«Non mi piacciono gli uomini che si sottraggono all’accusa di essere violenti. In fondo, se per violenza sulle donne si intende quel fatto di cronaca terribile, è anche un modo per dire che siamo salvi. Non sono io, non siamo noi, non potremmo mai esserlo. Ecco, non mi piacciono gli uomini che si vogliono salvare».
(Francesco Piccolo, la Repubblica, 21 novembre 2023)
A distanza di qualche anno siamo costretti a tornare sulla figura di Francesco Piccolo, noto scrittore affiliato alla scuderia Einaudi, vincitore di premio Strega, sceneggiatore, già co-autore di programmi televisivi – con i compagni di merende Michele Serra e Fabio Fazio – e via discorrendo. Quest’ultimo arrivò anche a definirlo “il più grande intellettuale italiano”, magnificandolo nella sua trasmissione: cosa su cui ci siamo già espressi, sottolineando come Piccolo si sia distinto soprattutto nel saper affinare una superficialità discorsiva pseudo-impegnata, spacciata per esercizio minimal sapienziale, personalizzandola nella filosofia del cosiddetto “cazzocanismo”, da cui è necessariamente derivato anche il livello dei film che ha sceneggiato.
Ma oggi, dopo la vicenda terribile del giovane Filippo Turetta che a Vigonovo uccide barbaramente l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, un caso di “femminicidio” che per una settimana ha tenuto il Paese in sospeso prima della tragica scoperta, la questione si fa seria. Il quotidiano la Repubblica, dovendo convocare uno scrittore di peso per parlarne con urgenza, si affida a Francesco Piccolo, mentre nelle pagine dei commenti lascia alla solita “filosofa” Michela Marzano un riquadro da riempire coi noti luoghi comuni sul MeToo (“Basta! È arrivato il momento di fare una rivoluzione culturale, di smontare definitivamente gli stereotipi di genere e la cultura dello stupro” eccetera) che qualunque impiegata del catasto saprebbe esprimere con uguale efficacia: le solite Formule Ripetute A Vuoto in cui Marzano è specialista, che qui dimenticano che non si tratta di stupro ma di omicidio premeditato da una mente disturbata. Tornando al tema, già nell’incipit Piccolo mostra l’imbarazzo di dover affrontare una questione così pesante:
«Ogni volta che mi chiedono di scrivere dei maschi, o se non ogni volta, molto spesso, succede che poi in coincidenza c’è un fatto di cronaca orribile che li (ci) riguarda».
Così, non disponendo di tempo sufficiente per una riflessione seria, Piccolo si arrangia con formule che lo possano mettere dalla parte del sicuro, quanto meno al riparo dai possibili linciaggi social che si scatenano ogniqualvolta non si scelgono le parole più convenienti:
«Ora, non voglio parlare di una efferatezza, ma della violenza degli uomini; che non è esattamente la stessa cosa – o per meglio dire, non si tratta solo dei casi estremi».
Dunque, la violenza degli uomini. E secondo Piccolo questa violenza appartiene a tutti gli uomini? Certo, perché «c’è un gancio che unisce i nostri comportamenti quotidiani e i fatti estremi. E quel gancio è: come sono fatti gli uomini, e cioè: come siamo fatti». Gli uomini avrebbero tutti l’inclinazione alla violenza, dice Piccolo, sposando la falsa posizione ideologica che approfitta di questa tragedia per prendere il sopravvento. Ed è comprensibile: lui deve continuare a sceneggiare film, deve continuare a vendere libri e a mettere le mani nella televisione, quindi deve restare sul crinale del consenso a qualsiasi costo, non può rischiare di scivolare giù perdendo lettori ed entrature. Così, per essere sicuro, va avanti rincarando la dose: «Non mi piacciono gli uomini che si sottraggono all’accusa di essere violenti», perché non riconoscersi in quel terribile fatto di cronaca sarebbe un modo per volersi mettere in salvo.
«Non sono io, non siamo noi, non potremmo mai esserlo. Ecco, non mi piacciono gli uomini che si vogliono salvare. Dico di più: non mi piacciono gli uomini progressisti. Perché sono un’invenzione, o al massimo un involucro; o nei casi migliori uno sforzo continuo prodotto per anni, che poi in qualche modo va sempre a schiantarsi».
Che significa sempre a schiantarsi? A schiantarsi “sempre” contro cosa? Piccolo non lo specifica – perché sfrutta le ellissi che simulano sapienza, mascherando un vuoto di idee –, anzi arriva addirittura a dire che «siamo tutti individui uno diverso dall’altro, e in quanto tali possiamo perfino essere progressisti; ma in quanto maschi, no; in quanto maschi, siamo tutti uguali». Quindi, noi maschi siamo violenti nell’intimo e potenziali assassini di donne. Anzi, visto che siamo tutti uguali e si sta parlando del giovane Filippo Turetta, siamo non solo responsabili ma anche inclini a premeditare omicidi ai danni delle ex fidanzate che ci lasciano.
Questo è il Francesco Piccolo assoldato da Repubblica per dare un’interpretazione acchiappa-consensi della tragedia di Vigonovo. Il Francesco Piccolo a cui sfacciatamente “non piacciono gli uomini progressisti”, essendosi sempre venduto proprio come il campione del progressismo maschile; quello che mette da parte la leggerezza del suo cazzocanismo per adottare la versione più seria e meditabonda del piccolismo, fatto di riflessioni apodittiche e indimostrabili, approssimate e inconsistenti ma suadenti e consonanti all’onda del momento. Un piccolismo che, per restare su quest’onda, arriva ad abbracciare la fede dell’oltranzismo femminista più bieco:
«Perché quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile, tanto più combatterà disperatamente. La fragilità ci rende spaventosi, noi maschi; tanto quanto ci rende spaventosi la violenza; soltanto nei maschi queste due caratteristiche sono legate».
Siamo tutti colpevoli, quindi, tutti da punire, perché schiavi della competizione, individualisti e privi di capacità di introspezione (questa la vulgata che sta circolando), non-comunicativi, bisognosi di possedere la donna e di appartenere al branco per avere uno status, votati irrimediabilmente alla sopraffazione dell’altro e via discorrendo.
Ringraziamo Francesco Piccolo per questa inqualificabile lezione di antropologia, certamente preziosa per capire non solo come si parla a vanvera facendosi credere, ma soprattutto come si fiuta il vento e ci si mette al riparo dai pericoli del villaggio globale governato dai social, indipendentemente da ciò che si pensa davvero. Un esercizio di paraculaggine abbastanza maldestro, visto che ci ha parificati tutti – lui compreso – a un giovane assassino che premedita e uccide con ferocia. Potrebbe capitare anche a noi un giorno, chi può escluderlo? Sono incidenti di percorso, ci dice Piccolo. Del resto, il tempo per elaborare una versione fondata della questione era troppo poco e lui ha dato il massimo che poteva, tenendo conto dei suoi mezzi e delle bestie che stanno ringhiando là fuori. E dal canto suo, Repubblica ha voluto battere il ferro inserendo nello stesso giorno un articolo di Raffaella De Santis dal titolo esilarante, per quanto è idiota: Dieci libri per migliorare le relazioni tra uomini e donne e sconfiggere il patriarcato.
Ma vi rendete conto? Il problema millenario delle relazioni fra uomo e donna, col suo drammatico portato di conflitti e sopraffazioni che ancora oggi non si riesce a risolvere, secondo Repubblica può trovare soluzione semplicemente leggendo dieci libri: “Da Robin Norwood a Michela Murgia, da Rebecca Solnit a Emma [Emma chi?] vi proponiamo una guida ai volumi che ragionano su machismo, stereotipi di genere e diritti”. Quindi, per sconfiggere il patriarcato basta leggere i dieci libri che dicono loro. Non è fantastico? In particolare, colpisce l’associazione migliorare le relazioni tra uomini e donne con il nome Michela Murgia: sappiamo tutti che Michela Murgia ha costruito il suo personaggio e il suo successo proprio con le continue provocazioni pubbliche studiate ad arte che attiravano l’odio degli haters, tenuto come alimento e segno di distinzione; il deprecato hate speech era non solo utile, ma necessario per accreditarsi come vittima, aumentare le proprie quotazioni e passare all’incasso. Quindi i libri di Michela Murgia possono essere serviti solo a inasprire il conflitto fra i due sessi, non certo a migliorare le relazioni, e si sfida chiunque a dimostrare il contrario.
Insomma, tutto questo traffico semi-demenziale, impensabile qualche decennio fa, dimostra fino a che punto lo sfruttamento del parco buoi dei lettori può spingere un giornale che un tempo era autorevole, ben diverso dall’officina di argomenti pavloviani e opportunistici che è diventato oggi, incurante del diritto a un’informazione che non sia intossicata da ideologia, da cripto-sudditanza, ipocrisia, opportunismo, superficialità, doppiopesismo, gerontofilia, cerchi magici, diritti acquisiti, progressismo à la carte, disonestà intellettuale. Se i protagonisti di questo teatrino non si vergognano più, ci vergogniamo noi, che una sensibilità l’abbiamo mantenuta.
Paolo Ferrucci