05 Luglio 2022

“Una certa armonia del mondo”. Sia lode a Peter Brook

C’è un puctum, forse uno solo, ed è importante coglierlo. Non è difficile: basta osservare una fotografia, quasi una qualunque, per vedere e capire che dentro quelle pupille si celava, manifestandosi, un seracco artistico.

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Ha valangato le scene di mezzo mondo scavallando il secolo che l’ha visto nascere, il Novecento. E si è spinto anche un po’ più in là, a rido_sso della tripla cifra. E poco importa se non ha fatto ridere la bocca: il vero sorriso, quello mentale, quello che non si vede, l’ha fatto fiorire anche a febbraio quando ha firmato, assieme a Marie-Hélène Estienne, lo scespiriano Tempest Project. Sembra nulla, ma si stava avvicinando al compleanno numero 97.

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Peter Brook, qualche giorno fa, ha detto “sipario”. Questa volta però in maniera definitiva, chiudendo gli occhi, quelle due grotte profonde che sottendevano abissi verticali, scenografie, parole recitate, ricerca.

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“La corda tesa è l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro. Non voglio insegnare nulla, non sono un maestro, non ho teorie”.

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Attingendo in parte al Terzo Teatro – anche se sarebbe più corretto invertire i soggetti e gli oggetti: è stata la scossa di Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba a “prendere” da Brook -, il regista londinese ha cercato di abbattere quella parete che separava la vita e l’arte, azzerando il “concetto di finzione davanti alla rivelazione di una verità esistenziale profonda”. In Peter quindi il teatro si trasformava, nella finzione della recita, una profonda esperienza intima collettiva di vita perché, come ha ammesso

“quando un gruppo di persone è riunito per un evento molto intenso, che deve esprimere tutto ciò che in poesia un grande autore può dare, lo spirito diventa tangibile come è tangibile che quest’impressione non si può avere in solitudine e il suo senso per tutti è che la vita può essere vissuta”.

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Il mondo ha imparato il suo nome (non difficile, a dire il vero) nel 1955 quando, 30enne, ha portato in Europa la prima grande tragedia di Shakespeare, violentissima e sanguinaria: Tito Andronico (in scena due attori giovanissimi che diventeranno piuttosto celebri Laurence Oliver e Vivien Leigh). Non è una celebrazione della romanità, il Tito, bensì una lucida e insieme sgomenta e inorridita analisi dei meccanismi del potere, dove Roma è metafora dello Stato moderno. Un testo che gli ha permesso di gettare un seme: riportare il teatro alla dimensione del rito, senza troppi orpelli. Un teatro essenziale, denudato di ogni decoro scenografico, di ogni naturalismo, di ogni illusione psicologica o declamatoria. Materiale, idee, concezione e approccio alla mise en scene che vengono racchiusi tra le pagine di un libro, Lo spazio vuoto (conosciuto anche come “Il teatro e il suo spazio”, pubblicato nel 1968), un volume fondamentale in cui Brook individua quattro tipologie di teatro: Mortale, Sacro, Ruvido e Profano. Quattro teatri che “possono esistere l’uno accanto all’altro, l’uno dentro l’altro, oppure lontani”.

Da Sogno di una notte di mezza estate, 1970

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L’attualità del suo pensiero è racchiusa in una relazione a tre: quella tra attore, testo e pubblico. Prima di andare in scena, quindi nella fase di costruzione dello spettacolo, l’alchimia deve avvenire tra l’attore, il testo e il regista; ancor prima invece tra il regista, il testo e lo scenografo. Se il regista non ha in mente cosa “vedere” e cosa “far vedere”, il testo e gli attori rimarranno spuri. Il testo, in sintesi, diventa il pernio su cui la creatività di ogni parte deve girare per emettere energia cinetica. Com’è facile intuire, è stato molto ispirato dal teatro della crudeltà di Antonin Artaud, che aspira a un contatto diretto con lo spettatore, essendo parte integrante della creazione artistica globale.

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A 60 anni si regala il capolavoro, una summa del suo pensiero, un’impresa, un canto alla durata, un viaggio in prima classe: Mahābhārata, nove ore di purezza con undici intervalli. Lo spettacolo fu rappresentato per la prima volta al 39º Festival di Avignone il 7 luglio 1985. Peter Brook cercava “un luogo privo di qualsiasi passato culturale e artistico”. Furono individuate le cave di Boulbon, nelle Bouches-du-Rhône, quindici chilometri a sud-ovest di Avignone. Gli spettatori dovevano raggiungere il luogo partendo in automobile, autobus o battello, per poi proseguire a piedi. “Lo spettacolo – riportano le cronache del tempo – veniva messo in scena dentro la cava e la scenografia era sovrastata dalle rocce della cava stessa, alte una trentina di metri. Le tre parti dell’opera vennero rappresentate sia insieme sia separatamente. La prima parte andò in scena il 7, 10, 16, 19, 25 e 28 luglio; la seconda l’8, 11, 17, 20, 26 e 29 luglio; la terza il 9, 12, 18, 21, 27 e 30 luglio. L’opera completa fu invece rappresentata il 13, 22 e 31 luglio: l’evento fu chiamato Notte del Mahābhārata e durò tutta la notte. Lo spettacolo fu considerato la visione mitologica di una società divisa e sull’orlo dell’autodistruzione, situazione che probabilmente Brook considera assai vicina alla realtà attuale. In un lungo articolo del 1985, “The New York Times”, ha evidenziato il “travolgente successo di critica” ricevuto dalla produzione, per uno spettacolo che “ha fatto nientemeno che il tentativo di trasformare il mito indù in arte universalizzata, accessibile ad ogni cultura”. Brook commentò il progetto con queste parole:

“Quello che viene espresso nel Mahabharata è che esiste una certa armonia del mondo, un’armonia cosmica, e gli individui possono contribuire a essa o distruggerla. Quindi ognuno deve tentare di scoprire qual è il suo posto nello schema cosmico e come può contribuire a mantenere l’armonia cosmica, piuttosto che distruggerla”.

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Nel 2016 il Teatro Storchi di Modena ha ospitato Battlefield, un distillato della maratona Mahābhārata, o meglio, uno spaccato della “storia dei discendenti di Bharata”. Un rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta quindi dove da una parte sono schierati cinque fratelli, i Pandava, dall’altra i loro cugini, i Kaurava, i cento figli del Re cieco Dhritarashtra. Il conflitto diventa ben presto una vera e propria devastazione, milioni di cadaveri ricoprono il campo di battaglia. Infine prevalgono i Pandava, il più anziano dei quali, Yudishtira, deve salire al trono con il peso di una vittoria macchiata dal sapore amaro della distruzione. Il vecchio re Dhritarashtra, che ha appena perso tutti i suoi figli, e il nuovo re, suo nipote Yudishtira, condividono lo stesso dolore, lo stesso bruciante rimorso, eppure devono affrontare la realtà e assumersene la responsabilità. Pare oggi, e invece è ieri.

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Ma è forse nel suo legame con il Bardo che il regista ha scandito tutta il suo lavoro: più o meno ogni cinque anni, non di più, metteva le mani nel poeta di Stratford-upon-Avon. Il primo incontro già nel 1930 quando il cinquenne Peter mette in scena Amleto come un burattino: essenziale, senza troppi drappeggi. Già da piccolo aveva chiara l’idea di come doveva essere il suo teatro.  

Brook   riporta   un   episodio   del   1945,   quando   andò   per   la   prima   volta   a   Stratford   per   celebrare   il   400º anniversario della nascita di Shakespeare. Qui c’era bisogno di un rituale e l’unico modo di celebrare di cui si aveva ricordo era una festa: si fece così una lista di persone che si riunirono, si salutarono, mangiarono qualcosa e poi qualcuno tenne un discorso ufficiale e alla fine si alzarono tutti in piedi per brindare a Shakespeare. Solamente che nel momento in cui tintinnarono i bicchieri, ognuno dei presenti si concentrò sulla vera ragione per cui erano riuniti e ci fu un attimo di silenzio che un istante dopo venne spezzato e dimenticato. Se avessero avuto maggiore comprensione del rito, si sarebbe potuto celebrarlo in modo diverso: noi non sappiamo come celebrarlo perché non sappiamo cosa celebrare. Conosciamo solo il risultato finale, il clamore, gli applausi.

Anche le rappresentazioni teatrali terminano sempre con gli applausi, le grida di approvazione, ma battiamo le mani automaticamente perché non sappiamo cos’altro fare. Ma dimentichiamo che un altro modo di riconoscere ed apprezzare un’esperienza è il silenzio: un silenzio teatrale che comunica, il silenzio che indica l’aver capito, l’aver colto, la condivisione. Purtroppo, tutti i rituali, tutte le forme di arte sacra sono state distrutte dai valori borghesi, ma se c’è ancora l’esigenza di stabilire attraverso il teatro un contatto autentico con una sacralità invisibile allora Brook dice di riesaminare tutti i possibili strumenti per farlo.

Brook   riporta   un   episodio   del   1945,   quando   andò   per   la   prima   volta   a   Stratford   per   celebrare   il   400º anniversario della nascita di Shakespeare. Qui c’era bisogno di un rituale e l’unico modo di celebrare di cui si aveva ricordo era una festa: si fece così una lista di persone che si riunirono, si salutarono, mangiarono qualcosa e poi qualcuno tenne un discorso ufficiale e alla fine si alzarono tutti in piedi per brindare a Shakespeare. Solamente che nel momento in cui tintinnarono i bicchieri, ognuno dei presenti si concentrò sulla vera ragione per cui erano riuniti e ci fu un attimo di silenzio che un istante dopo venne spezzato e dimenticato. Se avessero avuto maggiore comprensione del rito, si sarebbe potuto celebrarlo in modo diverso: noi non sappiamo come celebrarlo perché non sappiamo cosa celebrare. Conosciamo solo il risultato finale, il clamore, gli applausi.

Anche le rappresentazioni teatrali terminano sempre con gli applausi, le grida di approvazione, ma battiamo le mani automaticamente perché non sappiamo cos’altro fare. Ma dimentichiamo che un altro modo di riconoscere ed apprezzare un’esperienza è il silenzio: un silenzio teatrale che comunica, il silenzio che indica l’aver capito, l’aver colto, la condivisione. Purtroppo, tutti i rituali, tutte le forme di arte sacra sono state distrutte dai valori borghesi, ma se c’è ancora l’esigenza di stabilire attraverso il teatro un contatto autentico con una sacralità invisibile allora Brook dice di riesaminare tutti i possibili strumenti per farlo.

Tra gli spettacoli più maturi vanno ricordarti Re Lear (1962), La tempesta (1968), Sogno di una notte di mezza estate (1970), Antonio e Cleopatra (1978). Un amore talmente grande, sincero, duraturo e cristallino, incondizionato, da finire in un libro pubblicato in Italia nel 2005, Dimenticare Shakespeare?

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“Lo spirito, questa materia immateriale impossibile da giustificare e da mostrare, è l’unica giustificazione per l’evento teatrale”.

Gruppo MAGOG