
Ideologico, ambizioso, blasfemo. Simone Salomoni e la spietatezza di “operaprima”
Letterature
Viviana Viviani
Se il mondo andasse al contrario, almeno mi verrebbe il capogiro, invece mi girano solo i coglioni. In realtà, il mondo continua a girare oggi con la stessa paziente follia con cui girava ai tempi di Jimmy Fontana – gira il mondo gira nello spazio senza fine. Piuttosto, è l’uomo che è precipitato dal grattacielo della sua grandezza nel tracotante abisso della coglioneria. Esempio bestiale. Alain Delon rilascia una lunga intervista a Paris Match. Il vecchio – ha 82 anni – è ancora un bell’uomo, jeans, camicia, foulard. Titolo sparato, Le solitaire de Douchy. Il solitario di Douchy, micro comune della Loira – poco più di mille abitanti – dove Delon ha la sua tenuta. Quelli di Paris Match sono adorabilmente bastardi perché in calce alla copertina ufficiale con il vecchietto ne piazzano un’altra, di parecchi anni fa. Titolo: Delon: l’Unique. Segue fotografia di Delon da giovane, lineamenti apollinei e occhi glaciali, un figo pazzesco, di cui è inutile, penso, ricalcare la filmografia oceanica che lo rende uno dei titani del cinema mondiale (ne cito tre a casaccio: Rocco e i suoi fratelli, Frank Costello faccia d’angelo, La prima notte di quiete). Beh, Delon al pio intervistatore dice delle cose di appagante ferocia. Esempio: “Odio l’epoca che stiamo vivendo, mi fa vomitare. Ci sono persone che odio. Tutto è falso e contano solo i soldi. Lascerò questo mondo senza rimpianti”. A Delon è capitata la più puttana delle sorti. Gli dèi non invecchiano. Il cinema ha reso Alain Delon un dio. E ora noi assistiamo al grottesco per antonomasia: il deperimento, la corruzione, l’invecchiamento del dio. A Delon, audace sciupafemmine, viso di femminea crudeltà, non gli tira più, la faccia gli si sgretola, è un rudere, fa fatica a pisciare e a cagare, una camminata più lunga del solito gli fa venire il fiatone. Il corpo – la miseria della carne – ha preso possesso del mito e lo sta selvaggiamente distruggendo. Inutile tirare fuori i violini per canticchiare quanto è bella la terza età. Gli dèi non invecchiano. Alain Delon, il dio del cinema francese, invecchia, è decrepito, fa schifo, si fa schifo e tutto gli fa schifo. Il mio orecchio da romanziere va in aureo brodo. Bisognerebbe scrivere un racconto, un romanzo sulla capitale depressione di Delon, tipicamente francese, così virulenta, pare un Laclos a contrario, un redivivo Céline. Eppure. I giornali parlano d’altro. Parlano di coglionerie. Delon ha detto che in punto di morte chiederà al veterinario di uccidere il suo cane, Loubo. “Gli farebbe un’iniezione in modo che possa morire tra le mie braccia”. Apriti cielo. Gli animalisti s’indignano, i media s’incazzano, comminate a Delon la ghigliottina, che i servizi sociali gli sottraggano il cane. Ora. Portiamo i figli al Museo Egizio di Torino e mica c’indigniamo del fatto che i faraoni – memoria carnale della divinità celeste – facevano sgozzare falangi di amministratori, cugini e servi quando morivano, per portarseli con sé nell’aldilà. Son passati 3mila anni, avete ragione. Pigliamo le parole di Delon per effervescenza senile, il ghigno di un dolente iconoclasta. Il tema, però, cari noi, è altro. Delon, il dio del cinema francese roso dalla vecchiaia, preferisce la compagnia di un cane a quella di un proprio simile. Questa magistrale ostilità verso il regno degli uomini, che volete farci, mi affascina. Roba da film.
Davide Brullo