Un genio. Non ci sono altre parole: in pieno periodo degli yuppie e all’inizio dei cinepanettoni gli danno la sigla di Sanremo. Era il 1982. Pareva trash, ovvio, con quella canotta scura su cui sono stati stampati pettorali e addominali scolpiti. Ha fatto centro: l’anno successivo sale sul palco dell’Ariston con un pezzo che grazie all’intuito de La zanzara, la trasmissione condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo su Radio 24, è stato innalzato a manifesto. Di più: un monumento di un’Italia sgarruppata, cazzara, attenta alle tinture per capelli degli eterni non invecchiati, alle cene a base di bollicine francesi, alle corse in macchina. Ai capodanni bianchi: un’illusione da donare a chi non se lo poteva permettere. Giovani rampanti, quelli della “Milano-Cortina due giri di Rolex”, e ovviamente “Alboreto is nothing”. Bei tempi…
*
Non ne erano affatto consapevoli. Pirandellianamente, insomma, non si vedevano vivere. C’è voluto il suo guizzo per “fermare” in due o tre 45 giri un Paese di animali vestiti da finti signori. Di fichi (non i frutti dell’albero) che andavano in giro a spiattellare un lusso di spille, stelline, giubbotti di pelle, t-shirt con le spalline. E che attaccavano adesivi ovunque. Anche sui diari di scuola, o nei cessi.
*
Tra i brani più famosi ritroviamo Cesso, parodia delle canzoni d’amore giocata su terminologie scatologiche in forma di calembour (“Cesso di amarti questa sera (…) / cesso di dirti che t’adoro / però io resto qui e mi sforzo / a non pensarti più”) ma anche Ninna nanna. Non quella tradizionale ma una rivisitazione: “Più ti guardo e più ci penso / che somigli a don Lorenzo / il buon padre confessore / a cui mamma apriva il cuore / (…) Dormi, dormi, bimbo bello / che tuo padre è un cornutello / e tu’ madre è una bigotta / dormi, fio de na’ mignotta…”. Poi c’è America, pezzo pioneristico (in ogni senso) che ha anticipato le rime di Renzo Arbore. “La minestra nell’Ohio, la si mangia col… cucchiaio / (…) Il cavallo nel Nevada fa la… cacca per la strada / E persino in Carolina ci son figli di… puttaina”. Nessuna forzatura e nessuna volgarità. Nemmeno se ci strofini la carta igienica profumata.
*
Certo, la visibilità gliel’ha data la televisione. Cinema, quello (sulla carta) minore, quello delle B-movies, con carrellate di coscelunghe e popò al vento, zizze e completini intimi capaci di far venire, a chi li vedeva (ed erano in tanti), “tutti i pensieri del mondo, dai quasi casti ai quasi reato” (soprattutto i secondi), per dirla con le parole di Stefano Benni.
*
Però è stato anche un eccezionale cantante. Un cantautore. “Alto”, a modo suo. E lungo e sottile come un fuso. Più o meno doveva ragionare così: musica ingannevole e orecchiabile – oggi li chiamiamo “tormentoni” – e parole leggere. Poi, come il Chimico di De André, li faceva sposare senza farli reagire. Brani “infantili” per raccontare ai bambini il mondo dei grandi, i loro difetti, i loro vizi, la loro incoscienza di appartenere al circo umano. Non è da tutti: giocare con gli opposti, affilare la lama per andare più a fondo. E ridicolizzare i soggetti presi di mira. Che, in fondo, sono più o meno quelli di quella volta.
*
Ha studiato al liceo artistico a Roma, quello in via Ripetta. Tra i suoi insegnanti vi sono Renato Guttuso e Giulio Turcato. Insomma, se hai buone orecchie e un briciolo di sensibilità, qualcosa di bello te lo metti a fare.
*
Aveva già compiuto 40 anni – anche se da poco – quando ha sfornato una manciata di brani nazionalpopolari che solo apparentemente erano dedicati ai più piccoli: in realtà erano purissima satira. Nel cortile della politica razzolavano i galli che cantano, le galline che rispondono, le oche che ocheggiano in cerca di un riccone e di un vip e i “matti”, gli scemi del villaggio. Lui ha inventato una “Spoon river” romanesca. Ed è tanta roba.
*
“Non tutti sanno che Chì chì chì cò cò cò fu il primo esempio di rap in Italia” disse l’artista.
*
Pippo Franco, il 2 settembre, ha compiuto 80 anni. Auguri Francesco. Pippo è il cognome.
Alessandro Carli