02 Aprile 2019

“Io sono il paladino del niente, credo nel controverso, i miei riferimenti sono Dostoevskij e Carver, e forse Houellebecq mi ha copiato…”: Giacomo Mario Ricchitelli discute del suo romanzo con Matteo Fais

Il politicamente corretto ha così profondamente compenetrato la nostra vita da condizionare anche la letteratura. L’ambiguità, che è poi ciò che caratterizza ogni grande romanzo e i suoi personaggi maggiormente segnanti, sembra essere scomparsa per lasciare spazio a una manichea divisione tra buoni e cattivi. Eppure la vera narrativa ha sempre percorso questa spaventosa linea di confine, lì dove niente è chiaro una volta per tutte. Arancia meccanica di Anthony Burgess, Lo straniero di Camus, sono solo alcuni esempi in tal senso, libri praticamente impubblicabili nell’infelice panorama letterario attuale. Per questo un romanzo come Pater di Giacomo Mario Ricchitelli, uscito per Il seme bianco, è un unicum nell’orizzonte nazionale, una bomba purtroppo rimasta inesplosa a causa della sua scarsa circolazione.

La storia è quella di un uomo apparentemente comune, che in principio ha moglie e figli, ma che da questi viene abbandonato – in particolare, a causa delle vessazioni che esercita nei confronti della consorte –, non senza ricavarne di lì a breve un senso di rinfrancante sollievo per la sua nuova libertà. Franco, questo il nome del protagonista, è un individuo che guarda il mondo da un’ottica di cinica profondità e vive nella più totale assenza di speranze e di un qualunque legame con il resto della società (anche quando lavora, non sente mai di dare in qualche modo il suo contributo al mondo intorno a sé). Se è il caso, guidato dal suo egoismo e dalla convinzione che non possano esistere passioni se non giornaliere, non esita anche a commettere il male, a pensare tutto ciò che di solito può pensare quella che si dice “una persona orribile”. In tutto ciò, non ha dalla sua alcuna scusante: non viene da un ambiente degradato, non si trova in ristrettezze economiche. Lui il male lo sceglie. Nel suo caso, non si può certo parlare dell’adeguarsi a una situazione particolare da parte di un uomo banale che si piega senza pensarci a degli “ordini” provenienti dall’alto.

Pater è, senza ombra di dubbio, un romanzo raro, modernissimo, di un autore che non ha paura di affrontare il lato oscuro, di calarsi nell’anima del mostruoso come hanno insegnato tutti i grandi, anche se quasi nessuno sembra più tenere conto della loro lezione in una letteratura che fa tutto salvo quello che dovrebbe essere il suo compito, turbare e sconvolgere.

Che cosa leggi?

Non ho mai avuto preclusioni. Ho sempre cercato di leggere più testi possibili, spesso diversissimi tra loro, per avere un’ampia panoramica di ciò che è stato scritto fino a oggi. Ho spaziato dalla narrativa non di genere, alla fantascienza, fino al fantasy. Ho frequentato poco la poesia, perché difficilmente i poeti in circolazione riescono a coinvolgermi più di tanto. Negli ultimi anni ho virato sui racconti, antologie soprattutto – ho, a mia volta, in progetto di scrivere una raccolta. Ma, per rispondere alla tua domanda, direi i russi dell’800 e gli americani del ’900. Nello specifico, a livello di titoli, citerei, in un ordine non strettamente gerarchico, Furore di Steinbeck e Delitto e castigo di Dostoevskij – la sua opera, comunque, vorrei precisare, mi piace tutta, dal principio alla fine. Intorno ai vent’anni, poi, ho avuto anch’io il mio periodo bukowskiano. Ma non ho mai smesso di leggere parallelamente i romanzi di Tolstoj e i racconti di Saunders. Per i miei studi, infine, ho consultato molte biografie, sempre cercando di evadere dalla storia fatta in modo manualistico, cercando degli approfondimenti che la affrontassero in associazione con l’antropologia.

Nel tuo testo ho riscontrato diverse affinità con Houellebecq, con Lo straniero di Camus, e con il testo maledetto della filosofia occidentale, L’unico e la sua proprietà di Max Stirner.

Houellebecq non saprei, l’ho conosciuto solo dopo aver scritto il libro, molto dopo. Forse mi ha scopiazzato lui? Per quel che concerne Max Stirner, l’ho letto tantissimo tempo addietro, ma è possibile che inconsciamente qualcosa sia rimasto. Tanto più che il libro, Pater, l’ho terminato dieci anni fa e poi solo parzialmente rivisto quando ho avuto la possibilità di darlo alle stampe – una semplice correzione grammaticale perché, dopo tanto tempo, rimetterci le mani avrebbe significato riscriverlo da cima a fondo. Sicuramente anche Lo straniero è stato per me un libro fondamentale, letto e riletto un’infinità di volte.

Perché scrivi?

La passione per la scrittura viene da lontano, da quando ero ragazzino. Intorno ai dieci anni cominciai a mettermi alla prova con un libro, che nella mia mente doveva essere di avventura. Poi, ovviamente, il progetto cadde nel dimenticatoio. Per me la scrittura è fondamentalmente il modo migliore per esprimermi, perché scrivendo ho maggior spazio per la riflessione, per l’introspezione, per tirare fuori delle argomentazioni che difficilmente potrei esternare in un dialogo, conversazione, o in qualsiasi altra forma di comunicazione della quotidianità. La scrittura ha rappresentato, inoltre, un modo per isolarmi e ritrovare me stesso nei momenti più complicati. Mi basta una musica di sottofondo e battere sulla tastiera, anche cose che nascono e muoiono in giornata.

Quanti libri hai scritto?

Oltre Pater, che è stato pubblicato, ho un paio di romanzi non finiti, presi e abbandonati più volte, che stanno lì ad aspettare una conclusione. Al momento sto lavorando a una raccolta di racconti che vorrebbe narrare la vita di una piccola cittadina, simile a quella in cui vivo, traendo ispirazione dal quotidiano, cercando di rendere il tutto il più leggero e ironico possibile. In questa operazione, il mio nume tutelare è Carver. Non so però se e quando riuscirò a terminarla, perché il tempo è poco e non si può scrivere a tempo perso.

In Pater fai i conti con il mostruoso, ciò che la nuova letteratura politicamente corretta rifiuta anche solo di considerare. Perché hai optato per il controverso?

Semplicemente, nel controverso si trova l’unico spazio per raccontare qualcosa che non sia ben definito, qualcosa di non ascrivibile alle solite categorie del bene in lotta contro il male. Nella mia quotidianità, dacché ero bambino, ho incontrato tantissimi personaggi non facilmente etichettabili, perché la complessità umana ha mille sfaccettature. Quando scrivo cerco di analizzare tali aspetti, di spiegare che anche un cattivo non fa solo la vita del cattivo come succedeva nei film western degli anni ’50 e ’60. Di contro, un buono non è un santo, le cosiddette brave persone hanno i loro demoni e devono farci i conti ogni giorno.

Chi tratta del male lo fa solitamente seguendo una prospettiva deterministico-marxista, ovvero lo analizza come scaturente da un contesto sociale di degrado, o economico svantaggiato. Il tuo protagonista mi è parso molto interessante perché non è una vittima: non si tratta di un disoccupato, né di un povero, e ha inoltre una sua cinica profondità attraverso cui interpreta la realtà. Anche gli atti di violenza che compie contro la moglie non trovano spiegazione nel contesto sociale. In tal senso è affine a quello di Arancia meccanica, il quale sceglie il male consapevolmente – anch’egli non è una vittima e possiede addirittura un certo gusto culturale. Perché rifiutare la via del determinismo?

Data anche la mia formazione di storico, sul determinismo ci ho sbattuto la testa varie volte. Semplicemente penso che, se questo avesse ragione, basterebbe bruciare tutte le periferie, le zone disagiate, per vivere in un mondo di persone brave, pulite e oneste. Ovviamente, non è così. Certo il contesto influenza molto, ma non è l’unico aspetto a determinare lo sviluppo della personalità nell’essere umano. Infatti, partendo dai medesimi luoghi d’origine, può scaturire un pluriassassino e uno che sa edificare in modo positivo la sua esistenza. Non mi serviva una giustificazione del modo d’essere del mio personaggio, pena ricadere nei soliti cliché che vanno di moda oggi, per cui se sei povero diventi cattivo, se sei di buona famiglia avrai un comportamento sociale impeccabile. Io ho conosciuto tantissimi ragazzi che provenivano da famiglie agiate e hanno fatto una fine che nemmeno il peggior soggetto delle favelas. È assolutamente irrilevante lo strato sociale da cui si proviene. Può avere implicazioni a livello economico e comportare difficoltà per chi nasce già in una situazione disagiata. Per quel che concerne il mio protagonista, nello specifico, il problema è non riuscire a integrare le sue regole morali a quelle degli altri. Lui rifiuta un certo tipo di concezione dell’esistenza, il farsi incatenare in una vita familiare in cui non si riconosce. E l’unico modo per tornare a essere libero è spezzare quelle catene. A livello sociale è contemporaneamente non integrato e perfettamente integrato.

La tua storia è molto realistica. Niente effetti speciali, rivolgimenti assurdi. C’è molta consequenzialità. Hai tentato una nuova via per il realismo narrativo? Manca un’indagine sul reale nella narrativa contemporanea?

Ho cercato scrivendo di seguire l’evoluzione più naturale possibile del personaggio, cercando un’attinenza con la realtà, in una sorta di rivisitazione del neorealismo letterario. A me interessano più i personaggi che la storia in sé – è per questo che, anche a livello di letture, preferisco Carver o Dostoevskij, perché narrano della quotidianità. Nella mia storia non succede niente di particolarmente sconvolgente. Il focus è sul personaggio, nel tentativo di coglierne il maggior numero di sfaccettature possibili. Più la storia è lineare, dal mio punto di vista, meglio è. Poi, per puro divertimento, mi piace anche leggere libri in cui capitano un sacco di eventi eccezionali, ma io non riuscirei a scriverli. Per capirci, mia madre mi dice che, quando ero piccolo e raccontavo le storie di mia invenzione, il finale era sempre uguale: morirono tutti e vissero felici e contenti. Sarà che a mia volta ho avuto un’esistenza normale e anche nelle situazioni più complicate ho sempre cercato una linearità di base da cui ripartire. La cosa più difficile, a ogni modo, in tutte le forme di espressione, è rendere la banalità interessante.

Secondo te la narrativa italiana aveva bisogno di un romanzo come Pater? Se sì, perché oggi manca?

Non ho grande conoscenza della letteratura contemporanea italiana, perché il più degli autori non riesco a leggerli. Mi è capitato di provarci, ma scrivevano delle cose completamente inutili dal mio punto di vista. E poi c’è la corsa, da parte di ognuno, a ergersi a paladino di qualcosa. Io non sono paladino di niente – alla mia età, ormai, non mi interessa. Non voglio insegnare nulla e non credo di essere in grado di farlo. Per il resto, non so se di un testo come Pater ci fosse bisogno, ma sicuramente è qualcosa che mancava.

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