Melville, Henry James e Edith Wharton. I romanzi di Fenimore Cooper, intagliati nel legno, furono svergognati. Edgar Allan Poe era geloso del loro successo; Mark Twain spaccò JFC in quattro: “non ha invenzione, non ha ordine… non ha nessuna verosimiglianza, nessuna tensione, nessuna forza emotiva”. Anche Fernanda Pivano, che pure lo ha tradotto, ne minimizzò il talento: “imitatore, ebbe la fortuna di imbattersi in una materia romanzesca quasi vergine e di saperla sfruttare secondo le norme di una scuola letteraria (il romanzo storico) già largamente accettata”. Eppure, è dalle tortuosità linguistiche di JFC e dal suo senso per il selvaggio che nascono, raffinati, Whitman, Faulkner, Hemingway. L’uomo al cospetto della natura trionfante: il tema ‘romantico’ trovò in JFC una prima sistemazione romanzesca; ecco perché non dispiaceva a Joseph Conrad. Il fatto che ogni capitolo dei suoi romanzi ‘indiani’ sia introdotto da una citazione da Shakespeare, poi, fa tenerezza: la patria linguistica è sempre quella, come entrare nella giungla discettando sull’essere, sulla vita evanescente come un’ombra, sui molteplici nomi di Dio.
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L’unico, strenuo difensore di Fenimore Cooper, il primo romanziere degli Stati Uniti che scrisse L’ultimo dei Mohicani, fu David H. Lawrence. A lui le ingenuità e i colori forti piacevano: all’armonia rinascimentale, risolta, preferiva la purezza primitiva, grezza. “Per l’America il mito è un uomo che volta le spalle alla società dei bianchi e che mantiene solida e intatta la sua integrità: un solitario, stoico e forte uomo che vive di morte, eppure è limpido e puro. È questo il vero americano. Se lo vedete rompere il suo isolamento statico e fare un movimento nuovo, attenti: qualcosa sta per accadere”. Pare una profezia. Da affiancare a quell’altra, scritta da Fenimore Cooper: “I visi pallidi sono i padroni della terra, verrò l’ora dei pellerossa”. In ogni caso, JFC voltò le spalle agli uomini del suo tempo, tornò nel paese che aveva fondato suo padre e riaprì Otsego Hall, la villa di famiglia. Era chiusa da decenni. I suoi l’avevano costruita tra il 1796 e il 1799, pietra su pietra, colonne e finestre. Questa è l’America, gente: uno che bivacca in una foresta, costruisce una casa, avvia una stirpe. Il bosco non aveva ancora vinto l’abitato. JFC si ritirò lì a scrivere libri di storia, cioè a fare la storia. Lì morì. Di Otsego Hall non restano che disegni: fu sbriciolata da un incendio poco dopo la morte di Fenimore Cooper. La figlia Susan costruì una villa secondo i ricordi dell’altra, edificata dal nonno, abitata dal padre. Questa è la vita – e c’è qualcosa di biblico in questo. (d.b.)