
“Non dobbiamo salvare il mondo”. Friedrich Dürrenmatt, l’amministratore del caos
Letterature
Alessio Trabucco
Eccomi qui nel deserto d’altura a riflettere su di una grande figura dell’esplorazione artica: Roald Amundsen. Non sono né in Groenlandia o nel Canada artico. Al contrario, nel magico Messico della tradizione Huichol. Arrivato a notte inoltrata a Real de Catorce ho appena passato l’inquietante tunnel assieme a cavalli e vetture. Oramai è almeno la decima volta che consumo un tale rito. O l’ennesima volta che osservando quel budello scavato a mano spero di farcela. Riuscito nell’impresa, a piedi faccio un giro dentro il paese. Dopo avere comprato latte e muffin, la stanchezza vince sempre di più e mi ritrovo col fiatone per l’altitudine. Non resta che andare a letto. Riposare pensando al giorno dopo, e prepararsi alle consuete avventure sulle cime di Real. Le cose però non vanno come previsto. Insonne e fradicio di freddo, trovo difficoltà a prendere sonno. Di quando in quando, ho l’impressione di sostare su di una soglia che non riesco ad attraversare. In mezzo a quell’impasse, mi vengono in mente Roald Amundsen, e chissà perché, un libercolo letto tanti anni fa intitolato Il re del mondo, dell’esoterista francese René Guénon. Un titolo peraltro ripreso da Franco Battiato per una sua fortunata canzone.
Di Amundsen rivedo come in un flash i tratti essenziali della sua storia di esploratore, e della sua fine. Nel 1928, il norvegese era scomparso assieme al pilota Leif Dietrichson e un equipaggio di quattro francesi, nel tentativo di salvare Umberto Nobile naufragato sui ghiacci dopo la caduta del dirigibile Italia. I sei soccorritori erano partiti su di un idrovolante Latham 47 da Tromsø il 18 giugno alle 4 del pomeriggio. L’aereo era stato messo a disposizione del governo francese, malgrado il parere avverso dell’Italia fascista e probabilmente di altre nazioni coinvolte nelle operazioni di soccorso. A questo punto, raggiungere il capitano Nobile era diventata anche una questione di prestigio politico. Oltre ai 2,500 litri di carburante, il velivolo risulta carico di materiali di ogni genere per l’operazione di soccorso riuscendo ad alzarsi solo dopo il quinto tentativo. L’ultimo messaggio dal Latham 47 giunge via radio alle 6 e 45 di sera. Su Amundsen e i suoi compagni cala dopo quel breve notiziario il sipario della storia umana.
Ma chi era veramente Roald Amundsen se ne parliamo ancora oggi? E non intendo la figura pubblica acclamata dai fan ma l’essere umano nella sua dimensione più vicina all’anima? Queste sono le domande che mi passano per la mente alle tre del mattino in una Real de Catorce immersa in un silenzio interrotto solo dal rantolio di qualche mulo. In effetti, l’esploratore norvegese è un individuo di tale carisma che si ha difficoltà a immaginarlo persino morto. Di lui, del Latham, dei compagni non fu mai più rinvenuta traccia. Eccetto pochi relitti e un galleggiante dell’idrovolante recuperati dopo qualche tempo sulle coste norvegesi. Un mistero fitto che ha quasi raggiunto l’anniversario dei cento anni e che ha sconfitto, nell’estate del 2009, anche l’organizzata spedizione della regia marina norvegese (con tanto di robot e mini-sub al traino) che aveva sperato di aver individuato il relitto vicino all’Isola dell’Orso. D’altronde, sin dagli albori della sua carriera di esploratore, il mitico Amundsen era sparito più di una volta in artico per rispuntare vivo destando lo stupore di chi lo aveva sottovalutato o dato per disperso. Per questa ragione, nel 1928, le ricerche perdurarono sino all’autunno, nella speranza – quasi certezza – che il Napoleone dei Poli sarebbe riapparso su qualche isola deserta o sopra un iceberg alla deriva. Ma non fu così. Dopo l’avvistamento dei superstiti del dirigibile Italia, il 21 giugno, il vero disperso a poco a poco diventò Amundsen. Ad aeternum.
Fiumi d’inchiostro seguirono dopo la scomparsa rendendolo ancora presente. Visto però l’ampio numero di scritti dedicati a questo esploratore che non gli hanno perdonato nulla, a livello personale e professionale sento l’esigenza di proporre un’interpretazione diversa del personaggio grazie a indizi solo apparentemente marginali. Abiurando chi ha divulgato una finale valutazione del norvegese esaltandone soprattutto le ombre anziché i meriti. In virtù di questi ultimi, credo che il ricordo di Roald Amundsen sia tuttora vivo e in cammino con la nostra storia. Il suo rapporto cordiale e d’apertura con il popolo inuit nel Passaggio a Nord-Ovest anticipa di gran lunga il processo di de-colonizzazione avviato ai nostri giorni. In ugual modo, la sua vocazione all’esplorazione rivela un’indole che ha molto in comune con l’attuale filosofia olistica. Amundsen possedeva fiuto, valutando persone e situazioni all’interno di una visione d’insieme in cui metteva l’intuizione al servizio della sopravvivenza. Per di più, ciò avveniva in una fase storica in cui rango sociale o militare, pregiudizio razziale e orgoglio nazionalista ancora contavano con conseguenze nefaste per le spedizioni artiche. Gli antichi greci avrebbero riconosciuto nell’abilità dimostrata da Amundsen la saggezza di Metis, la figlia di Oceano e Teti. In altre parole, una strategia di relazione con gli altri e con la natura basata sull’astuzia dell’intelligenza in cui situazioni mutevoli o imprevedibili vengono corrisposte da un’azione immediata che risolve l’impasse. Tale approccio lo aiutò molto nel gestire il rapporto con i compagni di spedizione o nella scelta delle rotte da seguire, quanto pure nel trovare soluzioni ad imprevisti di tipo logistico o ambientale. Fiuto e intuizione si rifanno a una visione del modo a 360 gradi in cui uomini, animali, mezzi e territorio, sono considerati come un tutt’uno. Specialmente se affiancate da una lucida compassione e lealtà. Amundsen lo dimostra sul campo in mille occasioni, e nel 1926 oramai famoso, facendo visita al dottor Frederick Cook finito in prigione a Leavanworth in Kansas. Con lui, il norvegese alle prime armi aveva condiviso una drammatica esperienza sulla nave Belgica minacciata dallo scorbuto e bloccata nei ghiacci dell’Antartide. Roald sentiva di dovere all’americano della sua vita e non lo dimenticherà anche quando l’amico cadrà in disgrazia. Ma c’è ancora dell’altro. Lo onora pure l’indignazione che l’esploratore aveva provato davanti agli orrori della guerra e per lo sfruttamento dei popoli artici da parte di certe forze politiche. Nell’ottobre del 1917, dopo l’affondamento di un bastimento norvegese da parte di un sottomarino tedesco, andò all’ambasciata tedesca per restituire tutte le decorazioni che aveva ricevuto in passato.
Amundsen era un eroe pacifico che detestava il militarismo e rimase inorridito al massacro della migliore gioventù sul fronte occidentale. Vista la potenziale distruttività del progresso tecnologico, il norvegese era sicuro che quella guerra mondiale sarebbe stata l’ultima auspicando assieme ad Alfred Nobel per una politica della pace in cui l’esplorazione geografica si metteva al servizio dell’umanità per promuovere sviluppo e comprensione tra i popoli. Anche il suo uscire di scena sarà un gesto di generosità.
Quel lontano giugno 1928, il Latham spuntò come una stella cadente planando in mezzo ai pescherecci nella baia di Tromsø. A bordo ci sono Amundsen, l’esperto Dietrichson, il comandante francese Guilbaud e il tenente de Cuverville, con la mano ferita coperta da un guanto di cuoio. Nel frattempo, la gente sul molo è intenta a guardare uno spettacolo di modernità e agile volteggio. Si mormora un solo nome in mezzo a tale folla trepidante. “Amundsen! Amundsen! Eccolo… è lui!” Il velivolo è ammarato. Fervono i preparativi e seguono le scelte degli ultimi istanti. Poi tutti salgono a bordo, pronti alla partenza per andare in soccorso agli italiani di Nobile. Solo Oscar Wisting rimane dispiaciuto sul molo. Non c’è posto per lui sull’idrovolante sovraccarico. Quell’esclusione gli salverà la vita. Non poteva non causargli un gran dispiacere dopo sedici anni d’avventure condivise che lo avevano portato in giro per l’artico e alla conquista del Polo Sud. A tale uomo così temprato, le lacrime scendono copiose sulle guance. Lui non lo sa ma sta dando addio al fraterno compagno Roald Amundsen. Nel dicembre 1936, Wisting morirà per un infarto a bordo della Fram quando la nave, oramai giunta al Bygdøy in Norvegia, sta per diventare il cimelio di un museo. Lo trovano privo di sensi nella sua cabina. Anche lui, fino alla fine è parte di un destino legato all’artico di Amundsen.
La mezzanotte del 18 giugno, le stazioni radio di Tromsø annunciano che non si hanno più notizie del Latham. Sfortunatamente, il tempo porta tempesta, il vento da nord-ovest imperversa e si teme il peggio. Già dalla mattina del 19 giugno, le squadre di soccorso si mettono alla ricerca di Amundsen in direzione dell’Isola dell’Orso e di Spitzberg. Ovunque si parla di quella scomparsa sui giornali, alla radio, per le strade. Molti aspettano e sperano. Altri come il capitano Wisting a bordo di un peschereccio puntano immediatamente a nord per cercare Amundsen. Intanto, per il mondo dirama la notizia, e i giovani dall’Asia all’Europa e alle Americhe tremano per l’eroe che manca all’appello. La fede nel norvegese è salda: un uomo così non può morire. Deve essere vivo, in attesa di un momento propizio.
L’esoterista francese René Guénon sostiene che secondo alcune tradizioni dell’Asia centrale, esiste un mitico sovrano di un regno sotterraneo nascosto agli occhi degli uomini e circondato da esseri semidivini o illuminati. Lo studioso identifica tale figura come il re del mondo, promotore di un centro iniziatico che è di sostegno e ispirazione al mondo intero. A tale re farebbe riferimento una fratellanza/sorellanza di esseri di luce che guiderebbe i destini del mondo. A tale congrega mi auguro appartenga Roald Amundsen. Chi non vorrebbe salpare verso l’ignoto con una simile guida al proprio fianco? D’altronde, che i tempi siano strani, propizi od ostili poco importa. È certo che l’ignoto apre il proprio sipario ad ogni nuova alba che ci attende. Mentre noi sempre in cammino, non saremo mai soli.
Massimo Maggiari