
Il mago, la Regina di Cuori, il manicomio e i fiori. “La gioia” di Pippo Delbono
Teatro
antonio coda
Si sta diffondendo sempre più la “brutta abitudine” – spacciata dagli artisti di sinistra come “innovazione o “favore” – di organizzare a fine spettacolo un “momento” di incontro con la compagnia che sino a qualche minuto prima era impegnata a “realizzare” uno spettacolo. Un attimo che dura minuti e minuti, farcito di “domande” inutili e fintamente “radical chic” (quelle cioè che vengono poste per far credere agli altri spettatori e agli attori stessi, che solitamente davanti a questioni sulla drammaturgia contemporanea gongolano, che chi le pone sia del tutto conficcato “dentro” al fatto teatrale) e di altrettante risposte poetiche che, de facto, altro non è che una profonda offesa. Offesa verso la compagnia (se hai bisogno di “spiegare” il tuo lavoro significa che quel tuo lavoro non è abbastanza chiaro né tantomeno sufficientemente “comunicativo”) ma anche verso la platea “bue”, intellettivamente e intellettualmente (all’apparenza) non in grado di capire cosa avviene in scena. In questa trappola “mortale” e noiosa – quando la luce torna in scena, il primo pensiero è quello di alzarsi e uscire – ci è cascato anche Da parte loro nessuna domanda imbarazzante, il “dialogo” ospitato al Teatro degli Atti di Rimini il 21 dicembre e che, se andiamo a analizzare con attenzione il titolo, nulla si può dire se non che vi sia grande coerenza: Fiorenza Menni e Chiara Lagani, intervistate da Laura Gemini, non hanno posto domande ma donato solamente risposte. Il testo di base, quel misterioso “L’amica geniale” di Elena Ferrante che racconta la storia di due bambine (Elena e Lila) che lanciano le proprie bambole (Tina e Nu) in una cantina e che poi non ritrovano più, incolpando del mancato ritrovamento Don Achille, un orco partenopeo forse pedofilo, è un terreno straordinario di indagine. Indagine che, scenicamente, rimane però incompiuta: la storia, potenzialmente, dà spazio a grandi soluzioni e accorgimenti che però Fanny & Alexander (Chiara Lagani e Luigi De Angelis che ha firmato la regia) e Ateliersi (Fiorenza Menni) sembrano quasi ignorare, previlegiando l’azione e i due colori primari: il bianco (degli abiti delle bambine) e il nero (della scena): il “pacchetto” risulta quasi amatoriale (vestiti semplici, luci abbastanza fisse, attrici microfonate e cuffiate), nonostante l’eccezionale bravura vocale di Chiara Lagani, capace di “evocare” spettri e mostri oscillando con professionalità dal ruolo di bambina a quello finale di bambola. Uno spettacolo da vedere ad occhi chiusi: per entrare nel flusso narrativo ed emotivo dei racconti delle due bambine (tra le due, la meno incisiva è Fiorenza Menni) non occorre guardare quello che avviene sul palcoscenico ma lasciarsi trasportare dalla deliziosa partitura di parole che si sormontano, intervallate e attraversare da un tappeto musicale indovinato.
Alessandro Carli