26 Giugno 2018

“Non posso che scrivere di ciò che ho vissuto”: dialogo con Giovanna Rosadini su poesia (che salva la vita), poeti, autobiografia, sistema editoriale

Oggi, i luoghi di discussione sulla letteratura e l’arte in generale, merito dei social, si sono moltiplicati. Probabilmente, sebbene se ne parli di più, la qualità del dibattito extra-accademico sulla poesia si è abbassata notevolmente. Incontro allo stesso destino è andata la lirica nostrana: con la media e micro editoria e l’autopubblicazione, i testi si sono moltiplicati e molti sono simili tra loro. Tra i tanti libri, trovarne uno di valore è raro. Le dovute eccezioni ci sono. La fortuna è che non è difficile capire dove bisogna cercare per trovarle. Difficile rimanere delusi posando gli occhi sulla leggendaria collana bianca Einaudi, che si conferma garanzia di qualità. Su Pangea abbiamo avuto il piacere di recensire Enrico Testa con Cairn, opera di grande forza espressiva. Altrettanto dicasi per Roberta Dapunt e il suo Sincope. Non c’è niente di meglio per approcciare la poesia, che la poesia stessa e i suoi autori. Specialmente se hanno una lunga e importante esperienza, come Giovanna Rosadini (in copertina nella fotografia di Dino Ignani), che intervistiamo in occasione della pubblicazione del suo quarto libro in versi Fioriture Capovolte (Einaudi, 2018).

rosadiniPotrebbe presentare il suo libro?

A quest’altezza della vita, e dopo tre raccolte di poesia, questo nuovo libro si potrebbe definire una sorta di bilancio esistenziale, che mette a fuoco sia le parti più in ombra sia quelle più luminose di un vissuto stratificato e comunque significativo.

Posso infatti tranquillamente affermare che la mia poesia nasce per osmosi con la vita, cosa piuttosto evidente con i primi due testi, Il sistema limbico e Unità di risveglio, legati a due diverse esperienze di rinascita. Il primo a un risveglio di consapevolezza dovuto al recupero della dimensione creativo-emotiva e il secondo, più letteralmente, cronaca in versi di un ritorno alla vita e alla coscienza dopo un’esperienza di coma. Ma anche per il terzo, frutto di un percorso intertestuale di rilettura libera e personale della Torah ebraica, sarebbe a dire del Pentateuco, si può dire che ciò sia vero. Infatti, le parashot, cioè le porzioni di testo su cui mi sono soffermata, riguardano temi dalla valenza personale e al contempo universale, comuni alla vita di tutti. Come il significato dei legami profondi, la necessità di prendersi dei rischi per trovare la propria strada e di dare ascolto alle proprie fragilità per raggiungere una piena individuazione.

Tornando a Fioriture capovolte, si sviluppa secondo una partitura in quattro tempi, coincidenti con le sezioni del libro e con altrettanti focus tematici: gli imprevisti sentimentali che capitano a qualunque età, con il loro carico di confusione e aspettative; il lato rovescio dell’esistenza, quando il dolore e le difficoltà per le ferite ricevute sembrano prevalere, e accade di sentirsi nudi, esposti, inermi, e si fa appello alle proprie risorse potenziali e nascoste; l’irruzione (nella sezione eponima) dei ricordi di stagioni della vita come l’infanzia e l’adolescenza, apparentemente concluse, ma in realtà ancora ben presenti negli anni di una maturità faticosamente conseguita e annotata in presa diretta; l’esperienza giovanile degli anni universitari in una Venezia anni Ottanta, coincidenti con l’ottimismo e la spensieratezza che hanno caratterizzato quel decennio, tra la fine della Guerra Fredda e la caduta del Muro di Berlino. Il tutto alla luce della consapevolezza che ogni età offre sorprese, così come la possibilità di apprezzare e mettere a frutto ciò che abbiamo fatto e chi siamo diventati… e godere degli affetti e relazioni che hanno dato senso e consistenza a ciò che siamo.

C’è qualcosa che la poesia dovrebbe avere maggiormente cura di trattare oggigiorno, qualche argomento in particolare? O si può scrivere di tutto?

Sono più che convinta che, in poesia, si possa dire di tutto. A patto di preservare la costitutiva differenza di linguaggio che la caratterizza, che è un linguaggio intensificato, condensato, ritmico, immaginifico. A queste condizioni, si può affrontare la Storia (come hanno fatto autori contemporanei come Raboni, Buffoni, Giovanna Frene da un punto di vista filosofico-ontologico, o Fabiano Alborghetti con quella storia di spaesamento ed emigrazione che è Maiser o, ancora, Matteo Fantuzzi con l’attentato alla stazione di Bologna). Si può parlare della natura e della trasformazione del paesaggio come ha fatto Zanzotto o, coltivando una elegiaca nostalgia, Umberto Piersanti. Si può parlare degli scomparsi cercati in Tv come ha fatto Maria Grazia Calandrone, o di scienza e matematica come Bruno Galluccio, che ne fa metafore della condizione umana.

Devo porle la classica domanda su cui arabescare a piacere: cos’è la poesia?

In parte ho risposto sopra: la poesia è un linguaggio differente dall’ordinario, meno legato, o del tutto slegato, da una lineare – e razionale – consequenzialità del discorso. Un linguaggio fecondo di slogature e inciampi sintattici, che arriva per vie misteriose secondo i dettami dell’inconscio, aprendo strade espressive nuove. Come riporta Giancarlo Stoccoro, curatore di un originale e imperdibile volume su inconscio e creatività poetica uscito di recente, Poeti e prosatori alla corte dell’Es, per Ana Blandiana “La poesia è più vicina al miracolo che al mestiere”, mentre per Iosif Brodskij si tratta di “uno straordinario acceleratore mentale, che consente di creare connessioni e legami inaspettati”. Oltre a ciò, devo infine rimarcare l’importanza dei suoni in poesia: la musicalità è un elemento essenziale che, insieme alle qualità immaginifiche del testo, dona potere evocativo ai versi. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare alla poesia esclusivamente nei termini di un’epifania: è una pratica che richiede una base di competenza e di preparazione specifica, su cui si innesta la componente del talento individuale. E ancora non basta: senza un disegno progettuale non si può dare compiutezza alla scrittura poetica che richiede, oltre alla scintilla creativa, metodo.

Non credo la sua, almeno in questo testo, sia una poesia sociale, più che altro intimista, riflessiva, meditativa, esistenziale. In poesia c’è spazio per riflessioni politiche e sociali?

Certamente. In merito a questo ho in gran parte risposto nella risposta alla seconda domanda. Ma, attenzione, anche una poesia cosiddetta (e correttamente, a ragione) “riflessiva, meditativa, esistenziale” è in qualche modo una “poesia politica, o sociale”. Lo è in quanto, come nel mio caso credo e spero che sia, “poesia onesta”, per dirla alla maniera di Saba, poeta oggi non più di moda, nonostante la sua sia stata una grandissima lezione. Quando si scrive per una reale necessità, e coerentemente con il proprio modo di sentire e pensare il mondo, allora si fa politica, nel senso che si testimonia una propria attitudine e se ne rendono partecipi gli altri. Chi cerca seriamente la propria verità nella scrittura, mantenendo vivo e vitale il linguaggio, svolge un ruolo sociale, e fa politica attiva.

“Quello che stavi cercando/al momento non esiste più/ a questo indirizzo./ A meno che non stessi cercando/ questa pagina di errore,/ in questo caso: congratulazioni!/ L’hai trovata”: è un testo sprovvisto di forza lirica, forse un’eccezione in Fioriture capovolte. È piacevolmente pop, comunicativo. Mi piace, ma non ne comprendo il motivo. Potrebbe dirmelo lei?

Questo testo è certamente un’eccezione, in Fioriture capovolte. Apparentemente anodino e impersonale, potrebbe essere una di quelle finestre che si aprono quando si usa il computer, avvisandoti che la tua ricerca non può avere compimento: perfetto per esprimere, con pudica e opportuna distanza, la drammaticità di uno stallo esistenziale.

La poesia ha un qualche tipo di utilità dal suo punto di vista? Sembra che, grazie a essa, lei porti avanti un’esplorazione dell’intimità, una meditazione interiore.

Molti poeti si compiacciono nel dire che la poesia è qualcosa di assolutamente inutile. Io non la penso così. Credo si possa dire che la poesia, e in generale l’arte e la letteratura, abbiano una funzione salvifica, sia per chi ne è autore sia per chi ne fruisce. L’oggetto d’arte, così come uno spartito musicale o un testo scritto, dà forma ai nostri contenuti inconsci, e li mette in relazione con gli altri, cercando un rispecchiamento empatico, un particolare punto di vista sul mondo. “La poesia, nata come canto di preghiera, corale, adesso non è che un piccolo rituale terapeutico”, ha scritto Patrizia Valduga, una delle mie maestre di poesia. Per Valduga la poesia è – con una bellissima definizione – “esposizione rituale alla morte. L’imprigionamento delle parole è l’imprigionamento della vita: la sospensione, l’imprigionamento della vita per affermare e salvare la vita. Se sacrificare significa rendere sacro mettendo a morte, la poesia sacrifica la vita, la rende sacra attraverso il rito della forma che la espone alla morte”. Pur riconoscendomi nella formulazione di Valduga, aggiungerei che, per quanto mi riguarda, la poesia è anche un’esperienza del mondo: il poeta esperisce il mondo attraverso il linguaggio, in particolar modo quello, appunto, intensificato e soprassaturo della poesia, che del mondo sa e può cogliere l’essenza, i sottintesi, le sfumature, e traduce la sua individuale e irripetibile esperienza per il lettore. Il linguaggio assume così una funzione biunivoca. Da una parte serve al poeta per conoscere (nella sua funzione oggettivante, in senso biblico, direi: la conoscenza avviene tramite la nominazione) il mondo. Le cose esistono e prendono vita attraverso le parole che gli attribuiamo, che le definiscono, a maggior ragione per quanto riguarda il processo creativo, legato all’individualità del soggetto che lo opera e dunque avulso da banalità e standardizzazione, quando riuscito e autenticamente significativo: scrivendo, il vero poeta, oltre a dar forma ai propri contenuti psichici ed emotivi, dà forma al mondo, o meglio ne crea uno nuovo, personale e originale, o, per dire più precisamente, lo trova insieme alle parole che affiorano alla sua coscienza. Dall’altra parte, e in senso inverso, il linguaggio è la modalità che il lettore attraversa per attingere il senso e la visione del mondo del poeta, o dello scrittore in genere, e, venendone a contatto, di esserne modificato, o di trovare un rispecchiamento. Nel caso dei poeti e della poesia lo scambio, ciò che passa attraverso le parole, è essenzialmente una sostanza emotiva, quantomeno in prima battuta (anche se, come acutamente osserva Nicola Ghezzani, psicoterapeuta e autore di densi e significativi saggi: “In un processo autenticamente creativo non c’è alcuna distinzione fra emotivo e razionale. Parafrasando Pascal potremmo dire che nella libera scrittura creativa il cuore ha ragioni che la ragione ben conosce, e la ragione ha sentimenti che il cuore riconosce”.

Mi sembra di poter rintracciare nel suo testo qualcosa di cui noto sempre più spesso la presenza nei libri di poesia: un gran numero di citazioni da altri autori poste come esergo. Potrebbe dirmi in che modo lei concepisce questi rimandi, ovvero che funzione svolgono nell’economia della sua opera?

Credo che l’opera di ogni autore sia in dialogo con quella degli scrittori che lo hanno preceduto, e a sua volta con coloro che seguiranno… Le citazioni in epigrafe nei miei libri testimoniano di questo: i miei versi possono prendere avvio da quelli di un altro poeta, oppure, i versi di qualcun altro possono aggiungere un supplemento di senso ai miei. Quando leggo un libro, sia di narrativa che di poesia, sottolineo sempre i passi che più mi colpiscono: i libri che ho amato sono sempre particolarmente “vissuti”. Così, quando scrivo, dispongo di un magnifico repertorio di frasi o versi che mi hanno illuminato e significato, e, alla bisogna, li uso per completare il mio testo, o per meglio precisare, quando riguardano un intero libro o una delle sue sezioni, il significato degli stessi.

Il suo libro preferito?

Difficile dirne uno solo, ma, se proprio devo indicarlo, direi Everyman di Philip Roth. Pur non avendo il respiro epico di altri grandissimi romanzi della vecchiaia dello scrittore (da Il teatro di Sabbath alla trilogia americana, che ho amato moltissimo) è una meditazione sulla morte di un’asciutta essenzialità, scarnificata e quasi zen.

Il suo libro di poesie preferito dal 2000 al 2010? E dal 2010 a oggi? Perchè?

Anche in questo caso, è difficile indicarne uno solo, ma, per il primo decennio, mi viene subito in mente Fuoco centrale e altre poesie per il teatro di Mariangela Gualtieri, pubblicato da Einaudi nel 2003, quando io stessa ero ancora editor della Collana bianca. La scoperta della scrittura di Mariangela è stata per me una grande emozione, una rivelazione. Non ricordo per quali vie fu segnalata a Mauro Bersani, allora responsabile dell’area Letteratura, e quando mi trovai i suoi libri (fino a quel momento pubblicati da piccoli editori di poesia) fra le mani fui letteralmente travolta dall’entusiasmo: una scrittura sorgiva, di rara intensità, in cui ogni parola era dettata da una necessità interiore e, al contempo, dotata di una consapevolezza singolare, per cui la componente emotiva era sempre sorvegliata da una linea di pensiero. Con Mariangela, devo aggiungere, c’è stato anche un incontro umano, profondo e fecondo, come raramente capita con un autore. Per il decennio successivo non posso invece non ricordare la lezione di colui che considero un riferimento certo e un maestro, Milo De Angelis. Del 2010 è Quell’andarsene nel buio dei cortili, il settimo dei suoi libri. Per quanto il suo lavoro che preferisco rimanga Biografia sommaria, per la sua ieratica icasticità, Quell’andarsene nel buio dei cortili ha una sua forza in cui si trovano condensate le caratteristiche della poesia di Milo, che, va detto, ha avuto il merito di essere anticonvenzionalmente personale, rinnovando il genere lirico (nel quale personalmente mi riconosco) alla luce di un’ispirazione orfico-oracolare. Una poesia che, pur essendo radicata in dati ed elementi di un reale autobiografismo (il contesto urbano e metropolitano milanese, la centralità dell’adolescenza, una fisicità coincidente col gesto atletico), risulta tesa in una visionarietà che trascende gli oggetti, e i soggetti, dei versi, supportata da una vocazione analogica.

Fioriture capovolte è anche un libro autobiografico, una sorta di bilancio esistenziale di mezza età”, così sta scritto nella presentazione del suo libro. Le vorrei chiedere, a tal proposito, se sussista dal suo punto di vista un legame tra la vita e la letteratura? Quello che si vive e si vede perché finisce per essere trasposto in versi? Come andrebbe tradotto il reale nella poesia?

Tutti i miei libri hanno una base autobiografica, direi che non posso che scrivere di quanto ho esperito, provato e patito in prima persona. Rimango convinta che questa sia la vocazione primaria della poesia, e che senza il supporto di quello che lo scrittore ha vissuto in prima persona non ci possa essere letteratura dotata di una reale profondità e di un reale spessore. So di dire, di questi tempi, cose ben poco à la page, ma questo è quello che penso. Detto ciò, occorre, quando si scrive, mettere un filtro a quello che potrebbe risultare fastidiosamente confessional, porre una distanza, e questo non può avvenire che con l’elaborazione formale. Di questo, naturalmente, fa parte tutto l’armamentario retorico che uno scrittore, o poeta, avveduto non può non avere; e dunque, sì, simboli, metafore, apparati metrici e quant’altro. Mi viene in mente, nella recente raccolta di Tiziano Scarpa, Le nuvole e i soldi, l’espediente grafico-metrico che usa per parlare (lui che è un narratore che ricorre alla sola immaginazione) di temi molto personali: fa emergere, da un tessuto verbale anodino e impersonale, versi in grassetto che affrontano, con un’ulteriore distanziazione ironica, temi privatissimi. Questo per dire, in definitiva, che i contenuti autobiografici devono, per poter essere condivisi dal lettore e assumere un significato universale, essere in qualche modo “spersonalizzati”.

C’è in questo senso qualcosa che potremmo trovare esclusivamente nella letteratura, o scrittura, al femminile?

Esclusivamente direi di no, anche se la scrittura femminile è, indubbiamente (e questo per ragioni forse più storiche che attitudinali) una scrittura in forte relazione con la vita, profondamente radicata nel vissuto e nell’esperienza, così come nel corpo e nel bios.

Spero di non trovare una testa di cavallo sotto casa, con una minaccia di morte in versi, all’indomani della pubblicazione di questa intervista. Qualcuno potrebbe provare risentimento nei miei confronti. Lei risponda sinceramente però, la prego, lasciando perdere la proverbiale suscettibilità degli scrittori: c’è una differenza di qualità tra i testi editi dalle cosiddette “grandi case editrici” come l’Einaudi e la piccola-media editoria di poesia italiana? Se sì, in cosa consiste?

Oggi la piccola e media editoria fanno un lavoro spesso eccellente (penso solo ad Aragno editore, che ha ospitato un mio libro “di nicchia” come Il numero completo dei giorni, difficilmente collocabile presso un editore mainstream: un libro che per me è stato un vero e proprio compimento). Piccola e media editoria assorbono molta della buona e spesso ottima produzione poetica che non riesce a trovare uno sbocco nelle collane storiche dei grandi editori. E sono serbatoi da cui, spesso, questi ultimi attingono. Anche per la funzione di scouting che svolgono: è molto difficile, infatti, esordire con una grande casa editrice: in genere pubblicare con un piccolo editore è un passaggio obbligato. Certo, come è stato scritto all’inizio di questa intervista, le collane storiche delle grandi case editrici rimangono una garanzia.

Alessandro Paglialunga

 

Gruppo MAGOG