10 Novembre 2022

Le librerie? Una boutique dell’ovvio. Lo dice Papini…

Credo d’essere sempre stato un autolesionista, sin dalla più tenera età. Consapevole di saper dove trovar rifugio e riparo dal mondo soffocante e nauseante, ma sempre incline a immolarmi e a tendere il fianco all’idiozia, pronta sempre a trafiggerti e a trafiggermi. Una delle mie discese negli inferi dell’autolesionismo sono le mie sortite in libreria. Libreria oramai divenuta una boutique dell’ovvio più orrido, un mare magnum di banalità e assenza che, per chi vive di poesia e letteratura, sono una tortura.

Ma è proprio dalla e nella poesia e letteratura che più amo che poi inevitabilmente trovo rifugio e conforto. E a venirmi in soccorso, da quando mi è capitato tra le mani il suo splendido libello Figure umane, libello di sublimi racconti, è Giovanni Papini. Tralascio qui il compiacimento nell’aver trovato una prima edizione Vallecchi del 1940 e sorvolo sulla grandezza di Giovanni Papini stesso, scrittore sublime e al tempo stesso nelle biblioteche di pochi se non pochissimi. In Figure umane c’è uno racconto che sembra scritto allora proprio per me adesso, come monito. Un monito spassoso sebbene così realistico, di mondi contrapposti (quello delle pagine e il mio) ma spaventosamente uguali. Il racconto è Il libraio inverosimile.

E “il libraio inverosimile”, tratta proprio di una libreria e del suo singolare ospite:

“Parecchi librai ho conosciuto, nel regno e fuori, in tutte le città dove ho trascorso più di tre giorni, ma nessuno m’è rimasto impresso nella memoria come il canuto scontroso che aveva bottega in uno di quei pubblici corridoi lastricati che piglian luce da piazza della Signoria. Ho detto per abitudine bottega: avrei dovuto dire sgabuzzino o stambugio: era, infatti, uno di quei buchi dove di solito si accovano e si affaticano i risuolatori di scarpe e che misurano, sì e no, due metri per te. Ai lati dello sporto, però, v’erano due vetrine mobili attaccate al muro cogli arpioni e piene di libri in fila, con le costole in vista. Libri vecchi, non antichi, ed eran sempre gli stessi”.

E venendo al presente, anche le librerie odierne sembrano tutto fuor che librerie, dove i libri son solo un fastidio in mezzo a chincaglierie varie e di ogni sorta.

E anche in mezzo a quel fastidio è quasi impossibile scorgere qualcosa che cerchi e che ti serve davvero:

“ho il diritto di affermare, per quanto tema di non esser creduto, che in trent’anni di seguito ho visto sempre i medesimi titoli e i medesimi volumi”.

Poi certo, pur sapendo di non cavarne nulla, uno ci prova sempre, io ci provo sempre.

Ma come per l’io narrante del racconto:

“Eppure proprio a motivo di codesta incredibile immutabilità, non potevo fare a meno di chinarmi e spiare, cogli occhi miopi appoggiati sulla rete di fil di ferro che proteggeva quei tesori, se per caso qualche novità ci fosse. Disappunto perpetuo: le copertine diventavano ogni anno più stinte e più logore ma eran sempre quelle, eternamente le stesse”.

Anche io mi ritrovo eternamente dinnanzi le stesse copertine, appunto, che esse siano di un Missiroli, di un Giordano o di un Carofiglio, libri stinti, logori di nulla e di niente e nulla che possa destare la mia curiosità se non rifugiandomi, come mi tocca sempre fare, nella letteratura e la poesia che fu.

E se tra gli scaffali non trovi nulla, non trovi nulla nemmeno nel commesso (il libraio pare figura oramai estinta), sempre uguale, sempre anonimo, sempre assente:

“E neppure lui cambiava. Passavano le stagioni, diventavano date storiche i millesimi e il mio libraio era giuppersù quale l’avevo visto le prime volte: un vecchietto di poca altezza e di scarsa carne, con la testa a pera coperta da corte ciocche bianche, due occhi chiari e fissi di gatto sospettoso e due baffetti spelacchiati a dispetto”.

Le cose peggiorano se, a uno di questi commessi, hai l’avventatezza di chiedere un consiglio o di indicarti un libro:

“Non s’avventuravano ad accostarsi che giovinetti inesperti, provinciali spersi o bibliomani forestieri e qualunque libro chiedessero la risposta era sempre quella, fissa ed eterna – non ce l’ho. Né lo diceva con gentilezza e rammarico, ma sempre con aria di soddisfazione maligna e trionfante. Se l’amatore accennava con il dito che il libro era in una di quelle sue miserande vetrine, l’asprigno vecchio non si scomponeva. – Quella non è l’edizione che cerca lei”.

Il racconto si conclude rivelando al lettore il motivo di essere di quella libreria e di quel libraio, che sono poi gli stessi che spiegano la desolazione che del desolante oggi. No, non svelo l’arcano e l’inghippo, cercatevi una copia del libro in qualche bancarella o in un mercatino del libro usato, le sole autentiche isole dove scovar ancora letteratura e poesia. Cercatelo, trovatelo e leggetelo. Questo come tutto ciò che ha pubblicato Giovanni Papini. Anche voi troverete conforto.

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