
“Io so’ io e voi non siete un ca**o”. Alberto Sordi, una maschera
Cinema
Alessandro Fiesoli
Con “La stranezza” di Roberto Andò ecco un altro esempio, dopo i recenti “Drive my car” e “Qui rido io”, di cinema che racconta, direttamente o meno, il teatro. Angolazione affascinante perché permette di vedere in che modo il cinema rappresenta un’arte residuale e mitizzata, ma anche misconosciuta come il teatro (e il suo mondo). Mezzo espressivo, quello del cinema, che si direbbe invece ancora in piena forma (malgrado le consuete grida di crisi), pur nel cambiamento in corso, epocale, di modalità fruitiva (sempre più piattaforme streaming, come pare, e sempre meno sale) che però in definitiva non va a ledere la forza estetica del linguaggio filmico, anzi semmai ne arricchisce le possibilità di fruizione nelle più disparate varianti.
Come non vedere infatti nell’archivio di alcune piattaforme on-line un’incredibile possibilità di acculturazione? Fino a pochi anni accedere all’immenso repertorio dei film d’autore potendo contare soltanto sulle sale d’essai o sul mercato dei DVD era qualcosa di impensabile e insperabile. Oggi le filmografie della Varda, di Godard, di Antonioni, di Fassbinder ecc., oltre alle opere dei contemporanei più invisibili, per vedere le quali bisognerebbe far la spola tra i festival specializzati di mezzo mondo, le si può trovare disponibili in streaming con una modicissima quota annuale. E tutto questo senza che lo specifico filmico in sé ne venga poi così tanto sminuito: d’accordo via lo schermo gigante, via la comunità (?) degli spettatori in sala, ma di fatto l’essenza dell’opera è lì, presente, e l’opera è fruibile più volte, e visionabile anche per singole sequenze. Chiaro che per il teatro tutto questo è impossibile: la visione on-line riproduce il punto di vista della regia video e non quello del montaggio o della scrittura scenica, dunque è la visione di una visione nella quale le possibilità di sguardo dello spettatore rimangono imbrigliate. Inoltre l’importanza della “comunità” degli spettatori è più palpabile a teatro che al cinema: ciò è evidente a chiunque confronti le due esperienze.
Ma veniamo al film in questione. Il soggetto è originalissimo e non facile. Portare al cinema la figura di Pirandello, un monumento arduo da gestire, incardinato com’è al suo piedistallo di antico premio Nobel e di grande del Novecento letterario. Dunque di solito lo si lascia dov’è. Nelle scuole lo studio dell’autore sarà anche contemplato dai programmi, ma accade pure che si cerchi di divulgarne l’opera direttamente a teatro, per esempio con certe recite in matinée per gli studenti che con difficoltà riescono a incrementare l’interesse o la simpatia per i testi del drammaturgo siciliano.
Dicevamo originale soggetto anche perché non tratta di una biografia ma sceglie un evento preciso della vita del drammaturgo: la genesi del suo primo grande capolavoro, “Sei personaggi in cerca d’autore”. Qui l’aneddotica non manca, sappiamo dall’Autore della circostanza della visita ripetuta di un gruppo di personaggi non accolti in opera, che lo perseguita perché ne sia compiuta la vita, ecc. Ebbene il film parte da qui. Anzi no. Parte dalla vita non dalla letteratura. Parte da un Pirandello che torna in Sicilia per festeggiare gli ottant’anni dell’amico Giovanni Verga, e viene dirottato, per la morte improvvisa della sua balia, nel paese in cui la donna è deceduta e nel quale decide di fermarsi per seguire personalmente le esequie. Qui incontra due becchini, gli stessi che seguono la pratica della defunta, che per diletto fanno teatro e hanno messo in piedi una compagnia amatoriale.
Qui scocca la prima scintilla di interesse, per il nostro angolo visuale: l’incontro tra la suddetta “scalcagnata” compagnia e un mostro (non ancora monumento) del teatro dell’epoca (siamo nei primi anni ’20). Lo svelamento dell’identità del grande Autore viene sapientemente ritardato, e nel frattempo seguiamo le vicende della coppia comica e dello scrittore.
E qui comincia a essere interessante focalizzare l’attenzione sull’attrito che si produce tra due ambiti del teatro, così come li vediamo rappresentati nel film. Quello amatoriale e quello del mestiere o dell’arte. A un certo punto Pirandello assiste alla prima dello spettacolo della compagnia di paese. Il capo dell’ufficio comunale per le pratiche del cimitero, che era riuscito a farsi dare una doppia bustarella per sbloccare l’iter, da lui stesso interrotto, della sepoltura della balia, anch’egli tra il pubblico, si riconosce in uno dei personaggi più satireggiati della farsa e sbotta, nel mezzo della recita, inveendo contro gli attori. Da lì un crescendo di proteste e agnizioni impreviste che incendiano la platea costringendo gli attori a uscire dalla parte per reggere il confronto con ciò che sta accadendo in sala.
Un gioco di rispecchiamento teatro-vita che nel film sembra l’eccezione che fa scaturire nella mente del drammaturgo l’intuizione del corto circuito sala-platea dei “Sei personaggi” (bisogna aggiungere che lo spettatore, dalla scena, riceve l’impressione che Pirandello s’imbatta per la prima volta in una situazione del genere). In realtà ciò che Pirandello vede non è un’eccezione. Facciamo un momento critica alla critica cinematografica più paludata. Questo un frammento della recensione di Alberto Crespi su Repubblica: “La stranezza di Roberto Andò è una riflessione sulla creatività artistica, e rovescia il sempiterno rapporto alto/basso in modo geniale, mostrandoci come la farsa possa influenzare il Teatro con la T maiuscola”. Qui ci sono due cose da sottolineare. Primo: la “farsa” di cui parla Crespi sembra non riferirsi al genere storicamente noto, pedana di lancio e insieme ritorno alle origini di un grande drammaturgo come Molière per esempio; sembra piuttosto un modo di dire, un modo per enunciare genericamente il concetto. Secondo, la farsa quale genere, o con l’accezione più ampia di teatro comico, non accidentalmente ma con una certa continuità ha intrattenuto relazioni fertili con il teatro cosiddetto “alto” (basti anche solo pensare a Shakespeare). Il critico sta dicendo insomma un’ovvietà travestita da “scoperta”.
Certo qui bisognerebbe introdurre una distinzione: quella fra teatro amatoriale e teatro di mestiere o dell’arte, ambiti tra i quali la pellicola finisce per suggerire una poco credibile contiguità, o perlomeno somiglianza, di certo per esigenze di sceneggiatura. Perché è chiaro che sarebbe stato molto meno interessante per il grande pubblico, cui è rivolto il film, assistere per esempio all’interazione tra due livelli del teatro professionistico, quello popolare e quello colto; cosa che avrebbe richiesto alla storia gli intrighi e le vicissitudini di una compagnia di giro (come nell’ottimo “Qui rido io” di Martone), ma con possibilità di identificazione del pubblico pressoché nulla, piuttosto che, come accade nel film di Andò, le disavventure di una compagnia paesana, dalle quali indubbiamente possono ricavarsi più gustosi spunti umoristici (all’altezza della verve comica, peraltro modesta, del duo Ficarra e Picone), specie nel contrasto tra due mondi così diversi come quello della profonda provincia siciliana – con le sue candide ma non ingenue vitalità popolari incanalate nelle fantasticherie del cimento teatrale – e il mondo del Pirandello già celebrato maestro.
Ma per tornare alla questione che ponevamo più sopra: tutto il teatro popolare di mestiere, per limitarsi alla tradizione italiana, è fatto di interazioni tra scena e platea, con punte di coinvolgimento che possono provocare la temporanea interruzione/irruzione dello/nello spettacolo da parte del pubblico; una forma di partecipazione attiva, a volte parossistica, alle vicende rappresentate. Si pensi alla sceneggiata, al teatro dei pupi (dove gli spettatori intervenivano attivamente a difesa dell’eroe, urlando e minacciando il “cattivo”), a quello dei comici dell’arte, ai burattini. Ciò che Pirandello semmai fa, almeno a seguire l’ipotesi, certo immaginaria, ma plausibile, che ci viene dal film, è un’altra cosa. È accorgersi che il corto circuito che si innesca nella commedia amatoriale può essere la chiave per risolvere una propria situazione creativa bloccata. L’autore coglie nella modalità comunicativa accidentalmente reperita nella commedia dei dilettanti (ma, ripetiamo, comune nel teatro popolare di mestiere) una soluzione tecnica e insieme “filosofica”, per un proprio problema d’arte. Insomma, ai livelli del teatro di mestiere o d’arte, la contrapposizione teatro con la “t” maiuscola o minuscola non esiste. Esiste il Teatro e basta. Una certa critica invece ha sempre bisogno di classificare e creare legami causali immaginari. Purtroppo però anche il film sembra sposare questa tesi, cioè quella di una continuità/contiguità inesistente fra teatro degli amatori e teatro dei professionisti, probabilmente per non risultare troppo eccentrico rispetto alla sensibilità media del grande pubblico. Sappiamo invece dei rapporti artistici importanti intrattenuti da Pirandello con il grande attore dialettale, siciliano, Angelo Musco (per il quale scrive, Pensaci, Giacomino, Il berretto a sonagli, La patente e altri). Il problema è anche, diciamolo, che la storiografia teatrale ufficiale, in Italia, ha sempre cercato con tutte le sue forze di separare in casa le due sorgenti primarie della nostra grandezza scenica: il teatro in lingua o letterario e il teatro regionale o dialettale.
Sul mondo dell’arte attorica, e sul dislivello testo/attori-teatro, è molto più sagace lo sguardo di un critico del passato, un grande scrittore, come Ennio Flaiano. Sentiamo come racconta di una umilissima compagnia di attori di mestiere, vista all’opera in un teatrino della capitale, che sembra incarnare la sapienza antica dell’attore, per la quale non hanno importanza classificazioni gerarchiche (serie A o serie B), ma la dedizione assoluta all’arte anche a scapito della comodità di vita e addirittura del riconoscimento sociale – dedizione che finisce per modellare, poi, anche la misura stilistica e determinare l’efficacia artistica della recitazione:
“in un cinema di quartiere, durante la commediola che precede il film. (…) Due sedie, un tavolo e un armadio. Attori romani poverissimi ma padroni del palcoscenico. Non strafanno, mostrano anzi una certa ironia verso la loro stessa condizione. (…) Piccoli gesti, tic da grande attore. (…) Cerco il nome dell’autore sul manifesto: non c’è. Ecco: o il teatro dei grandi secoli, o “la parola”, o questo teatro anonimo, rionale, improvvisato sera per sera da generazioni di attori generosi e sfortunati”.
Tornando al film, si potrebbe semmai immaginare che è dall’arazzo secolare del lavoro di artisti come questi, e dal modo in cui gli attori popolari riuscivano a modellare la relazione con il pubblico, che Pirandello attinge la sua grande invenzione, tra le più sconvolgenti del Novecento teatrale, oltre che dal proprio “genio”. Ma qui lo vediamo sollecitato solo dalla maldestra messinscena della compagnia di paese. Si può tuttavia riconoscere nella pellicola un’intuizione che ci pare calzante: che il “genio” di Pirandello sembra scaturire da una grandissima capacità di ascolto (atteggiamento che Servillo rende con finezza e sensibilità, quasi senza parole), di connettersi, senza giudizio, a ciò che accade intorno. Il genio, insomma, è uno stato di coscienza.