«Faccio il risotto con lo stesso impegno di Einstein quando si concentrava per scrivere la formula che doveva sintetizzare la sua teoria» (Francesco Piccolo, il Diario del virus)
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Passata la Pasqua, su la Lettura arriva l’evento: «Francesco Piccolo condivide le sue pagine del “Diario a staffetta” dopo Sandro Veronesi, Mauro Covacich e Silvia Avallone». Una tappa miliare per il Corriere della Sera, dato il peso specifico del personaggio, la sua onnipresenza dietro una quantità spropositata di libri, di film, di programmi televisivi, di ospitate da amici potenti: Feltrinelli, Einaudi, Laterza; Nanni Moretti, Paolo Virzì, Silvio Soldini, Francesca Archibugi, Elena Ferrante; il lungo triumvirato con Fabio Fazio e Massimo Gramellini nel programma televisivo “Che tempo che fa”; la docenza di “Arti del racconto” allo Iulm di Milano.
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Stupisce il fatto che il diarietto del virus venga relegato a pagina 20: in altri tempi Piccolo troneggiava regolarmente dopo la copertina, nella prima sezione intitolata “Il dibattito delle idee”. Stavolta, invece, a pagina 2 regna Paolo Giordano (i tempi sono cambiati) con una lunga intervista a Jared Diamond sulla pandemia, e la prima domanda del giovane scrittore è: «Quando ha realizzato che questa pandemia sarebbe stata diversa?».
Ha realizzato.
Ecco l’orribile, orribile, orribile anglo-americanismo che pezzo a pezzo sta divorando la prosa, l’eloquio, perfino le attività cognitive delle persone. Siamo arrivati al punto in cui dire una cosa semplice come “quando si è reso conto che sarebbe stata diversa…” è diventato così difficile da sopraffare giornalisti, scrittori, intellettuali, scrivani.
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Respiriamo, torniamo in noi. Va tutto bene, andrà tutto bene, ripetiamocelo.
E ora riprendiamo il filo. Dunque, perché Francesco Piccolo non ha più il posto d’onore nel “Dibattito delle idee” su la Lettura, ma solo una comparsata all’interno? Ai tempi in cui discettava in quella sezione regale, Piccolo ha lasciato testimonianze importanti, paginoni multipli che sono rimasti impressi nella coscienza di molti. Ricordiamo ancora quando nel 2016 – doveva essere il numero #216 – lanciò una nuova filosofia che avrebbe lasciato il segno negli anni seguenti, secondo la quale la nostra realtà è diventata troppo complessa, perché ci sono troppe scelte: «Non sai quale tipo di yoga fare, quale succo di frutta contiene almeno un po’ di frutta, quale bicicletta non rubano, quale moto è ecologica, quale riso, quale birra artigianale (…), quale casco, quale partita di calcio, quale film». Quindi, secondo la sua teoria il caffè lo devi prendere come c’è, il sesso lo fai con chi ne ha voglia, il succo di frutta lo prendi a caso, se internet non funziona te ne freghi, guardi il primo programma che passa in tv senza distinzioni, eccetera. La sua dottrina è: Semplificare. Proprio come ha fatto con i suoi libri, scritti semplici e senza fatica, rapidi, diretti al primo strato della corteccia cerebrale, di successo sicuro perché l’amico Fabio Fazio nella trasmissione “Che tempo che fa” glieli ha megafonati per tutto il Paese, tenendoselo accanto a fare da spalla nella conduzione, così un sacco di gente correva a comprarli. Dopo la morte di Umberto Eco, fu Fabio Fazio a decretare dagli schermi, in via definitiva, che Francesco Piccolo è «il più prestigioso intellettuale italiano».
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Bisogna ammettere che la neo-filosofia piccoliana, che con un’espressione felice venne definita cazzocanismo, è penetrata con efficacia nel nostro tessuto culturale, partendo dalla letteratura e finendo alla politica. Lo spartiacque fu il Premio Strega assegnato nel 2014 al suo libro Il desiderio di essere come tutti, edito da Einaudi. Né saggio né romanzo, intendeva essere la “riflessione definitiva” sugli ultimi trent’anni di vita italiana visti attraverso il doppio filtro della passione politica di sinistra e della filosofia piccoliana. Tralasciando la valutazione dell’opera – il risultato artificioso e poco credibile di un prodotto studiato a tavolino, del tutto autoreferenziale e privo di contenuti originali –, ci limitiamo a osservare come quella vittoria fu l’espressione più chiara di come si costruisce un potere con la rete d’intrecci fra politica, televisione, cinema e baronato editoriale.
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Basti pensare che quel premio venne “soffiato” per soli cinque voti ad Antonio Scurati, che, avendo l’appoggio pesantissimo di Elisabetta Sgarbi, confidava ragionevolmente nella vittoria; e quando, poco prima dell’annuncio del vincitore, capì di avere perso per la seconda volta, Scurati seduto al tavolo Bompiani disse: «Che stiamo a fare qui?» e subito se ne andò piantando tutti. Dunque, forse anche Piccolo ha qualche responsabilità per come Antonio Scurati è diventato: prima di riuscire a prendersi ciò che riteneva suo (l’ultimo Premio Strega 2019), lo immaginiamo mentre vaga senza requie, mormorando «il mio tessoooooro…», fino a deformarsi nell’irriducibile odiatore dei milanesi, col senso tragico dell’esistenza coltivato in balcone e l’orologio indietro di ottant’anni.
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A quell’epoca Francesco Piccolo aveva assunto un grande peso anche perché – mettendosi in contiguità col veltronismo cinematografico – sembrò avviare una vera operazione congiunta di stampo cultural-politico, da intellettuale engagée, che secondo noi andrebbe approfondita. In un’intervista all’Huffington Post del marzo 2015, oltre agli attacchi all’oltranzismo sindacale e alla sinistra non renziana («Per me le idee di Landini sono un ritorno all’indietro, un atto reazionario e in definitiva il male della sinistra») e ai dovuti omaggi glamourous dell’intervistatore («I pantaloni di velluto blu a coste larghe. La camicia grigia. I ricci appena accennati, la barba. Un Macbook sul tavolo. La finestra aperta sul chiasso di Piazza Vittorio»), si legge:
“Ne Il desiderio di essere come tutti lei racconta come si è liberato del complesso di superiorità comunista. Un vizio che molti avevano contestato al Pci molto tempo prima. Ha mai pensato di esserci arrivato tardi? «C’è chi l’ha detto prima di me, certo: ma l’ha detto da fuori, non da comunista. E così è troppo facile. Io ho vissuto la superiorità antropologica, l’ho vissuta da dentro. Liberarsene è come per i governi: un lungo cammino. Non potevo scrivere quel libro a trent’anni, forse nemmeno a quaranta, potevo farlo solo a cinquant’anni»”.
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Ora non sappiamo se questa “liberazione dal complesso di superiorità antropologica” abbia portato bene alla sua sponda politica, visto che oggi Matteo Renzi è quasi azzerato e il Partito Democratico è vassallo di un’entità politica ostile che negli anni ha lavorato per il suo annientamento. Non sappiamo nemmeno se abbia portato bene alla sua vena artistica, date le prove letterarie successive, che tuttavia – grazie al consolidato potere mediatico-affaristico, molto ben gestito – hanno avuto una risposta di mercato sempre poderosa.
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Nel noto Momenti di trascurabile infelicità, edito da Einaudi nel 2015, Piccolo affina abilmente la sua superficialità pseudo-intellettuale travestita da esercizio minimal, derivandola direttamente dalla filosofia del cazzocanismo. «L’anno scorso, mia moglie mi ha allungato un pacchettino avvolto da carta colorata e un fiocchetto dorato: il mio regalo di Natale. All’inizio, ho provato a sciogliere il nodo e a scartare il pacchettino con delicatezza, ma non c’era modo che si aprisse; solo dopo tanto tempo, e molto innervosito, ho strappato la carta con le unghie e con i denti. Mia moglie mi guardava fisso negli occhi, curiosa e ansiosa – ma anche spaventata per quella violenza – perché aspettava di capire se mi piaceva. L’ho aperto, l’ho guardato e ho sfoderato un sorriso molto ampio e ho detto grazie. Ti piace?, ha detto lei. Moltissimo, ho detto io. Ma non ho capito cos’era. Era un oggetto strano, con colori belli e una forma particolare, ma non era possibile capire cosa fosse. Intanto che lo mostravo agli altri, lei mi chiedeva: hai capito a cosa serve? Hai indovinato? E io rispondevo: sí, certo; ma sempre piú esitante. Poi chiedevo anche agli altri se avevano capito, con la speranza segreta che qualcuno rispondesse sí con convinzione, cosí finalmente me lo facevo spiegare; per poi dire come se già avessi capito: bravo, hai indovinato».
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Ovviamente, pescando a caso fra le recensioni, quella di Raffaele La Capria si fece ossequiosa verso «il suo stile ironico-antitetico», parlando addirittura di realismo kafkiano: «Il nuovo libro di Francesco Piccolo si avventura per queste strade e lo fa non per inventarsi intelligenti e concisi aforismi fatti di parole e di saggezza, no, non è questo il suo intento; piuttosto il suo intento è proprio l’analisi di una trascurata realtà, è un realismo minore e a volte infinitesimo, spesso assurdo, qualche volta surreale, perfino – ma forse esagero – perfino un po’ kafkiano».
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Niente forse, caro recensore: lei sta esagerando, e parecchio. Ma sappiamo come vanno le cose, da voi non si potrà mai dire che quel libro è un’inutile raccolta di inettitudini concettuali e stilistiche. Qui si vede l’arte: scambiare il superfluo per minimal, prendere i momenti del niente di chiunque, chiamarli infelicità e spacciarli come roba buona da comprare; offrire cose abissalmente insignificanti che chiunque faticherebbe a scrivere, perché troppo banali e prive d’interesse.
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«Mi addormento in treno o in aereo, anche solo un poco. Quando riapro gli occhi, vedo il mio vicino di posto che ha davanti un succo d’arancia quasi finito e una bustina aperta dove c’erano i biscotti o i salatini. Il carrello è già passato. E chissà se ripasserà più».
«Quando ci si trova di fronte alle porte dove c’è scritto staff only, e non si può entrare».
«Quando la donna delle pulizie telefona per dire che oggi non può venire».
«Sparecchiare la tavola con i piatti sporchi di sugo e dover spingere i resti del sugo nella spazzatura».
«La sigla del telegiornale che arriva dalla finestra di un’altra casa, la mattina o il pomeriggio».
«Il fatto di non sapere se la luce del frigorifero, quando l’hai chiuso, si spegne veramente».
«“Lasciare il bagno pulito dopo l’uso”, il cartello che c’è in alcuni bagni pubblici».
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Ma stiamo rischiando di dimenticare di cosa si parlava: dobbiamo tornare al Diario del virus del Corriere della Sera, agli otto scrittori, con Francesco Piccolo messo stranamente in quarta fila e relegato a metà fascicolo. Ci chiedevamo il perché di questa retrocessione, ma vedendo Sandro Veronesi sul trono come dominus della staffetta, a pesare sulle teste di tutti, abbiamo la risposta: Veronesi è il vincitore del Premio Strega 2020, ce l’ha già in mano, ed è bene che si sappia subito.
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Dunque, non resta che iniziare a leggere il piccolo Diario: «Stamattina sono uscito per andare a fare la spesa. Presto, per due motivi: il primo è che trovo poca fila quando il supermercato apre; e poi perché posso fare una passeggiata intorno all’isolato del supermercato. Ogni tanto devo farlo, perché sento che i muscoli mi fanno male, di notte mi sveglio più del solito, come se avessi bisogno di scalciare e dare pugni nell’aria».
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I due motivi: trova poca fila, e fa una passeggiata. Che dire, in questo mare si prende questo pesce. Ma parlerà anche lui di Veronesi?
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«Sono stato tentato molto in questi giorni, dopo aver letto tutte le cose che fa Sandro Veronesi, di scrivere che anche io lavo, stiro, cucino, faccio il bucato, carico la lavastoviglie – perché ho pensato che sarebbe stato bello comunicare ai lettori della “Lettura” questa capacità, pensando che i lettori della “Lettura” non sapranno mai se lo faccio veramente; ma poi ho pensato che non era giusto, che Veronesi lo dice perché lo fa davvero e io lo avrei detto solo per fare bella figura e per non essere da meno; e quindi lascio perdere».
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Bene, allora ci riteniamo liberi di lasciar perdere anche noi. Ad maiora!
Paolo Ferrucci
*In copertina: Francesco Piccolo, Premio Strega, 2014, foto Alessio Jacona