Secondo Massimo Cacciari, così si legge sul commento pubblicato da “La Stampa” il 29 luglio scorso (“Muore il compromesso, trionfa la guerra”), a proposito degli scenari di guerra che si estendono dall’Oriente medio a quello estremo, da Kiev a Khan Yunis, allestendo la prossima guerra mondiale che ricompone i suoi pezzi sparsi, “la parola non ha più potere”.
Saremmo ritornati senza essercene allontanati mai per davvero a “Volontà di potenza contro volontà di potenza.” Cacciari registra, o decreta, il fallimento della filosofia che ha contribuito “coi suoi massimi esponenti, alla creazione di Alte Corti di Giustizia, di Corti penali internazionali.” Il potere delegato alla parola, alla parola data, alla parola scritta e vincolante, non sarebbe stato che una tregua, anzi una pantomima nell’attesa di poter tornare a sfoderare il primato della violenza.
Fin qui non sarebbe stata la capacità del parlarsi a sbarrare il passo alla distruzione reciproca. La pace non proviene dall’aver imparato il dialogo, è merito dell’atomica, “questa formidabile arma di equilibrio” che
“sembra aver perduto il suo potere deterrente Forse in qualche laboratorio del grande complesso militare-industriale si è scoperto il modo di usarla senza finire tutti sottoterra”.
La parola al più è sempre e soltanto intrattenimento, strategia del temporeggiatore, mezzo di distrazione dall’accaparramento della catastrofe. Nessuna parola può salvarci, solo un’arma nuovamente apocalittica senza scampo lo può.
“Nihilismo concreto: ogni soggetto non dotato di potere in atto è niente, semplicemente non è. Parla, dichiara, ma la parola non ha più valore”.
La parola se non ha più valore istituzionale, politico, legale, non è, e siccome la scelta è data tra la parola e il nulla non ci resta che il nulla, ovvero subire la volontà di potenza di chi può permettersela.
Cacciari, sia inteso, intende lanciare l’avvertimento, l’urlo. Anche con le parole di Elias Canetti:
“Questa cattedrale con i suoi ottocento anni potrebbe ridursi in polvere la prossima notte… questa città traboccante di vita crollare in quarto d’ora”.
Ecco dove conduce la perdita di riconoscimento di valore nella parola: all’arbitrio del più violento. Alla sottomissione di chi ha dalla sua soltanto la sua parola.
Ma: fosse così, fosse soltanto così, fosse tragicamente vero che la parola ha toccato l’apice della sua insignificanza, che bisogno ci sarebbe ancora di mentire, di manipolare la comunicazione, di omettere, di informare su qualcosa per meglio disinformare su tutto il resto, di uccidere i giornalisti per sbaglio o per bersaglio, di distruggere le università oltre agli ospedali e alle centrali, di liberarsi degli intellettuali anche quando non sono degli ingegneri nucleari o degli scienziati, quando sono degli umanisti e basta?
Com’è che il potere della forza deve sempre preoccuparsi di annientare chi esercita il potere della parola libera e liberata? La volontà di potenza passa dalla parola e passa dalla volontà di potenza convincere chi la parola potrebbe prenderla eccome che la parola non ha più potere. Tutto passa dalla parola, anche la volontà di potenza. Perché le cose siano fatte devono prima essere dette e perché si possa continuare a farle in un certo modo si deve fare in modo che certe parole non si vengano a sapere, non vengano dette a tutti. La parola è lo scontro. La parola è la cosa. Le parole cambiano l’idea della cosa e dunque la cosa stessa, la relazione con la cosa, il valore della cosa, il cosa è lecito fare della cosa – e tante volte la cosa in questione è una persona e non una cosa tra le cose.
Chiamare le cose con il loro nome, ancor di più se è il nome di una persona, rivela la volontà di potenza per quel che è, e rivela le reali intenzioni di chi si prepara l’alibi perfetto dell’a-mia-insaputa, del ma-io-credevo-che, del ma-a-me-non-era-stato-detto-così, del facevo-solo-il-mio-lavoro.
Non esiste potere al di là della parola che lo dice, che lo conferma, che lo fa-essere-come-è. L’alternativa non è tra la parola e il nulla ma tra il potere e il nulla e il potere si esercita attraverso la parola e la parola è l’evidenza di come il potere sia distribuito tra tutti, tra tutti coloro consapevoli di poterci attingere. La sfida del potere non è di sostituire il nulla alla parola ma di riuscire a far credere di aver nullificato il potere della parola. Di aver concretizzato il nulla. È impossibile distruggere il potere che la parola conferisce a chiunque sappia padroneggiarla ma è possibilissimo dire che invece lo si è fatto eccome. Basta saper usare le parole in modo da far credere le parole siano diventate spuntante, inermi, inutilizzabili.
La parola non impedisce ma attribuisce. I filosofi stanchi attestino pure la loro rassegnazione a mezzo stampa, non per questo è venuta l’ora o verrà mai di consegnare l’arma nero su bianco della parola come potere che risponde colpo su colpo alle prepotenze del potere che la parola vuole dominarla, asservirla, insignificarla.
La ci vuole veramente poco a portarcela via. È un attimo, un click. La parola quella no, quella ci resta anche quando tutto ci è stato tolto, ultimo respiro compreso, in accordo con la definizione più volte data della poesia che è per l’appunto tutto ciò che resta. Poesia, che parola fuori dal tempo che il tempo lo contiene, lo inventa. Parola bella e feroce, malinconica, combattiva come poche altre.
A chi resta la parola non resta il nulla ma il suo opposto: la parola è tutto ciò che occorre per resistere al nulla, sbarrarlo, rovesciarlo, rivoltarlo contro sé stesso. La parola non è mai l’ultima. La parola è l’inizio, fin dall’inizio di tutto.
antonio coda
*In copertina: un’opera di Roland Topor