“Il primo presagio, che avrebbe dovuto mettermi in guardia, è stato un cartello esibito a Milano da una manifestante dopo l’affossamento del ddl Zan. Diceva così: “il tempo del potere maschio, etero, cis, non disabile e bianco è finito”. Il mio pensiero è corso a Flaubert – come avrebbe trattato, nel suo sciocchezzaio, una filastrocca del genere? – ma tre femministe intersezionali mi hanno subito rimesso in riga: primo, io sono un uomo chishet (nella neolingua post-atomica significa che non sono né trans né gay); secondo, sono un maschio bianco che “si permette” (sic) di ironizzare su una teoria, l’intersezionalità, creata da una donna nera. Ergo, è naturale che io sia messo a disagio da quella scritta, e farei bene a psicoanalizzare la mia paura di assediato – diciamo pure la mia ‘fragilità bianca’”.
(Guido Vitiello, Il Foglio, 6 novembre 2021)
Ve lo ricordate il famigerato disegno di legge Zan? È roba di un paio d’anni fa, si trattava del tentativo di introdurre nel nostro ordinamento la reclusione fino a diciotto mesi per gli atti di discriminazione fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità”, col carcere che andava da sei mesi a quattro anni per la violenza o l’istigazione alla violenza con gli stessi motivi, o per la partecipazione o il sostegno a organizzazioni aventi tra gli scopi lo stesso incitamento/istigazione. Quando in Senato il tentativo di approvarlo fallì successe un putiferio, con la polveriera fatta saltare in aria dal sociologo Luca Ricolfi sul quotidiano la Repubblica col famoso articolo del 31 ottobre sul politicamente corretto, che squassò le sedie sotto i “virtuosi” di sinistra, consumò fegati e fece gridare vendetta alle varie milizie neofemministe, gay, queer, transgender e altri gruppi derivati, scatenandone le innate pulsioni repressive.
Per capire l’entità dell’affronto ricolfiano basta accennare alla sua premessa: l’annosa smania progressista di riformare il linguaggio, pensando così di poter riformare anche il resto, ha creato «un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio) vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare». Col tempo, in evoluzioni successive, «il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica».
Le polemiche si inseguirono per giorni, in un accavallarsi di maledizioni, di accuse e controaccuse, di teorizzazioni e azzardi concettuali, di forzature logiche e risse deliranti, alimentando una confusione tossica e incomprensibile in cui diventava difficile capire chi fosse contro chi, quale categoria fosse oppressa da quale altra, quali azioni fossero concesse e quali vietate, chi potesse godere di franchigie e chi invece dovesse andare direttamente al rogo. Mai s’era vista una tale confusione d’idee: la vecchia compattezza dei temi e degli intenti rivendicativi, tipica del Novecento, quella che univa le masse, s’era squagliata definitivamente lasciando un ricordo lontano. Ora sappiamo che quel secolo è finito, che sono tramontate le ideologie e si sono persi gli schemi, ma non immaginavamo che le derive rivendicazioniste arrivate da oltreoceano – dove l’antica questione razziale statunitense è incomparabile con la nostra realtà – diventassero tanto irresistibili da influenzare anche la normale intelligenza delle persone. Ricordiamo che in quei giorni di bailamme ci capitò casualmente di cogliere un segnale chiarificatore, e accadde in modo molto semplice, ascoltando una piccola discussione. Può sembrare sciocco, ma spesso sono i dettagli a offrire certe chiavi rivelatrici. Ecco dunque il frammento di conversazione – fra una intellettuale impiegata nella Rete pubblica, una scrittrice di seconda fila e il direttore di un’istituzione culturale – di cui siamo stati testimoni, che cerchiamo di riportare fedelmente.
Lui – «Sentite, a me ‘sta cosa dà disagio. Questa frenesia tassonomica, tutte ‘ste categorie in cui veniamo incasellati, dove ci porta? Io sono etero, maschio, eccetera; poi ci sei tu, che non sei etero ma sei bianca; e tu sei nera, ma integratissima e tutto sommato guadagni bene: dimmi come facciamo a incasellarci. Se io sono A, tu sei B – quindi non A, e tu sei D – quindi non A e non B (e nemmeno C). Ognuno definito in base al gruppo a cui viene assegnato. Ma chi decide come metterci nel gruppo? Con quale criterio? Come diavolo sa dove devo stare io?».
Lei 1 – «No, la questione è questa. Finora il Maschio Bianco Eterosessuale Privilegiato è stato la norma, che ha predominato sugli altri gruppi e non ha avuto bisogno di essere definita, perché ritenuta “giusta” e vincente; mentre gli altri gruppi subalterni – i neri, i poveri, gli omosessuali ecc – sono stati sempre definiti come diversi dalla norma, dalle caratteristiche considerate “giuste”. Adesso, se lamenti di provare disagio nell’essere categorizzato, pensa un po’ a chi questo disagio l’ha provato sempre».
Lui – «Scusa, ma allora non sarebbe meglio impegnarsi per eliminare quel disagio lì dove è sempre stato, piuttosto che trasferirlo dove prima non c’era? Cioè, se questo fosse un malanno, invece di guarirlo lo mandi a infettare anche quelli che non l’avevano?».
Lei 1 – «Quindi tu questo disagio come pensi di eliminarlo, lasciando a loro l’onere? Siamo noi a dovercene fare carico, non loro che devono liberarsene. Noi bianchi li abbiamo sempre tenuti in difficoltà e ora siamo noi a dover rimediare. Per prima cosa lavorando sul contesto, quindi iniziando subito a cambiare la lingua».
Lei 2 – «Esatto: bisogna creare disagio nel Maschio Bianco Eterosessuale, attribuendo quel tipo di classificazione anche a lui, così diventa una cosa formativa».
Lei 1 – «Infatti, è il fastidio tassonomico che diventa formativo: chi si è sempre sentito “normale” ora prova finalmente il disagio di ritrovarsi dentro una categoria che lo definisce e lo marchia. Così, a furia di star male tutti, a un certo punto non se ne potrà più, e venendo tutti incasellati diventeremo tutti uguali. E basta».
Lei 2 – «O tutti diversi».
Lei 1 – «Tutti diversi quindi tutti uguali».
Lei 2 – «Sì… Comunque il fastidio tassonomico è formativo, c’è poco da fare. Come tutte le esperienze che ci tolgono dalla situazione confortante di essere dentro il privilegio di certe “norme” senza essercene mai accorti».
Lui – «No no, scusate, scusate, scusate. Adesso il disagio mi viene ad ascoltarvi. Fatemi capire: io sono Maschio, Bianco, Eterosessuale, Privilegiato, quindi adesso avrei l’onore, finalmente, di prendere la mia giusta quota di disagio personale. Non basta quello che già provo per il disagio altrui, no: essendo ancestralmente colpevole per il disagio delle altre categorie, devo caricarmi di un disagio nuovo, quello tassonomico».
Lei 1 – «Ma non metterla così! Visto che la maggior parte dei MBEP non si è mai preoccupata granché del disagio altrui, è buona cosa che il disagio iniziamo a condividerlo e distribuirlo, no? Se lo dividiamo un po’ per ciascuno il carico di disagio diventa meno pesante, anzi si può creare empatia verso gli svantaggiati».
Lui – «Creare empatia? Guarda, mi spiace, ma spostare quel disagio sulla “maggior parte dei MBEP” non penso sia così formativo, invece può alimentare i contrasti e le contrapposizioni, se non l’odio: temo proprio che avrebbe effetti controproducenti».
Lei 2 – «Ma per noi, quando stavamo negli USA, è stato molto formativo».
Lui – «Sì, ma qui non siamo negli USA, mi sembra!».
Possiamo fermarci qui: a volte basta poco per capire come stanno le cose. Non serve grande acume per vedere come la furia tassonomica che si stava dispiegando, l’invenzione di categorie astratte come “maschio CIS”, “maschio MRA”, “femmina TERF” e altre parolacce senza senso, stupide nel migliore dei casi, vomitevoli nel peggiore, serva più che altro a destabilizzare, a creare conflitti e a esacerbare gli animi, tutte cose di cui molte attiviste nostrane (con “maschi alleati” al seguito) sembrano ghiotte. Uno scenario così deprimente da indurci a di-vertere, a guardare altro, a cercare un senso al di fuori di queste cupezze fanatiche. E, ampliando lo sguardo, dobbiamo riconoscere che l’attività tassonomica spinta, quella che vorrebbe penetrare nell’intimo delle persone per ricondurle a un sistema, è stata in passato un’innovazione importante nell’evolversi della società. Pensiamo, per fare un esempio, alla classificazione minuziosa degli individui in categorie precise e funzionali introdotta nel mondo del crimine dal più grande investigatore francese dell’Ottocento, il celeberrimo Eugéne François Vidocq (1775-1857), che fu a capo della prima grande polizia moderna del nostro continente. Nei suoi Mémoires egli traccia un’ampia tassonomia umana: se guardiamo, fra gli altri, i criminali dediti al furto, li vediamo distinti in tre categorie: ladri di professione, ladri occasionali e ladri per necessità, ognuna di queste divisa in classi e sottoclassi, con denominazioni precise.
Ma andiamo con ordine. Pare che la fama di Vidocq – che ancora oggi ha un posto importante nell’immaginario popolare francese – avesse girato il mondo, se è vero che Herman Melville lo cita nel capitolo 88 di Moby Dick, definendolo come “famoso francese”, maestro in gioventù di “occulte lezioni”:
“Ora, come l’arem di balene è detto dai cacciatori la scuola, così il signore e padrone di questa scuola è tecnicamente noto come il maestro. Non è perciò in stretto carattere, sebbene ammirevolmente satirico, che dopo avere frequentato egli stesso la scuola, se ne vada in giro inculcando di questa non ciò che vi ha imparato, ma la vanità. Il suo titolo di maestro di scuola parrebbe con ogni verosimiglianza derivato dal nome dato all’arem stesso, ma qualcuno ha pensato che l’uomo, che per primo battezzò così questo tipo di balena ottomana, abbia letto le memorie di Vidocq e imparato che razza di maestro di campagna fosse ai suoi bei tempi quel famoso francese e di che natura fossero quelle occulte lezioni ch’egli inculcava a qualcuno degli allievi”.
Traduzione di Cesare Pavese, Adelphi, Milano 1987
Disertore, falsario, ladro e galeotto: in realtà furono questi i trascorsi di Eugéne François Vidocq, nato ad Arras, nella Hauts-de-France. Intrapresa la strada del crimine molto precocemente, venne arrestato più volte, ma sempre riuscendo a evadere di prigione. Questo fino al momento in cui si mise a collaborare con la giustizia, avviando così la straordinaria carriera che è passata alla storia. Nel 1806 propose i suoi servizi di “indicatore” alla polizia di Parigi, scalando le posizioni fino ad arrivare, nel 1812, a esser nominato capo della Sûreté, un corpo speciale i cui membri erano ex-condannati che avevano il compito d’infiltrarsi nelle file della malavita. Ovviamente non mancarono le persone, da lui arrestate, che lo accusarono di aver organizzato i colpi per poi catturare i malfattori e provare così la sua efficacia nella lotta contro il crimine. Dopo ripetute dimissioni e riassunzioni in servizio, Vidocq lasciò il suo controverso ruolo pubblico nel 1827. Fu allora che, sia per un facile guadagno, sia per difendersi dalle accuse di corruzione che gli arrivavano da più parti, s’accinse alla stesura dei suoi famosi Mémoires, i cui primi due volumi apparvero nel 1828, seguiti l’anno dopo da altri due. Arrivato a riottenere il comando della Sûreté nel 1832, Vidocq rimase in carica solo otto mesi, a causa di uno scandalo che coinvolse un suo agente.
I suoi Mémoires riscossero un successo clamoroso, anche all’estero: vennero tradotti in inglese non appena pubblicati (in America li lesse anche Edgar Allan Poe), ed ebbero anche il merito di ispirare personaggi letterari immortali come Jean Valjean, il forzato evaso de I Miserabili di Victor Hugo, e, soprattutto, Vautrin (alias Jacques Collin, alias abate Herrera), una delle figure più celebri della Comédie Humaine di Honoré de Balzac. La genesi dei Mémoires è complessa, perché la sua forma definitiva è dovuta all’intervento di due scrittori, identificati in Emile Morice e Louis-Francois L’Héritier, a cui sarebbero da ricondurre sia le allusioni erudite sia alcuni plagi – come un episodio già pubblicato da L’Heritier in forma di romanzo. Da qui, ancora non è facile stabilire in che misura i Mémoires siano da attribuirsi propriamente a Vidocq; per lo stesso motivo è messo in discussione il loro reale valore di documento. Sembra più realistico definirli una “autobiografia romanzata”, che ha alcuni punti di contatto con Caleb Williams di William Godwin, di cui ci siamo occupati: come Caleb si affida alla penna per sventare la persecuzione di Falkland – fondata sul pamphlet accusatorio diffuso da Gines –, così Vidocq scrive i Mémoires per proclamare pubblicamente la “sua” verità. Inoltre, l’ambiguità del grande poliziotto ricorda inevitabilmente quella del leggendario Jonathan Wild, ladro e allo stesso tempo thief-taker alleato del potere, un parallelo che non dovette sfuggire al pubblico inglese dell’epoca.
Ma veniamo al metodo poliziesco di Vidocq a capo della Sûreté. Quando doveva svolgere un’inchiesta sguinzagliava i suoi informatori e i suoi uomini infiltrati, in genere ex-criminali come lui. Lui stesso si travestiva da delinquente – un topos che sarebbe stato ripreso e sfruttato in letteratura – e andava ad aggirarsi nei locali malfamati, dove conquistava le simpatie di ladri e assassini, inducendoli a confidarsi o a rivelargli indizi precisi, che poi utilizzava. Dunque, un’attività investigativa che implicava un ampio spettro di talenti, primo fra tutti la conoscenza del mondo criminale maturata nella sua precedente “carriera”; la professione lo costringe a una frequentazione assidua dei bassifondi, per indurre i malviventi a tradire i compagni in cambio dell’immunità e di altri compensi. Vidocq fonda la sua ascesa proprio su questo tratto, riconducibile ai due ruoli dell’informatore e del detective, che tanto lo accomuna al thief-taker settecentesco: ma in questo modo finisce per esporsi alla calunnia e alla vendetta, vedendosi negare la rispettabilità.
E qui viene il dunque. Grazie ai suoi trascorsi criminali, Vidocq dispone della più importante chiave d’accesso al mondo malavitoso che, come si sa, gode di convenzioni e codici propri: la padronanza del cosiddetto argot, la lingua gergale utilizzata fin dal Seicento da mendicati, truffatori e assassini, che erano costretti a celare alle orecchie indiscrete il senso dei loro discorsi. L’argot è un registro linguistico di natura criptica, decodificato dalla polizia nei primi anni dell’Ottocento e ammesso nella letteratura “alta” proprio attraverso i Mémoires di Vidocq. Infatti, i Mémoires sono infarciti di dialoghi argotiques, e se in un primo tempo viene data la traduzione delle espressioni oscure, a poco a poco la cosa diventa superflua, perché il lettore finisce per scoprirsi iniziato al gergo della malavita. Più volte Vidocq ha svolto il ruolo di agente provocatore, inducendo al furto i malviventi per poi coglierli sul fatto, e qui è di enorme importanza la sua abilità nei travestimenti, in cui eccelle (si veda in seguito lo Sherlock Holmes di Conan Doye), riuscendo addirittura a modificare di alcuni centimetri la propria statura. Il pubblico londinese poté osservare le sue performances nel 1845, allorché Vidocq organizzò a Londra in Regent Street una specie di esposizione, discutendo i suoi casi più celebri e rappresentando le sue molteplici identità.
Ed eccoci arrivati alle classificazioni. Oltre all’astuzia e alle pratiche investigative non ortodosse, Vidocq adotta tecniche sistematiche modernissime, provvedendo a schedare tutti gli arrestati, per poterli ritrovare più facilmente in caso d’evasione. Nel quarto volume dei Mémoires viene dunque tracciata un’ampia tassonomia, dividendo – come abbiamo detto – i criminali in tre categorie: ladri di professione, ladri occasionali e ladri per necessità, con sotto-divisioni in classi e sottoclassi. Prendiamo ad esempio i cambrioleurs, o ladri d’appartamento, solitamente di età compresa fra i 18 e i 30 anni: secondo la classificazione vestono decorosamente ma conservano qualcosa d’ordinario; spesso hanno le mani sporche, e tengono in bocca una cicca di tabacco che deforma loro il volto; di rado portano il bastone, e ancor più di rado indossano guanti. Si dividono in cambrioleurs à la flan, che s’introducono nelle abitazioni senza aver preparato il colpo; caroubleurs, che tramite i domestici, i cardatori di materassi, gli imbianchini e i tappezzieri, assumono informazioni sull’appartamento da svaligiare – e talvolta vi penetrano servendosi di chiavi false, fabbricate grazie ai calchi forniti dai complici; e infine i nourisseurs, così detti perché i loro furti hanno una lunga gestazione, nell’attesa che giunga il momento opportuno.
A dispetto di tutte le accuse di cialtroneria che gli furono indirizzate, Vidocq difese sempre questa sua classificazione come fondata sull’esperienza, dichiarandosi capace di riconoscere tra i passanti i ladri di professione e persino d’indicare lo specifico gruppo a cui appartenevano. Questa sì che è tassonomia.
Paolo Ferrucci