“La lotta appassionata con il Dio che punisce”. Andrea Caterini entra nelle viscere del “Giobbe” di Joseph Roth
Letterature
Andrea Caterini
Che Paul Léautaud non sia mai passato davvero nel sistema editoriale italiano non è un mistero. Léautaud è un francese totale: ha la freddezza del cinico, il moralismo dell’amorale, la limpidezza del torbido. La sua scrittura – morbida e moribonda – non è esente da volgarità: Léautaud guarda dove non bisogna guardare, fa della spudoratezza la propria purezza, dice ciò che non vogliamo sentirci dire. È insopportabile; è inarginabile. Geniale Léautaud: ha fatto del proprio egotismo un modo d’essere, del proprio ombelico un mondo:
“In quanto scrittore, sono sempre stato sordo all’ambizione, all’esibizione, alla reputazione, all’arricchimento. Mi interessa soltanto una cosa: il piacere. Questa parola rappresenta per me il motore di tutte le azioni umane… Non intendo essere un folle, un profeta, un riformatore. Preferisco restare spiritoso, ironico, irridente”.
Amava Stendhal – “Sono incline a parlare di me… nei sogni, passo il tempo a rivivermi” – quanto disprezzava Flaubert, esteta dallo stile raffinato, “autentico ebanista letterario, che lucida le frasi affinché risplendano, con un unico risultato: mediocrità e noia”. Autodidatta, snobbava, a prescindere, i contemporanei: non aveva letto Proust né Céline. Aveva compilato, per Mercure de France, un’antologia dei Poètes d’Aujourd’hui – a lui si deve la piena scoperta di Apollinaire – per capire che “Ho sprecato dieci anni della mia vita intellettuale lasciandomi cullare da quei burloni dei poeti che sono, lo credo fermamente, uno zero, un niente per la crescita spirituale e mentale. Non mi hanno insegnato niente”.
Nato a Parigi nel 1872, la vita di Léautaud porta lo stigma del solitario, dell’uomo puro e incrudelito, “il cui eccesso di chiaroveggenza e disincanto culminano in una specie di feroce presa in giro del mondo” (così Émile Bernard). La madre, attrice da operetta, “una puttana, piuttosto”, lo abbandona appena nato, ha da compiere il suo ciclo di tournée; il padre, Firmin, suggeritore presso la Comédie-Française, “brillante sciupafemmine”, ha ben altro da fare che occuparsi di lui, “diciamo che i miei genitori mi hanno permesso di vivere da solo, a mio modo – è già qualcosa”. Nei meandri di Parigi, il ragazzo fa mille mestieri, assaggia con distrazione l’afrore della povertà – “Per otto anni ho pranzato e cenato con formaggio da due soldi, un tozzo di pane, un bicchiere d’acqua e un sorso di caffè. Se è povertà, non lo sapevo, non ne ho sofferto” – legge, molto, moltissimo, in modo disordinato:
“Ho imparato da me, da me solo, senza nessuno, senza regole, privo di una direzione e di un maestro, a leggere ciò che mi piaceva, che mi attirava, che coincideva con la natura della mia mente”.
La ‘svolta’, per così dire, gli capita a 23 anni, quando entra tra le fila del “Mercure de France”: metodico, crudele, sapiente, Léautaud, tra l’altro, si fa notare come critico teatrale. La sua rubrica, tenuta sotto la cappa dello pseudonimo, Maurice Boissard, è feroce e libertina, diverte gli intellettuali del tempo. Presto le riviste ‘di grido’ tentano l’autore, lo vogliono. Léautaud, naturalmente, agisce da par suo: ribalta gli applausi in sfida aperta, sfata la fama in infamia, in violenza raddoppiata. Jacques Rivière lo pretende sulla “Nouvelle Revue Française”; Maurice Martin du Gard lo paga per scrivere sulla “Nouvelles littéraires”; Jean Paulhan e Drieu la Rochelle gli faranno, negli anni, la corte. Il cliché è sempre quello: Léautaud inaugura una rubrica finché, poco dopo, scrive qualcosa che non va – un aggettivo di troppo, una brutale bestemmia, un colpo basso a qualche amico degli amici –, gli viene chiesto di emendare il danno e lui manda tutti a fottersi.
Naturalmente, un ‘tipo’ simile, dotato dell’acribia dello scrutatore, ha l’indole per l’opera esoterica, a cui dedicare la vita, totalizzante, onnivora, tentacolare. Tutti applaudono Le Petit Ami, romanzo autobiografico del 1903, ma il capolavoro esorbitante di Léautaud è l’immane Journal scritto nell’arco di sessant’anni, pubblicato dal 1954 in diciotto tomi e seimila pagine, per lo più postumo. Eccolo, il genio di Léautaud, fiancheggiatore dell’esistere, che colpisce ai fianchi amici, conoscenti, convenzioni, spietato anatomista di se stesso e del prossimo. Vera opera autistica, autarchica, da notista compulsivo, da chiosatore nella bocca del lupo:
“Ho vissuto soltanto per scrivere. Ho sentito, sperimentato, visto, udito, provato sentimenti e conosciuto persone per scriverne. Ho preferito la scrittura alla felicità materiale, alla facile reputazione. Ho spesso sacrificato i piaceri del momento, i più segreti amori, la felicità di poche creature, per scrivere ciò che volevo scrivere. Di questo conservo la più profonda gioia”.
L’importanza di Léautaud mi è confermata, trasversalmente, da un bel libro di Frédéric Pajak, Manifesto incerto. Ezra Pound chiuso in gabbia, la morte di Walter Benjamin, edito da L’Orma. L’autore avvicina il Journal di Léautaud ai Cantos di Pound: “Ognuno di loro si è gettato anima e corpo nella costruzione di un caseggiato smisurato, di una fortezza orizzontale sdraiata sul proprio fossato, modellata nel corso di milioni di istanti, aneddoti, osservazioni, letture erudite, invettive, disgusto, esultanza, meraviglia, come fosse un unico e al contempo ininterrotto movimento di respirazione, inspirazione, espirazione, soffocamento… Léautaud e Pound: due lampi ininterrotti che straziano un cielo crollato seguiti soltanto dal boato del loro tuono”.
Simile oltranza è disavvezza a questo paese, in fondo, di solari beoni: il Diario di Léautaud ha avuto un passaggio in Garzanti (1969; a cura di Oreste del Buono) e in Feltrinelli (come Settore privato. Diario personale, 1968, con introduzione di Elvio Fachinelli). Il resto sono frattaglie: Passantempi edito da Einaudi (1983), il Diario particolare, 1933 edito da ES (1993), Amori per Sellerio (2011), Il piccolo amico edito qua e là. Nel 2005, all’Argentina di Roma, Luca Ronconi mette in scena il Diario privato con Giorgio Albertazzi nella parte di Léautaud; la riduzione è di Raffaele La Capria. Ultimi vagiti di un mondo al disastro; oggi Paul Léautaud è pressoché scomparso dal contesto editoriale italico.
Naturalmente, fece sempre storia a sé, Léautaud. Ateo – accusava i cristiani di “stupidità incurabile e monumentale” –, non ha mai votato – “Non sono di destra. Tanto meno di sinistra. Sono certo di chi sono: un niente, un neutrale, un indipendente, un marginale”. Odiava la democrazia – “una vera tirannia” – il culto della libertà – “che si volge rapidamente in disobbedienza e disordine” – e “la dittatura dei sindacati, che sodomizzano il governo”. Disprezzava ciò che per noi è ormai acquisito: il suffragio universale, l’istruzione obbligatoria e statalizzata, il servizio militare, il diritto allo sciopero, l’idea di patria. Durante la Seconda guerra fu filo tedesco quasi per sport – “Una volta ho detto, creando scompiglio, a cena, che se la Germania avesse vinto la guerra avremmo avuto un regno di ordine e pace” –, disprezzava le azioni ordite dalla Resistenza – “La stupidità dei loro delitti, e la codardia, sconfinata” –, eppure adorava (per sport) l’Inghilterra, “l’unica grande nazione al mondo”. Poiché era nato nel nulla, sentiva di essere tutto, aveva un’indole da re:
“Ho lasciato la scuola a 15 anni, mi sono fatto una cultura da solo. Come scrittore, mi sono perfezionato senza l’aiuto della democrazia. Al contrario, agisco e sento come un aristocratico. Il mio modo di pensare, di giudicare è aristocratico. Sono un antipedagogo, sono antipopolare. Forse sono un anarchico dello spirito”.
Dal 1950 una trasmissione radiofonica organizzata da Robert Mallet gli diede vasta notorietà. Lui, ovviamente, sfruttò la fama per ritirarsi in un se stesso più astioso. Gallimard gli chiese di installare la propria opera nella “Pléiade”: non gli parve vero rifiutare. La sua casa era piena di cani randagi, di bestie trovate per strada, ferite, sconsolate; se ne lasciò inondare. Morì il 22 febbraio del 1956, questo geniale antitutto. Le sue ultime parole: “E ora, finalmente, lasciatemi in pace”. Dal suo sorriso, spesso sarcastico, lucevano bave di gioia.
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Propos d’un jour
L’amore è corpo, attrazione carnale, piacere ricevuto e donato, reciproco godimento, unione di due esseri fatti sessualmente uno per l’altro. Il resto, le iperboli, i sospiri, gli “scuotimenti dell’anima” sono fantasticherie, nenie per idioti, sogni ad occhi aperti per spiriti impressionabili. La passione è il fuoco che il piacere instilla in noi. Il sentimento è l’agguato a questo piacere, la gratitudine, dicono (se tale parola significa qualcosa, poi, in amore). La gelosia, il deragliamento del cuore, perfino l’omicidio che a volte ne deriva, sono fisico, corpo. La rappresentazione del proprio piacere concesso a un altro. Di un’amante che muore non siamo gelosi, lo rimpiangiamo. Un’amante che ci lascia per entrare in convento non stimola la gelosia, ma il dispiacere, semmai. Gelosia, deriva del cuore: dramma, omicidio, è, per una donna, il sesso dell’uomo che ama che fa godere un’altra, e, per l’uomo, il sesso di una donna sotto scacco di un altro… L’amore è puro corpo. E La Rochefoucauld l’ha dimenticato: l’amore è una forma di interesse. Amiamo dell’altro noi stessi; il piacere che diamo all’altro, infine, è per noi, ha la nostra forma.
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Ciascuno ha la propria adorata, la più bella, ciascuno dibatte della propria storia, è convinto di un piacere senza pari, che il proprio amore tenda all’eternità. Il sapiente, invece, sa che amare è un piacere: amare uno oppure un altro, essere amati o credere di esserlo, e se non fosse quello, sarebbe quell’altro, dunque non c’è motivo di scaldarsi troppo, di esagerare la propria condanna o il proprio paradiso, di urlare alla felicità o alla disgrazia: è sufficiente, finché c’è, godersi la musica, e suonarla.
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Amore, la verità dell’amore, la perfezione dell’amare: il solo amore degno di amore è quello impudente, la sensualità fisica e verbale, sempre viva, sempre nuova.
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L’amore dei semplici, dei tiepidi, dei blandi, dei riservati, dei muti, non è amore.
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Meravigliosa giovinezza che risorge sul volto degli innamorati non più giovani, risvegliando il piacere dell’amare.
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L’amore è felice, vivo, sfrenato, senza reticenze. Estasi durante il piacere, risate quando ne usciamo. Poveri amanti i muti, i grevi, i cerimoniosi, i cupi sepolcri: che miseria un compagno di questo tipo.
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Non sono per il cambiamento, per la novità. Ho bisogno della massima intimità e libertà fisica. Al contrario di molti altri, l’abitudine è la condizione primaria per il mio piacere. Più ho ricordi, immagini dei piaceri passati, maggiore è il piacere di quel momento.
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Quando corteggi una donna, sedotto dal suo viso, dovresti considerare altro. Va valutata la pelle, il tono, la tensione al tocco; e conoscerne l’odore, e le parti pelose, setose o ruvide; e la conformazione del sesso: magra o languida, morbida o stretta, facilmente eccitabile o lenta e insensibile. Il piacere – e dunque l’amore – dipende dai dettagli.
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Non mi dà gusto l’amore passeggero, non ho mai messo piede in un bordello.
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Una camera mortuaria, un’azione equivoca ma condivisa, un rischio da cui siamo appena sfuggiti, la prossimità con chi stiamo ingannando, a volte, possono stimolare il piacere.
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Il vantaggio del materialista innamorato è di non cedere mai alla “cristallizzazione”, all’idolatria di chi ama, amando di lei, sotto il giogo della passione, meriti e qualità che non possiede. Il suo giudizio è esatto. La vede com’è. Se ne sarà deluso, non sarà in questo ordine di cose.
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L’amore non ha connessioni con le qualità morali.
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Ecco una “cristallizzazione” fisica, tipica: l’amante assente, di cui si è privati, che si adorna, sotto il veleno del desiderio, di bellezze maggiori di quelle che in realtà possiede.
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Il “sentimento” in amore? Debolezza che appartiene agli uomini. Le donne, in effetti, sono forti.
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Il segreto, eccitante del piacere.
Essere l’amante di una donna, essere la mantide di un uomo, senza che nessuno se ne accorga.
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Agli occhi degli altri, mostrarsi indifferenti uno all’altro, godere di riscoprirsi amanti sconosciuti.
Essere, a dire di tutti, donna indifferente all’amore, glaciale, e nel segreto, con il proprio amante, svelarsi la creatura più libertina che esista, che gioia!
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Tutti abbiamo il compagno perfetto per i piaceri d’amore. Spesso lo scopriamo tardi – alcuni non lo trovano mai.
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Spesso i miei scritti hanno sbriciolato l’amore, hanno offeso l’amata. Per questo, la mia facoltà di osservazione è sempre rimasta intatta. Non importa!, mi dicevo, ogni volta. Prima, scrivi. Poi, le sacrificherai l’universo.
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Il suo piacere mi ha sempre affascinato più del mio. Poco amabile nei modi, mi comporto a letto come un vero uomo di mondo: “Prima lei, Signora. Io vengo dopo”.
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Ciò che spesso rovina il piacere di amare è la mancanza di spirito nelle donne.
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Un amante galvanizzato dalla propria amata, di nome Maria, dopo aver goduto in modo estatico: “Ave o Maria piena di…”.
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Con buona pace dei moralisti: nell’amore, le posizioni più licenziose non sono un piacere soltanto per i sensi, ma soprattutto per la mente.
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Non si fa l’amore soltanto per desiderio, per passione, ma anche per amor proprio.
Paul Léautaud