MEGA 2, ovvero: il nuovo volto di Karl Marx
Dialoghi
Luca Bistolfi
Fui folgorato dalla Terra del Fuoco, elencarne i motivi sarebbe stucchevole. Sarà per quel nome – sarà quel lembo di attesa davanti ad Antartide, come se il ghiaccio fosse il preludio all’Eden, il prolungamento di una ramanzina biblica cominciata qualche millennio fa. Fu sullo sperone di un libro, La terra del fuoco, pubblicato ne ‘I coralli’ Einaudi nel 2001 – e oggi colpevolmente introvabile – che conobbi Sylvia Iparraguirre. Il libro è formalmente ineccepibile, possiede una raffinatezza superiore, come vedere la Yourcenar su una biga trainata da ghepardi. Presto si capisce che l’ostinata desolazione della Terra del Fuoco è quella che si spalanca nel cuore umano. “La tierra del fuego”, così il titolo originario, è stato pubblicato nel 1998, vent’anni fa, ed è il libro maggiore della Iparraguirre, tradotto, oltre che in italiano, in inglese, francese, tedesco, portoghese e in una manciata di altre lingue. Risalendo alla biografia dell’autrice da quel libro magistrale, ho capito che Sylvia Iparraguirre è uno dei rari ‘classici contemporanei’, uno scrittore ineludibile, inevitabile: insieme ad Abelardo Castillo – l’amore della sua vita – e a Liliana Heker, la Iparraguirre, che è stata discepola di Jorge Luis Borges e amica di Julio Cortázar, ha letteralmente edificato la letteratura argentina contemporanea, attraverso le proprie opere e attraverso il lavoro incommensurabile nella redazione di riviste fondamentali come El Escarabajo de Oro e El Ornitorrinco. Insieme a Sylvia, abbiamo cominciato una conversazione oceanica e anti-giornalistica a partire dal suo libro autobiografico, La vida invisible (2018), di cui si discute da mesi in Latinoamerica. Le escursioni nell’anima di Sylvia, di cui questo è l’ultimo approdo, sono state pubblicate da Pangea qui, qui e qui. Mi sorprende, continuamente, l’apertura totale di questa donna, che ha fatto la storia della letteratura e attende al nuovo con attenzione di cristallo. Mi commuove quando dice, “I cambiamenti scientifici e tecnologici hanno prodotto un salto cruciale. è impossibile comprendere pienamente un mondo che, a mio avviso, sta volgendo innanzi ai nostri occhi verso una nuova forma di civiltà e a una velocità irrefrenabile. Un mondo in cui la iper-sofisticazione tecnologica coesiste con i rifugiati, la droga, la fame, la povertà e la violenza estreme. è un intreccio difficile da afferrare. Frammentario o meno, continuo a credere nel valore salvifico dell’arte. Di fronte a questo mondo che ci travolge come uno tsunami, all’improvviso un film o un libro che ci parla di una piccola avventura umana ci commuove. Forse torneremo a Tolstoj: racconta il tuo borgo e sarai universale. Racconta una storia minima, un frammento del mondo e magari parlerai a qualcuno”. Con quale freschezza questa fiducia; con quale libertà questa battaglia. (d.b.)
Come scrive e perché scrive? Da dove proviene la sua ispirazione?
Ho cominciato a scrivere prima dei vent’anni, quasi segretamente; più tardi, col tempo la scrittura è diventata il mio baricentro, una sorta di fatalità, qualcosa che devo fare perché, altrimenti, non capisco la vita. È diventata anche un privilegio che mi consente di fare ciò che mi piace di più: narrare storie. Ma essere uno scrittore è molto più di pubblicare un libro. Al di là della mia biblioteca e dello schermo del mio computer, dove l’unica cosa che conta è ciò che sto scrivendo, essere scrittrice è avere una posizione dinanzi alla realtà, è sapere da dove scrivo, è una eredità che sintetizza il mio stare al mondo. Non credo nell’“ispirazione”; credo ci siano momenti illuminanti, improvvisi, in cui compare un’idea subitanea, una connessione particolare con ciò che stai scrivendo e che fa sì che il testo o la concezione del personaggio diano una svolta alla trama. Momenti in cui uno capisce ciò che sta cercando di dire; una epifania del testo, per usare una parola joyciana. Scrivere è correggere, è lavorare sul linguaggio, è costanza; il lavoro formale che mi piace di più.
Sono curioso di sapere, ad esempio, com’è nata l’idea di scrivere La terra del fuoco, che non è solo un romanzo, ma anche un reportage…
Da quando ho appreso la storia di Jemmy Button (un ragazzo della tribù degli Yámana condotto da Capo Horn a Londra, dal capitano Fitz Roy nel 1830) nel libro Los Yámanas, dell’antropologo gesuita Martín Gusinde, le sue vicissitudini mi hanno affascinato e ho cominciato a seguire le sue tracce per biblioteche e musei di Buenos Aires. In seguito, maturato uno schema generale del romanzo, mi sono recata nella Terra del Fuoco per continuare la ricerca. Il passo successivo è stato il Public Record Office di Londra. In quell’archivio e nella biblioteca della Misión Anglicana Patagónica, anch’essa a Londra, ho raccolto tutta la documentazione più importante per la conoscenza approfondita del tema e la conclusione del romanzo. La caratteristica principale di quei documenti era che parlavano senza interpretazioni. Compiendo un grande viaggio nel tempo, giungevano a me direttamente tramite la calligrafia tracciata con piuma d’oca dagli stessi protagonisti della vicenda. Questo particolare non è trascurabile (la calligrafia mi parlava anche del carattere di quelle persone) o, almeno, non lo è stato per me quando si è trattato di utilizzare nella narrazione quei documenti, la maggioranza dei quali compare nel processo che trent’anni dopo l’Impero farà a Jemmy Button nelle Falkland. Completare la documentazione e la scrittura del romanzo mi ha richiesto quattro anni.
Ma La terra del fuoco non è storia, è narrativa, è un romanzo che tesse una storia reale. Sin dall’inizio sapevo che doveva essere raccontata in prima persona: ho inventato il personaggio immaginario di John William Guevara (figlio di un inglese e una creola), il narratore testimone, un personaggio della stessa età di Button e suo compagno di avventure. Due outsider che giungono a Londra dai confini del mondo e scoprono la “civiltà”. Il mio intento era quello di ribaltare l’antinomia civilizzazione-barbarie e domandare chi furono, in realtà, i barbari. Era invertire la prospettiva. L’alterità americana è sempre stata vista, interpretata e raccontata da un solo punto di vista: quello del viaggiatore europeo bianco. Nel romanzo, cerco di vedere il bianco attraverso gli occhi di un nativo americano. Chiariamo subito, non si tratta del “buon selvaggio”, un cliché inesistente tra gli Yámana, che erano, come tutti gli uomini, buoni e cattivi. Per non parlare poi, chiaramente, degli interessi geopolitici che l’Inghilterra ha sempre avuto per la Patagonia e per l’unico passaggio, esistente all’epoca, tra i due oceani. Ho voluto dar voce a uno sconosciuto, a uno che non aveva, né avrebbe mai occupato un posto nella Storia. Più tardi, quando ho letto Carlo Ginzburg, ho sentito che il mio intento aveva imboccato la strada giusta.
Molti dei suoi libri sono stati tradotti in italiano: qual è il suo rapporto con la letteratura italiana? Le interessa la letteratura italiana?
Ho studiato la letteratura italiana classica all’università, da Dante al futurismo, ma devo ammettere con rammarico che il mio rapporto con la narrativa attuale è molto limitato. Mi sono tenuta aggiornata sulla poesia italiana attraverso una rivista meravigliosa: Poesia, che ho ricevuto per anni, ma mi manca la narrativa e, a dir il vero, sarei molto curiosa di leggere racconti e romanzi della nuova generazione. Delle generazioni precedenti ho letto Pavese, Malaparte, Pasolini, Claudio Magris, Bufalino, i racconti di Dino Buzzati, i romanzi di Vasco Pratolini. Dei più recenti, citerei Tabucchi e Alessandro Baricco, che sono stati quelli maggiormente divulgati in Argentina.
Che tipo di rapporto “professionale” aveva con Abelardo Castillo?
Non è stato un rapporto “professionale”, è stato un rapporto intenso, personale, di coppia, che abbracciava tutta la letteratura. Dico sempre che ho imparato più da lui nei primi due o tre anni trascorsi insieme che durante tutto il corso di laurea in Lettere. Al principio si trattò di una relazione da allieva, un po’ indisciplinata se vogliamo (non sono mai stata una persona docile, non me ne vanto, ma è così), piena di “ma” che eludevamo con umorismo, elemento fondamentale della nostra vita. “Professionalmente” ho imparato da lui che la forma (la cura della forma, la correzione di un testo fino al massimo delle tue possibilità) è l’etica dello scrittore; che è impossibile provare a scrivere senza essere un lettore appassionato; che bisogna prendere sul serio la letteratura, ma non prendere sul serio se stessi; che tra libri e autori è insita una stimolante contraddizione, cosa che ti porta al pensiero critico e dialogico. Molte di queste cose io, in qualche modo, le avevo già “addosso”, la brama di leggere, la mia predisposizione per il linguaggio, che mi accompagna da sempre e che mi ha spinto alla ricerca nell’ambito della linguistica; il mio culto per le opere di Michail Bachtin, filosofo russo che ha posto il dialogo, tutto ciò che è dialogico, al centro della sua teoria del linguaggio e del romanzo. Al fianco di Abelardo ho costruito il mio cammino di scrittrice, unita a lui, ma indipendente da lui. I nostri mondi narrativi sono differenti, i temi che ci hanno attratto sono diversi. Ho pubblicato quattro libri di racconti, cinque romanzi – di cui quattro tradotti in italiano: La terra del fuoco (Einaudi); Luna Park (Crocetti Editore); Il ragazzo dei seni di gomma e Sotto questo cielo (L’Asino d’oro edizioni) – una lunga cronaca-saggio sulla Terra del Fuoco, e il mio ultimo libro La vida invisible – una autobiografia in qualità di lettrice – che a volte cito in questa intervista.
Il mio apprendistato più diretto è da attribuire alla mia partecipazione alle riviste nelle quali pubblicai le mie prime e temerarie critiche bibliografiche (c’è da dire che frequentavo la Universidad de Buenos Aires, dove imperava la bibliografia obbligatoria, un ossimoro secondo Borges, e dove non si teneva conto dell’opinione dello studente). Poi, negli anni della dittatura, fu il momento de El ornitorrinco dove, avendo maturato più esperienza, ho lavorato a pieno titolo. Inoltre, pur approdandovi nella sua fase finale, ho collaborato anche per El escarabajo de Oro, una sorta di omaggio ad Abelardo, dato che le due riviste furono per lui un modo per stare al mondo. Quella rivista fu l’emblema della avanguardia ideologica ed estetica degli anni Sessanta e inizio Settanta in Argentina. Con gli anni sono riuscita a rendermi conto di quanto fosse stata determinante per molte persone, che si sentirono “formate” da ciò che vi si pubblicava. Nelle sue pagine si esprimevano opinioni sulla realtà e si discuteva di politica e cultura, ma fondamentalmente si facevano conoscere poeti e scrittori giovani, accanto ad autori consacrati e che facevano parte del suo comitato editoriale (Asturias, Goytisolo, Cortázar, Sábato, Fuentes, tra gli altri). Fu uno spazio per le correnti di pensiero che segnarono quel periodo: il marxismo e l’esistenzialismo; inoltre, passava in rassegna tutto il mondo del cinema (interviste a Fellini, Antonioni, Bergman) e del teatro degli anni Sessanta. La sua lettura dissacrante della cultura ufficiale, ma anche della sinistra burocratizzata e dell’accademismo criptico è spassosa; l’umorismo caustico è uno dei suoi tratti distintivi che preferisco. Mentre l’ortodossia di sinistra inveiva contro Borges in quanto reazionario, nella rivista Abelardo affermava, già allora, nel 1961, che bisognava appropriarsi del Borges essenziale, dei suoi libri e accantonare le sue opinioni sulla realtà. Anche se la rivista era nata sotto il segno dell’esistenzialismo di Sartre, ci fu un punto su cui Castillo se ne discostò: il concetto di “letteratura impegnata”, tipico dell’epoca. Per Abelardo la letteratura doveva essere libera e lo scrittore, semmai, doveva essere quello impegnato; l’uomo è colui che si impegna in quanto tale, mettendoci anima e corpo, se necessario, dicendo ciò che pensa in articoli giornalistici e saggi, ma la sua letteratura è libera, non panflettista. Tutto ciò ha rappresentato per me un grande apprendistato e una parte di quel nostro rapporto “professionale” che è stato, semplicemente, il nostro matrimonio.
Qual è la sua opinione sulla letteratura argentina oggi: è interessante, riesce a parlare del mondo contemporaneo? Lo scrittore, in generale, oggi è capace di interpretare il proprio tempo?
Ci sono moltissimi nuovi scrittori. Ci sono cose interessanti e altre meno. Non so se il proposito di questi giovani autori sia quello di parlare del mondo contemporaneo; spesso e volentieri mi sembra di vederli più interessati a diventare famosi che a scrivere. Ma questa è una generalizzazione. Mi risulta che ci siano scrittori, ragazzi e ragazze, giovanissimi che scrivono molto bene. Le direttrici sono svariate. C’è una forte componente femminista militante in molte giovani scrittrici; altri tentano un realismo minimalista, dove “non succede niente”, in un tentativo di dimostrare che non vogliono fare “letteratura”; ci sono diversi autori, e molto bravi, che nell’ultimo decennio hanno trattato la storia recente argentina, i traumatizzanti “anni di piombo”. E c’è un’ultima generazione che affida le sue pene, testi, foto e conflitti ai social network. Ma come tutte le generazioni, quelli che scrivono oggi, o fanno cinema o dipingono quadri, lo vogliano o meno, raccontano il mondo in cui vivono.
La realtà è diventata troppo complessa per far sì che la letteratura o qualsiasi arte possano fornirne una interpretazione che non sia parziale, frammentaria. I cambiamenti scientifici e tecnologici hanno prodotto un salto cruciale. è impossibile comprendere pienamente un mondo che, a mio avviso, sta volgendo innanzi ai nostri occhi verso una nuova forma di civiltà e a una velocità irrefrenabile. Un mondo in cui la iper-sofisticazione tecnologica coesiste con i rifugiati, la droga, la fame, la povertà e la violenza estreme, è un intreccio difficile da afferrare. Frammentario o meno, continuo a credere nel valore salvifico dell’arte. Di fronte a questo mondo che ci travolge come uno tsunami, all’improvviso un film o un libro che ci parla di una piccola avventura umana ci commuove. Forse torneremo a Tolstoj: racconta il tuo borgo e sarai universale. Racconta una storia minima, un frammento del mondo e magari parlerai a qualcuno.
(l’intervista è di Davide Brullo, la traduzione italiana dallo spagnolo di Marianna Marchi con la supervisione di Mercedes Ariza)