Un recente convegno a Urbino – il 17 ottobre scorso – con tanta brava gente – Enrico Capodaglio, Tiziana Mattioli, Massimo Raffaeli, con Silvio Castiglioni a fare da preparato ‘lettore’ – e un titolo d’altri tempi, un poco sovietico – “seminario popolare” – m’ha fatto tornare in mente Paolo Volponi (nella photo Mario Dondero). Un era fa era lettura per indottrinare gli scrittori tutti – compresi quelli ‘della domenica’ – oggi Volponi, volpone di partito, che fine ha fatto?, giace nel fittio della smemoratezza patria.
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Recluso in tre volumi della ‘Nuova Universale Einaudi’, che radunano i Romanzi e prose, ormai introvabili, è vero, Volponi continua a essere stampato – l’anno scorso, sempre Einaudi, I racconti, nel 2015 Il lanciatore di giavellotto e la ristampa di Memoriale, nel 2014 varie ristampe intorno al quieto anniversario, i 20 anni dalla scomparsa – con la stessa meccanica perizia – pelosa e pietosa – con cui si mettono i fiori sulla tomba dei cari andati. Insomma, nessuno legge Paolo Volponi, se chiedi a un narratore in auge, oggi, chi siano i suoi maestri, piuttosto ti spara lì qualche pluristellato americano, un nipponico pop, ma Volponi, vecchia volpe della letteratura nostra, chi se lo fila?
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Coerente con la sua critica alla faina capitalista, cresciuto alla Olivetti – quando il divo Adriano assumeva gli intellettuali e gli umanisti – testa fina del PCI, Volponi ha scritto romanzi perfino premiati (La macchina mondiale incantò lo Strega, nel 1965, con La strada per Roma rivince lo Strega nel 1991, record), ma illeggibili, oggi, che la capacità narrativa non va oltre un post su FB, e la capacità di comprensione non supera i caratteri lacustri di un tweet. Qualche anno fa, in una delle epiche telefonate con Massimiliano Parente si disse che non si poteva prescindere dalla lettura di Memoriale e di Corporale, per quella oltranza linguistica, quel favoleggiare nel torbido della Storia, con lavica verbosità.
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Esempio: “Da principio la scena persisteva nell’indulgenza che mettevo nel vedermi ignaro e abbandonato, offeso mentre gustavo un sonno appiccicoso, dai limiti corrotti fino alla mostruosità; poi vinceva lo scenario oggettivo, la presenza di un assassino dalla testa luminosa a cento metri dalle mie finestre, su quella spiaggia; il contatto che avevo con lui attraverso la sabbia intrisa dal suo furore: la spiaggia sempre più scura, un tratto arrossato che taglia le rive, che appare forse solo a me, che mi stringo nell’imbuto del mio pensiero dentro l’umidore della mattina”. Questo è Corporale, un brandello dalle prime pagine. Di fronte a una energumena intensità estetica simile, beh, dell’ideologia di cui s’incarica l’autore me ne fotto.
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Eppure. Non me ne sono fottuto. Paolo Volponi esordisce alla letteratura nel 1948, settant’anni fa, con la poesia, con la raccolta Il ramarro, entra in Senato nel 1983, casacca comunista, IX Legislatura – Pertini Presidente, Craxi capo del Governo – lascia dopo dieci anni, nel 1993, con la maglia di Rifondazione Comunista, alla Camera, XI Legislatura – Scalfaro Presidente, Amato poi Ciampi capi del Governo. Di Paolo Volponi m’affascinava l’intreccio tra arte e politica, tra scrittura e potere governativo. Se in Francia, in effetti, l’attività politico-estetica produce buone cose – da Saint-John Perse ad André Malraux e Paul Claudel, è concreto il numero degli scrittori prestati alla politica – in Italia, di norma, no. Il ‘caso’ Volponi – che si può leggere nei Discorsi parlamentari editi da Manni nel 2013 – è analogo, in pia opposizione estetica, a quello di Leonardo Sciascia. Volponi prese sul serio il compito politico – svolto, ad ogni modo, dopo aver pubblicato i capolavori – come quello narrativo.
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“Non ho mai fatto distinzione tra letteratura e politica. Sono stato sempre persuaso che la letteratura sia una forma del fare politica e nel senso più alto e più ricco del termine”, diceva Volponi. Sarà vero? Dipende dal peso che si dà alla parola politica e cosa s’intende per partito politico. Di certo, il gesto di parola è sempre ‘politico’ – deve essere a-partitico, a parte, in una glaciale e sgraziata indipendenza, inadempienza.
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Eppure. A questo stadio del millennio. Quando le sigle di partito sono come pop corn, non sono defunte le ideologie ma le idee. Quando il mercato spadroneggia imponendo un utile anche alla letteratura – per sua natura disutile, aliena al mondo, proprietà dell’uomo e del suo intimo – e si pagano i cittadini per tacitarne la fame di altro, di nuovo, di avventatezza. Avercene di Paolo Volponi. Ora, con qualche pietra sciamanica, imponendo la mantica dei tonti, ne ristoro lo spettro. Lette oggi, per dire, le bordate di Volponi contro la “tecnologia” hanno un sapido sapore antimoderno. Ecco un florilegio di frasi e di concetti pronunciate da Volponi in Parlamento. (d.b.)
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17 marzo 1984, Senato della Repubblica
La cultura non necessariamente deve essere quella dell’economia governata in termini collettivistici; ma una qualunque cultura industriale, non tanto dei modelli europei in atto oggi, che già stanno perdendo le vere prospettive delle cultura industriale dell’impresa, dello slancio, della ricerca scientifica, della qualità della vita, dell’innovazione, della crescita di lavoro e della crescita di benessere e che stanno agendo in termini piuttosto pesanti e restrittivi, come dimostrano le condizioni sociali, economiche e politiche di tanti paesi dell’Europa. Una cultura che sia proprio quella dell’industria intesa come grande patrimonio comune, come effettivo moltiplicatore di beni, di occasioni, di partecipazione e di sviluppo civile della società. L’industria, la fabbrica e il sindacato, che ha rapporti con l’industria e con la fabbrica, sono dei centri di istruzione.
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5 febbraio 1985, Senato della Repubblica
Ho già detto che la tecnologia è affermata genericamente come una scienza, addirittura quasi come un principio di filosofia, addirittura come una ideologia. Si parla, infatti, dappertutto della nostra carenza di tecnologia e della necessità di aumentare il nostro patrimonio tecnologico per arricchire la nostra cultura, la nostra capacità di progettare e di insegnare. Ma molte delle nuove tecnologie sono banali e, direi, transitorie. Esse sono soprattutto delle simulazioni, delle sofisticazioni, delle abbreviazioni o degli stratagemmi, messi in atto per ottenere dall’applicazione di certi princìpi di scienza risultati più rapidi, più vasti, più economici, più facili o più commerciali. Esse non hanno un vero valore esemplare né sul piano metodologico né sul piano dell’esperimento e del prodotto: sono al servizio di un sistema di potere, cioè dell’attuale sistema di produzione che è il reale sistema di potere in un paese. In realtà, queste nuove tecnologie insegnano poco o, se volete, non insegnano niente sul piano scolastico e culturale in quanto non liberano affatto il soggetto scolastico, i ragazzi ai quali pensiamo riferendoci ai nostri sistemi scolastici. Le tecnologie sono utili alla produzione, ma, come sappiamo, non tanto per la nostra cultura e per la nostra società quanto per gli interessi, la cultura ed il predominio di chi oggi possiede gli strumenti, le tecniche, i mezzi della produzione e le risorse. Questi indirizzi sono perciò da valutare con attenzione: non possono essere messi dinanzi ai nostri professori di scuola media e imposti come le nuove ed assolute formule per rinnovare e rendere pratica, efficiente ed aggiornata la nostra scuola. Questi indirizzi sono pericolosi perché non concedono, come ho detto, sul piano educativo, culturale e sociale niente o poco più di niente… Bisognerebbe invece pensare ad un modo diverso di fare la scuola, di avere dei rapporti scolastici, culturali, familiari, sociali ed anche politici con i nostri giovani; bisognerebbe quindi ritornare ad alcuni elementi che sono indispensabili nella formazione culturale di un individuo come in quella di una società, a materie, testi, discipline e strumenti che abbiano prima di tutto un grande contenuto di verità, così come contengano princìpi che possano servire di comprensione critica nei riguardi delle cose del mondo, della storia degli uomini e dei loro attuali ordinamenti, così come della loro vita, del loro lavoro e del loro destino. Tutto ciò non può trascurare i grandi indirizzi umanistici, letterari, filosofici e storici per nessuno degli indirizzi della scuola secondaria perché altrimenti la scuola formerà delle persone che resteranno sempre in sospensione e sempre in debito di fronte alle abbreviazioni, ai segni, alle cifre, alle simulazioni della televisione e di tutti gli strumenti che vanno oggi di moda, dall’archivio del computer alla tastiera di un altro strumento, al gioco fatto e prefabbricato e in fondo ai modelli ed alle idee che verranno sempre ispirate da chi manovra le centrali ed i sistemi di informazione e comunicazione. Dietro ogni scoperta vi è sempre qualcuno; queste macchine non esistono da sole, e l’uomo non deve fare i conti con una intelligenza artificiale.
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20 febbraio 1991, Senato della Repubblica (seduta riguardante “provvedimenti urgenti in ordine alla situazione determinatasi nell’area del Golfo Persivo”)
Questo è stato un secolo sanguinario e noi di questo secolo siamo forse quelli che più di altri hanno ucciso: milioni di morti in guerre ripetute che praticamente non sono mai cessate ma che si sono una all’altra legate o diramate. Milioni di morti in questo secolo e non abbiamo imparato niente; anzi, alla fine del secolo noi riaccendiamo una grande battaglia come a volere che anche il secolo seguente, il millennio successivo siano avvolti dai fuochi della guerra. Questa mi pare veramente una dura regressione, un nonsenso che comprometta la nostra stessa civiltà, la nostra umanità, il senso stesso della vita e della storia. Abbiamo visto la cultura dominante regredire: siamo tornati ai tempi scuri di cattivi poeti che cantavano la guerra come «igiene del mondo», o dei cattivi pensatori, o «mezzofilosofi» che stavano a dissertare sulla giustezza di una guerra e sulla sua necessità imprescindibile, come se questi non fossero i termini, invece, usati da culture che annientavano la qualità della nostra civiltà e che hanno trascinato il nostro e tanti paesi in conflitti inutili, sanguinari, che hanno compromesso la vita dell’umanità e quella stessa del pianeta. Pensiamo a come vivono il Terzo ed il Quarto mondo: sono essi messi in questa condizione dal fatto che il resto del mondo, quello che si dice civilizzato, ha investito le migliori proprie risorse solo nella costruzione di bombe, di armamenti; da cinquant’anni non si costruiscono che bombe: il comunismo, il socialismo, sono finiti anche perché si sono messi, nei termini del capitalismo, di fatto a produrre anch’essi bombe, perché una bomba salvava dall’altra bomba ed il mondo è rimasto praticamente dominato, schiacciato dalle bombe. E le bombe non sono state fabbricate invano. Oggi questa economia di guerra conclude finalmente le sue operazioni con una guerra: l’occasione è stata trovata… Siamo in guerra e anche noi – Governo, Parlamento e popolo – siamo diventati poco degni della nostra Costituzione. L’abbiamo tradita e abbiamo instaurato una Costituzione materiale che via via ha concretamente soffocato la Costituzione ideale che i Padri hanno scritto, animati da speranze di verità e di giustizia dopo guerre e sofferenze. Abbiamo tradito la nostra Costituzione. Per questo dobbiamo ritirarci da questa guerra. Non ci giustifica nessuna alleanza militare, perché ciò vorrebbe dire che non avremmo più autonomia e indipendenza. Ciò vorrebbe dire che il Ministro della difesa è Ministro della guerra, chè è addirittura un finto Ministro della guerra, perché il vero Ministro della guerra è, in realtà, quello degli Stati Uniti d’America.