Nei bassifondi della carne. “La Gana”, il romanzo incarcerato
Libri
Luca Buoncristiano
C’è qualcosa di radioso nella tenebra – certamente di ipnotico. Nel 1933 il Nobel per la letteratura va a Ivan Bunin, raffinatissimo scrittore russo emigrato a Parigi – ed è proprio quello l’anno in cui André Malraux, autore di romanzi lancinanti e lanciati – I conquistatori, La via dei re – mette un riflettore sul ceffo screziato della Storia, usando il coltello pubblica La condizione umana, e vince il Goncourt. Quel romanzo. Un manifesto dell’individualismo feroce, della fede nell’amicizia, del tradimento della Storia – sopra la linea di galleggiamento di un Asia fluorescente, livida, bizantina. L’epica della contraddizione in un linguaggio che lambisce l’esplosione, varca gli estremi, i chiaroscuri, come se Malraux usasse una penna caravaggesca, costellasse di candele la trama, un Georges de La Tour che anticipa i tremori postumani di Philip K. Dick. “Trasformò il viso: bocca serrata e tirata verso il mento, occhi socchiusi, come un samurai da Carnevale. E come se l’angoscia che le parole non bastavano a tradurre si esprimesse direttamente in tutta la sua potenza, cominciò subito a fare smorfie: eccolo tramutarsi in una scimmia, in un idiota, in un tipo spaventato, in un viso tumefatto, in tutte le maschere del grottesco che un volto umano può esprimere”: eccolo lì, l’autoritratto di Malraux, l’uomo dalle mille facce, il romanziere e l’ambizioso, l’ambivalente seduttore, l’ambiguo truffatore, il bandito e l’uomo politico, lo zerbino di De Gaulle e il sodale di Picasso, l’avventuriero e il diplomatico, l’uomo che ha vissuto troppo incarnando un inquieto senso di morte, l’antitutto. Ma uno scrittore non è questo, uno che si inscrive nella vita e che resta, inossidabilmente, inafferrabile? Ridotto a quel romanzo pazzesco, La condizione umana, più utile di tanta filosofia da gattabuia esistenzialista, Malraux torna a noi con un linguaggio sgargiante, nella nuova edizione Bompiani del capolavoro, tessuto da Stefania Ricciardi, già traduttrice di Marguerite Yourcenar, di Claude Simon, tra i tanti. Con Stefania siamo d’accordo: occorre ripubblicare – e ritradurre – le Antimemorie, che sono l’autobiografia romanzesca – o il romanzo autobiografico – di Malraux, lo specchio istoriato e ustorio de La condizione umana. Didatta della Storia, allucinato dal proprio ego, dilagante, Malraux teneva sulla lingua l’Asia (“Ho udito i frammenti di tegole mandarine della Città Imperiale quando le volpi sbucavano fra gli astri violetti ai piedi delle muraglie; i frammenti turchesi della Scuola coranica di Isfahan dove le rose crescevano ormai selvatiche dietro porte d’argento; i frammenti di porcellana dei templi siamesi che vengono ancora chiamati pagode…”), nel palmo sinistro l’Occidente e negli occhi la vita, dacché “gli artisti non parlano d’arte che in termini di vita, e la vita delle opere è diventata per loro il maggiore enigma”. Catabasi, dunque, nell’enigma Malraux. (d.b.)
“La condizione umana”: ci dettagli l’importanza di questo romanzo, che è anche l’apice del talento letterario di Malraux, in cui, mi pare, si traccia una ‘terza via’ tra i romanzi assoluti (Joyce, per dire) e quelli ‘di genere’. Cosa la affascina di quel romanzo?
Pubblicata nel 1933 da Gaston Gallimard, che per l’occasione strappa definitivamente Malraux a Grasset, La condizione umana, rappresenta ancora oggi una pietra miliare del Novecento letterario, tanto da figurare al quinto posto nella classifica dei migliori cento libri del secolo stilata da “Le Monde” in collaborazione con la FNAC, precedendo classici come quelli di Céline, Nabokov, Fitzgerald, García Márquez. Per quanto le classifiche siano opinabili, è comunque il segno della sua centralità nell’immaginario comune e nel dibattito contemporaneo non solo francese, se si pensa che Mario Vargas Llosa ha indicato La condizione umana come un’opera maestra, una delle più folgoranti della nostra epoca. Credo che il tempo continui a conferire grandezza a questo romanzo incentrato sull’uomo di fronte al proprio destino, con gli eventi storici che, lungi dall’essere un semplice sfondo, si riflettono nella coscienza dei personaggi. Al di là della profezia – tutto sommato facile – dell’ascesa dell’Oriente nello scacchiere politico mondiale, Malraux ha saputo cogliere il vertiginoso divenire dell’uomo novecentesco e credo che sia questa sua capacità premonitrice a costituire la grandezza della Condizione umana attraverso il tempo.
Ciò detto, mi sembra opportuno ricordare le profonde innovazioni sul piano stilistico e tematico che hanno contribuito al successo dell’opera, coronata dal Prix Goncourt. Malraux, strutturando il testo sulle tecniche del cinema, ha cambiato il modo di scrivere, sulla scia di altri capolavori dell’epoca come Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald ma soprattutto Manhattan transfert di John Don Passos, entrambi del 1925. Il confronto tra il manoscritto e l’edizione Gallimard del 1933 – passando per la versione apparsa in anteprima, da gennaio a giugno, sulla “Nouvelle Revue Française” – mostra il montaggio di scene scritte in momenti diversi e assemblate come sequenze di una messinscena narrativa. Nell’ottica tematica, La condizione umana introduce una novità di rilievo nella letteratura francese: perno del plot non è più l’introspezione o la psicologia – soprattutto amorosa – dei personaggi, ma la situazione dell’uomo nella Storia e nell’universo, un’esperienza non meno importante ma di sicuro meno esplorata.
Sul piano strettamente personale, il fascino del romanzo ha più volti: è il brivido che percorre Chen prima d’infilzare il coltello nella sua vittima dormiente, è l’immensità del dono di Katow che si accolla sofferenze atroci risparmiandole a due giovani semisconosciuti, è il viso “da morta” di May respinta dall’uomo che ama e che la ama, è il dolore per la perdita di una persona cara. Sono pagine toccanti perché mostrano l’animo umano non solo nell’eroismo, ma anche nella percezione della propria limitatezza e negli impulsi più carnali come il rancore, la gelosia, la vendetta.
La lingua di Malraux, ovvero: la fatica del traduttore. Come ha fatto ingresso nel linguaggio di Malraux, che strategie ha usato?
Come sempre, mi accosto all’opera da tradurre tendendo innanzitutto l’orecchio. È fondamentale: cerco di cogliere il ritmo, l’intonazione – che avvicina all’intenzione del testo. La prosa sfrondata, sincopata, della Condizione umana non facilita l’approccio. La “resistenza della carne al coltello” che perseguita il giovane Chen anche dopo l’omicidio si è come riflessa nella resistenza che avvertivo nel penetrare quella scrittura tenebrosa, a tratti criptica, straniante, ma con repentini, significativi squarci di luce: non a caso nel manoscritto, a margine, compaiono parole come éclairage e lumière. Il “disegno” delle scene narrate non è stato complicato. La difficoltà maggiore è consistita nell’applicare il chiaroscuro: gli effetti di luce, che Malraux dosa con parsimonia sortendo esiti tra i più poetici, e le gradazioni d’ombra, marcate da un’allusività variamente declinata. Credo che alcune scene non proprio nitide – e la foschia e la nebbia sono una costante nel romanzo –, certi ritratti sfumati, le parole sottintese, se da un lato confermano l’aura di mistero che cinge ogni essere umano, dall’altro invocano la partecipazione del lettore e alimentano la sua fantasia nel riempire quei vuoti, nel mettere a fuoco un’immagine. Ho trovato affascinante anche questo aspetto. L’edizione originale della Bibliothèque de la Pléiade, con l’apparato critico e le molteplici varianti tra le diverse edizioni fino a quella definitiva del ’46, mi ha aiutato a orientarmi nelle zone più oscure. È evidente, poi, che non si è trattato di entrare solo nel linguaggio di Malraux, ma anche nel contesto storico e culturale della Cina e della rivolta operaia di Shanghai nel 1927, il che ha richiesto un notevole lavoro documentale.
Qual è il tema sotterraneo della “Condizione umana”, che idea di mondo, di vita, tra azione e lacerazione, appare?
L’idea di una grande labilità: se non si agisce con efficacia e tempismo, tutto può crollare da un momento all’altro, un impero finanziario come l’ideale politico. Anche il potere è effimero, illusorio e, nella fattispecie, addirittura in balia degli umori femminili: l’insuccesso più cocente per Ferral, il presidente della Camera di commercio francese e del Consorzio franco-asiatico, è la beffa inflittagli dall’amante, non il fallimento delle proprie imprese. Di durevole restano l’amicizia e la fraternità, e l’adesione a valori comuni ha un tale spessore da prevalere sull’esito concreto dell’azione. Eppure il potere ha attentato alla condizione umana, perché ha trasformato quasi tutti gli uomini in bestie. Significativa la riflessione di Kyo in carcere: “Quegli esseri indistinguibili che brulicavano dietro le sbarre, inquietanti come i crostacei e i colossali insetti dei suoi incubi infantili, non erano più umani del carceriere. Solitudine e umiliazione totali”. Ecco, il tema sotterraneo del romanzo credo risieda proprio nell’idea di solitudine, spesso accompagnata dall’umiliazione, che pervade i personaggi a livelli diversi. Sfuggire a questa situazione è difficile se non impossibile. C’è chi s’impegna nell’azione, chi si rifugia nell’oppio, chi si crea un mondo alternativo. È il caso di Clappique, l’estroso personaggio che incarna quel tratto di stramberia onnipresente in Malraux, forse per compensare la gravità della meditazione metafisica.
In Malraux, sappiamo, vita immaginata e vissuta, biografia e romanzo si confondono. Penso, per questo, che le ‘Antimemorie’ siano il suo vero capolavoro, l’emblema di un intellettuale ‘anti-’, pur essendo stato fautore della cultura nella Francia ‘gollista’. È d’accordo?
A mio parere il capolavoro di Malraux è La condizione umana, ma le Antimemorie reggono egregiamente il confronto. Anche in questo caso Malraux ha cambiato il modo di scrivere un genere, l’autobiografia, tradizionalmente fondata sulla verità fattuale. Ponendo le memorie della propria vita all’intersezione con quella tendenza che dieci anni dopo, nel 1977, Serge Doubrovsky avrebbe definito autofiction, vale a dire la “finzione di eventi e fatti strettamente reali”, Malraux ha rinnovato il canone delle opere non inventate scritte in prima persona: il ricordo non è più da cercare dietro di sé, ma davanti a sé. Nella retrospezione, dunque, e nel futuro prospettico, perché il vissuto di un individuo è fatto anche di fantasie inconfessate, di desideri inappagati, di attese. È un concetto espresso peraltro dal Clappique della Condizione umana: “Non contava né il vero né il falso, ma il vissuto”; “Bisogna introdurre i mezzi dell’arte nella vita, mio caro, non per farne arte, ah! Buon Dio, no!, ma per una vita più ricca”. Per l’elevato valore di testimonianza narrativa, mi auguro che Bompiani ristampi le Antimemorie, dopo averle pubblicate nel ’68.
Provo una fatale affinità. La Yourcenar e Malraux sono scrittori entrambi affascinati dalla Storia e dalle culture ‘altre’. La differenza del loro linguaggio cela anche una differenza di personalità, penso. Chiedo a lei, che li ha tradotti entrambi, di tracciarla.
Tra Malraux che ha fatto delle bugie una forma d’arte e Yourcenar che ha improntato la propria vita alla ricerca della verità non può esserci distanza maggiore, riflessa tutta nelle rispettive opere. Malraux era ossessionato dall’azione. Nella Condizione umana si legge: “Un uomo è la somma delle sue azioni. Di ciò che ha fatto, di ciò che può fare. Nient’altro”. Anche lo stile di vita è in palese contrasto. Al rigore anche espressivo di Yourcenar, al riserbo più assoluto e alla fuga dai riflettori, alle battaglie ecologiche, pacifiste e salutiste, si contrappone la leggendaria mitomania di Malraux, l’atteggiarsi a dandy, l’esistenza fuori dal comune, modellata sul mito, con frequenti incursioni nell’alcol e nella cocaina. La passione comune per i viaggi, per l’Oriente e per la Storia sottende implicazioni diverse. Se l’autrice delle Memorie di Adriano era stata educata ai viaggi sin dall’infanzia, e il richiamo dell’Oriente era anzitutto culturale (settantacinquenne, aveva deciso di studiare il giapponese) e filosofico, religioso, legato al buddismo, i primi viaggi di Malraux, in particolare quello con la moglie Clara in Indocina, per ritagliare alcuni bassorilievi e rivenderli a qualche ricco collezionista europeo o americano, avevano uno scopo materiale, e il desiderio d’Oriente rappresentava il fascino dell’avventura esotica, comune a tanti giovani intellettuali. Riguardo alla Storia, per Yourcenar era una fonte preziosa di conoscenza per andare alle radici del mondo e di se stessa, mentre per Malraux era l’occasione di lanciarsi nell’azione: la guerra di Spagna, la Resistenza francese. Si tratta di due personalità originali che nutrivano sogni altrettanto originali: Malraux voleva diventare Dio, Yourcenar desiderava morire “ad occhi aperti”.
Non mi pare che Malraux, che pure ha scritto libri vertiginosi – penso ai saggi su Picasso, l’idea del ‘Museo immaginario’ – goda di grande successo in Italia, rispetto ad autori come Camus e la Yourcenar. Come mai, secondo lei?
Camus e Yourcenar sono romanzieri di maggiore impatto, sia per i temi trattati che per la scrittura. Non so poi fino a che punto la poliedricità della figura di Malraux – critico d’arte, oratore, uomo d’azione, ministro in due governi de Gaulle – abbia condizionato il giudizio sulla sua opera letteraria, considerata perlopiù “politica” e legata a un contesto ben preciso.
Da esperta: che cosa andrebbe tradotto in Italia della letteratura francese, che cosa, ora, vorrebbe tradurre?
François Bon, classe ’53, meriterebbe l’attenzione del pubblico italiano: Sortie d’usine, Paysage fer, Daewoo sono pregevoli narrazioni tra fiction e nonfiction, il terreno più fecondo della letteratura attuale. Infine, ho riletto di recente un bellissimo romanzo ambientato a Barcellona, La marge, dello scrittore surrealista André Pieyre de Mandiargues. Prix Goncourt 1967, è stato pubblicato da Feltrinelli nel ’68, con la traduzione di Antonio Porta. Ecco, mi piacerebbe ritradurlo. È un altro romanzo da riportare in libreria, insieme alle Antimemorie, naturalmente.