
Far cantare il buio. Sull’ultimo, inconsulto romanzo di Antonio Moresco
Libri
antonio coda
Il sottotitolo dice tutto – di un’era più che del tipo. Sex, Race, and Autobiography. La trimurti che definisce ogni dibattito pubblico, col suo effluvio di bieche ovvietà: sesso, razza, io. I concetti (ogni astrazione è lecita all’illecito), va da sé, sono armati in polemica, rimandano al loro lato oscuro, capovolto: misoginia (o sessuomania), razzismo, egolatria. Il dibattito – cioè il dibattersi nel trogolo dei luoghi comuni – finisce lì. Eppure, uno scrittore fa di tutto per ulcerare la propria autobiografia, si mette dalla parte sbagliata, a scavare tra i torbidi, con l’ambita povertà del pezzente: cosa ci frega della sua vita? La libido statunitense, però, puritana, è tutta lì: non ci si accontenta del romanzo, si anela alla ‘vita da romanzo’ del romanziere. Una volta andavano di moda i maledetti, gli hemingweiani che si davano a matare donne ed elefanti, tra safari e prodigiosi incidenti; oggi garba la fedina narrativa linda come il sole, il culetto morale al borotalco, la virtù prima del virtuosismo, il narcisismo dei buoni.
Insomma: esce un nuovo libro su Philip Roth, lo stampa la University of Virginia Press, s’intitola The Philip Roth We Don’t Know, e nessuno si sogna di dire – specchi su cui si arrampicano le allodole e gli allocchi – che di Philip Roth nulla c’importa, ci bastino i suoi libri, violenti come uno che mette la lingua lì dov’è l’infetto. Il libro l’ha scritto Jacques Berlinerblau – nome appropriato a un romanzo di Roth – che è Professor of Jewish Civilization alla Georgetown University, acerrimo studioso di Roth. Il prof, per scrivere il libro, ha scartabellato tra i “Philip Roth papers” custoditi presso la Library of Congress, per lo più tra la corrispondenza, finora inedita. Cosa viene fuori? Da ciò che il prof ha dichiarato, con estro, all’“Observer” – in un articolo dal titolo fiammante, A master of self-promotion: letters reveal how Philip Roth ‘hustled’ for prizes, di cui sotto abbiamo tradotto i passi salienti –, che Philip Roth, lungi dall’essere uno scrittore tutto casa, solitudine & scrittura, ha trescato di brutto per pubblicare, vincere premi, mantenere la ‘posizione’ editoriale. Si è autopromosso, ha fatto l’anguilla nel reame delle relazioni letterarie, ha ricevuto & ricambiato favori. Pare abbia sponsorizzato un critico che ha sempre scritto bene di lui per una borsa di studio, poi ricevuta. Va detto che il critico in questione non ha sbagliato cavallo: Philip Roth – ed è tutto quello che conta, il resto è pettegolezzo, cioè mondo – è narratore superlativo, tra i grandi di sempre, tra i più grandi del secondo Novecento, negli States. Che sia un figlio di…, un mestatore di fango, un maneggione, uno che gioca sporco, che mira basso – esigenze prevedibili dai tratti del viso e dal rango della sua opera, per altro – non fa che rendermi più simpatico Philip Roth. Lo scrittore, se tale è, non può che essere il colpevole per antonomasia, prono a tutte le lordure – realizzate o immaginate cosa cambia? –, pieno della scaltrezza che richiede la vita. Agile nell’alterare il candore nell’orrore, nello scorgere lo schifo sull’altare dell’innocente, la demenza del male nel puro, lo scrittore non ha casa nella castità, è il pupillo del caso, crede a ogni prodigio ed evoca ogni possibile porcata; è passabile di tutti i fraintendimenti e le mistificazioni, è un mistico della contraddizione.
Bene: Roth si è autopromosso, è stato uno scorretto dissimulatore, si è dannato per vincere premi e restare sull’onda del successo… beh, cos’altro dovrebbe fare uno scrittore? Posto che ciascuno ha il proprio physique, la propria indole al presente, la propria prestanza polemica – il deserto vale il palazzo; il sapiente vale il criminale – è giusto che uno scrittore, scalmanato, lavori per eccitare la propria opera, per difenderla e brandirla, come una spada. Conta, infine, soltanto lei, l’opera, che sbugiarda l’ingordo, che va per annientarsi. Grottesco è chi trama per avere un premio e lo vince con un libro infelice, inferiore, infimo; dacché conta, infine, soltanto l’opera. Eh, beh, Philip Roth ha costruito un’opera ragguardevole, potente, che non guarda in faccia nessuno, che ti piglia a ceffoni. Quindi, tutto è lecito: ogni vigliaccata, ogni ruberia, ogni disonestà.
La grazia della furbata, il genio della canaglieria, la superba attitudine all’incoerenza, sono caratteri fondamentali in uno scrittore. Per il resto, ci sono i guru, i filosofi della morale pubblica, i censori. E gli accademici, che saltano sulle spalle del gigante per il gusto di sgorbiargli il ceffo, che palle. Il libro promette ‘rivelazioni’ sulla caratura caratteriale di Roth: va letto per dedurre da Roth il personaggio di un romanzo. Siamo pronti a scriverlo. Il resto – che l’editoria sia un reame di relazioni chiuse, che la cultura sia la palude dei favori e dei favoriti – è la scoperta dell’acqua calda.
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Romanziere tra i grandi degli Stati Uniti, Philip Roth ha ottenuto pressoché tutti i riconoscimenti più ambiti, compreso un Pulitzer. Potremmo presumere che il suo lavoro, come si dice, parli da solo: in verità, alcune lettere, finora inedite, rivelano che Roth era maestro nell’autopromozione, nel tessere relazioni utili a reciproci scambi di favori.
Il professor Jacques Berlinerbalu, che ha studiato la corrispondenza di Roth mentre scriveva un libro su di lui, è rimasto stupefatto dall’indole dello scrittore, pronto a insediarsi tra i colleghi, a insinuarsi nel mondo dell’editoria e dell’accademia. “È un aspetto che non si comprenderebbe basandosi sulle sue descrizioni, altamente agiografiche, che narrano la vita solitaria di uno scrittore dedito unicamente alla propria opera”, ha detto.
Roth è morto nel 2018, a 85 anni; i carati del suo carattere emergono da una dozzina di lettere conservate negli archivi della Library of Congress di Washington. Berlinerblau, accademico alla Georgetown University, ha pubblicato articoli e studi su Roth da decenni: “Ciò che ho appreso studiando questo materiale è l’attitudine di Roth per le relazioni. Ci metteva anima, tempo, ansia: giocava di strategie per avere un’ottima posizione editoriale. Ci sono innumerevoli esempi di amici, nell’editoria e nel consesso letterario, che fanno favori a Roth; alcuni includono le commissioni di certi premi. Abbiamo ampie ragioni per dedurre, dalle loro risposte, che Roth abbia ricambiato i favori. Larga parte della narrativa di Roth – centrata su uno scrittore che assomiglia terribilmente a Roth – trascura di descrivere questo lato della sua vita artistica. Ingenuamente, pensavo che il grande scrittore fosse interessato soltanto all’arte, alla sua disciplina, alle sue austere necessità. Sono rimasto un po’ deluso… Siamo indotti ad avere una visione romantica di Roth, perduto nell’opera, come leggiamo in The Ghost Writer. Lo scrittore concentrato soltanto sulla sua scrittura, solitaria: arte, arte, arte, nient’altro che arte, senza che la vita la invada. Beh, era la visione di Roth che Roth ci ha venduto”.
Berlinerblau osserva che nel 2012, in un’intervista, Roth afferma di aver chiesto ai suoi esecutori di distruggere un certo numero di documenti, dopo la sua morte. “Secondo la vulgata, Roth ha tentato di controllare la propria eredità dalla tomba. In realtà, Roth non ha fatto altro per tutta la vita. Ci ha fregato. Ha passato molta parte del suo tempo a fare carriera”. Ovviamente, Berlinerblau riconosce che tutti gli scrittori si autopromuovono: il giovane Roth fa di tutto per arrivare a pubblicare nel 1959 Goodbye, Columbus. “Eppure, Roth è stato il beneficiario di relazioni, accordi, vantaggi, possibilità a cui pochissimi scrittori hanno potuto accedere”. Le lettere rivelano “il livello di collusione”: Roth scrive a uno studioso, autore di un ottimo articolo sui suoi romanzi, che avrebbe cercato di procurargli un particolare lavoro accademico. Berlinerblau cita anche una vasta corrispondenza intrattenuta dallo scrittore con un critico, che “di fatto si concentra su come i due possano aiutarsi a vicenda per quel premio, quella posizione… Ciò svela molto sul mondo editoriale, retto da una fitta trama di amicizie”.
La corrispondenza con Ted Solotaroff, l’editor e critico morto nel 2008, che ha scritto diversi articoli nel corso degli anni elogiando il lavoro di Roth, rivela un legame di altro genere. Solotaroff chiede allo scrittore di sostenere una sua domanda di finanziamento all’università. Roth accetta, scrivendo che Solotaroff è “uno dei migliori critici letterari in circolazione”, ribadendo la necessità di una borsa di studio e di una residenza accademica.
Berlinerblau ha studiato questi documenti mentre scriveva The Philip Roth We Don’t Know: Sex, Race and Autobiography, pubblicato dalla University of Virginia Press. In definitiva, conclude Berlinerblau, gli intrighi di Roth sono sorprendenti se visti alla luce di “un’opera magniloquente, magnifica”. Un altro eminente studioso, Ira Nadel, autore di Philip Roth: A Counterlife, conferma: “È tutto assolutamente vero. Philip Roth è stato un grande promotore di se stesso, fin dagli esordi. Non so se ne avesse avuto davvero bisogno. È stato al gioco dell’editoria. Era consapevole che l’autopromozione è la chiave per rinfocolare la fama, pubblicare e vendere libri”.
Dalya Alberge