Le cose belle parlano, tutto il resto tace.
Se quell’impressione di essere interpellato in un mare di rumore mi sfiora, come un irrifiutabile invito a guardare, allora la bellezza invoca, come sirena provoca col suo strascico un pelagico, impetuoso sisma improvviso; e prima di muovere imperturbabile ad altri occhi smaniosi, m’ammanta l’anima.
Vibra, prega un valoroso agire, un tripudio d’opere per farla propria. È forse un danno? Se lo è, sprigiona il sapore squisito della sua sembianza e in essa m’inabisso – come bastimento sventrato – nel perenne inganno.
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«La beauté est supérieure au génie en ce qu’elle n’a pas besoin d’explication».
Si poteva scrivere in italiano, questa frase di Oscar Wilde, oppure in inglese o in qualunque altra lingua. Preferire il francese è un capriccio, dovuto al fatto che in quella lingua suona più bella. La banalità dell’argomento prova che egli ha ragione: la bellezza ha molte forme, ma di certo non necessita di spiegazioni.
Per afferrarla, tuttavia, bisogna sacrificare molte cose. Di questo prova a parlarci lo scrittore, nel celebre romanzo Il ritratto di Dorian Gray, che suona a volte come un saggio etico, carico di ammonimenti, altre come un puro sfoggio di estetismo. Le due cose non paiono inconciliabili, per quanto le paternali non si addicano ad un genio dissacratore ed anticonformista come lui. In effetti, dopo la lettura dell’opera è difficile dire se prevalga il ricordo delle drammatiche conseguenze di una vita dissoluta oppure l’ode alla bellezza delle cose.
Le domande che la storia solleva hanno un carattere creativo: in realtà, cos’è la bellezza? È uno stato fisico oggettivo delle cose del mondo o è il riflesso di qualcosa nella nostra mente? È ispirata da un’osservazione della realtà o dall’eco emotiva che quella visione provoca?
Non è un dettaglio e Wilde ne è consapevole. Occorreva certo un atteggiamento in controtendenza alla morale sociale dell’epoca (e dunque anti-vittoriano) per demolire i dogmi sociali e rappresentare durevolmente la controversa relazione tra bellezza, giovinezza e mortalità. Per lui, il bello perviene all’uomo in due forme: come simbolo di eternità, da un lato; come “religione del bello”, che eleva gli spiriti, dall’altro. La prima – una risposta alla antica paura della morte – vive nelle profondità dell’uomo ed esprime il suo valore nell’attimo stesso del riconoscimento sensoriale; la seconda è una forma di venerazione, ciò che esiste di più vicino ad una professione di fede. La distinzione è netta: la prima è un prodotto spontaneo del mondo mentre la seconda è frutto dello sforzo creativo dell’artista.
L’Arte – fucina di bellezza – è meraviglia, rappresentazione fisica del genio, percorso di ricerca spirituale e garanzia certa di esposizione a rischi e conseguenze. Qui è anche vessillo di una battaglia sociale personale, manifesto di recisa contrapposizione all’utilitarismo borghese, per cui ogni cosa del mondo dev’essere misurabile e profittevole. Quell’inutilità intrinseca, che rende l’arte vacua per l’uomo gretto, toglie invece le catene allo spirito libero e lo affranca dal materialismo.
Chi crea bellezza, vi è inghiottito, consegnando ad altri la propria opera. Il risultato di quel lavoro è qualcosa a cui la vita stessa finisce per ispirarsi completamente. Come dice Wotton, in un passaggio del romanzo: «Life imitates Art far more than Art imitates Life.»
Wilde elabora dunque un concetto d’arte coerente con il suo stile di vita anticonformista. Replica alla società vittoriana, fortemente critica sul taglio licenzioso del suo romanzo, sottraendole scopi e motivazioni, annichilendola completamente. Agli uomini del suo tempo, arroccati sulle posizioni tradizionali borghesi, sarà suonato debole l’argomento che “l’arte non è né morale né immorale, ma funziona come lo specchio di chi l’osserva”. Per chi lo legge oggi, diversamente, esprime una forza indiscutibile. Lo scrittore allude ad una verità che non può essere mai assoluta, ma solo soggettiva. L’opera d’arte, una volta creata, si stacca dall’artista e non v’è alcun risultato cui essa debba pervenire. È un dono per lo spirito che ha la sola funzione di sollevare gli eletti – coloro che la possono comprendere – e distinguerli dalla confusione del mondo. In questo senso l’arte è culto e religione con un suo oggetto proprio.
Ispirate precisamente da quella professione di fede, si articolano le drammatiche vicende del suo protagonista. Dorian Gray è la personificazione della vita che tenta di imitare l’arte come pura esperienza estetica. Fallirà, aggravato dal peso delle carni, smarrendosi tra il puro edonismo e la dissipazione morale.
Pervade l’intera storia il tema del male, che qui si ispira (volutamente?) al mito di Faust. Aleggia l’immagine del baratto dell’anima con doni soprannaturali: il logoramento cui vai incontro il ritratto del protagonista ne è la manifestazione plastica. Di un demonio vero e proprio non sembra però esservi traccia. Il maligno si manifesta come riflesso di sé sulle proprie azioni, nella forma di corruzione dello spirito, e non pare avere né un volto né un corpo, se non quello del ritratto. Il quadro, tuttavia, non è più un’entità fisica inanimata, perché nel tempo muta di aspetto. Non è un interlocutore dotato di una propria voce, come uno spirito malvagio che si presenta di fronte all’uomo, ma è come se lo fosse; anzi, in assenza di una piena riconoscibilità diviene ancor più insidioso e sottovalutato.
Wilde usa il pretesto narrativo (la fascinazione per la bellezza e l’immortalità corporea) per mettere in piedi la tentazione fatale che affligge lo spirito fragile. Attorno a Dorian ruotano la cattiveria e la bontà: i due profili sono in lui e fuori di lui rappresentati da Wotton e Basil. La storia rivela il suo infausto esito quando l’ultima voce buona che resta di Dorian – ossia Basil – muore per sua stessa mano. Il tentativo di “imitare l’arte con la sua vita” naufraga quando l’uomo, diviso tra le forze positive e negative che lo abitano, è chiamato ad una scelta. La vicenda di Dorian, tuttavia, lascia aperte possibilità alternative ed epiloghi virtuosi.
L’architettura dell’intreccio è piuttosto semplice, ma l’idea di fondo che sembra muovere le azioni di tutti i personaggi è meno evidente. Le scelte operate dagli attori in scena paiono mosse da questa premessa: ciascuno cerca e brama qualcosa nella vita, anche nell’inconsapevolezza. Il tema è cruciale. Il confronto tra Dorian e Mr. Wotton descrive il luogo metafisico dove origina il fraintendimento naturale in cui sono catturati tutti gli uomini, quando vedono nelle cose del mondo ciò che cercano, che si aspettano e che desiderano.
Shakespeare, maestro di indagine psicologica, costruiva quasi tutte le sue tragedie sul fondamento di oscurità che separa uomo e uomo, provocandone lo scontro.
La parabola discendente di Dorian inizia dall’infatuazione per l’immagine aristocratica di Wotton, che lo convince a dare valore alla sola bellezza di un corpo giovane. Da quel momento, l’invidia inizia a definire l’andamento della storia. Il romanzo, palcoscenico di vita, mostra la varietà di risposte che gli uomini producono quando questo vizio si insinua in loro. Alcuni – materialisti – provano a comprare ciò che ad essi difetta; altri – vendicativi – placano il loro vuoto perseguendo (pervicacemente) la punizione di quelli che possiedono ciò che loro non hanno, il che può risolversi indifferentemente nella sottrazione di quel dono o in rovinose sfortune a danno dei malcapitati; altri – masochisti – cullano quell’assenza affogandola in una inconcludente autocommiserazione; altri ancora – altruisti – provano a farsi pervenire spontaneamente ciò che riempirà quella carenza compiendo buone azioni, sicuri che seminare il bene ha quasi sempre come esito di raccoglierlo, poi, in un successivo momento imprecisato.
Tutti gli altri – che diremmo essere mentalmente più concreti ed equilibrati – programmano le azioni da compiere per il riscatto personale, pronti a farsi strada nell’arena della vita; ma tra quelli, si badi bene, non è dato sapere quali si fermerebbero davanti ad una cattiva azione e quali invece, pur di trarne personale profitto, sarebbero disposti anche a danneggiare altri. Una cosa è certa: come gli uomini reagiscono all’invidia che li percorre dipende dal rapporto che hanno con il vizio, cioè da come percepiscono il nesso tra la loro frustrazione e il riottenimento di un equilibrio pacificatore.
L’intuizione di Shakespeare sull’irrimediabile buio che separa gli uomini non attiene dunque soltanto alla diversa percezione che essi hanno del mondo, ma anche all’infinita varietà di risposte che essi si inventano in risposta a quelle percezioni. Qui Wilde prende un piccolo frammento di quelle (infinite) percezioni e risposte e costruisce la sua personale visione della tragedia. Ci mostra tre tipologie di uomini che reagiscono all’invidia: il malvagio e spregiudicato, il buono e altruista, lo sciocco e fragile. A poco rileva che i primi due possano anche essere visti come il lato cattivo e quello buono di Dorian Gray; la scena li vede agire come personaggi distinti, che si fanno veicolo di distinte visioni della vita.
Wotton – il malvagio – si vendica della sua invidia per la bellezza di Dorian consigliandolo male e inducendolo alla rovina. Considerato che la sua vita, come quella di ogni altro mortale, è destinata al declino, prima o poi, a dispetto del suo portamento aristocratico, egli pare destinato a diventare una maschera di grottesche manifestazioni garascofobiche.
Basil – il buono – ingelosito dal rapporto tra Wotton e Dorian, cerca un riequilibrio provando a dissuadere il secondo, quindi riportando le attenzioni su di sé. Finirà assassinato, il pover’uomo.
Dorian, geloso della bellezza statica ed eterna del suo ritratto, permuta l’anima con la giovinezza per sé. Finirà suicida. L’invidia riguarda tutti i personaggi e si risolve in una tragedia, anche quando non prevede la morte. Il romanzo, mostrando gli alterni destini dell’umanità, tra assassini e vite lacerate da dubbi e gelosie, interroga costantemente il lettore sul rapporto con il tempo.
Nella consapevolezza di confrontarci con una finzione letteraria impossibile, difficilmente si può negare di essere percorsi, durante la lettura, da un retropensiero, alimentato dall’immedesimazione, e di esserci chiesti: nei suoi panni, cosa avrei fatto? Dobbiamo crederla possibile, quella scelta, per avere autentiche risposte su chi siamo e su quanto fragile (o forte) sia la nostra sostanza. Chi affermerebbe, in quella scelta davvero possibile, di essere indifferente allo scorrere del tempo? Chi non vorrebbe lasciare un segno del suo effimero passaggio sulla terra o, perlomeno, avere più tempo per lasciare quel segno? La reazione alla fugacità dell’esistenza è più o meno la stessa per tutti: pare che venga sottratto qualcosa che si lascia andare a fatica. Quale risposta cercheremmo dunque al nostro recondito desiderio di vivere in eterno, se sapessimo che esiste un’opzione di scelta? Quale scelta faremmo se sapessimo che optare per l’eterna giovinezza ci porterebbe alla distruzione?
Vorremmo tutti dire che il buon senso ci porterebbe a declinare l’offerta, ma probabilmente andrebbe a finire come vanno di solito le cose del mondo. È ben noto agli studiosi che la storia magistra vitae est, ma è altrettanto noto che gli uomini dotati di potere, di fronte a importanti scelte, seppur ammoniti del probabile esito infausto di quella loro scelta, in virtù della statistica storica, affermeranno di sicuro: “stavolta andrà diversamente”.
L’impressione dell’uomo di poter controllare il proprio destino è la ragione primaria delle scelte errate e tutto fa pensare che Dorian Gray sia incorso nello stesso (banale) errore: la sopravvalutazione di sé.
Che l’eterna giovinezza sia un’illusione, già lo si sapeva e non occorreva un romanzo per rivelarlo, ma quali siano le reazioni quando si vede qualcosa che si desidera e lo si può afferrare, quello non lo si sa con certezza finché l’opportunità non riguarda personalmente ciascun individuo.
Un ultimo, importante messaggio emerge sul finale del romanzo: esiste un tempo massimo per redimersi, oltre il quale ogni tentativo è vacuo. È un ammonimento che risuona potente e rivela la sostanziale contraddizione che vive nel protagonista. Dorian Gray viene presentato come un uomo che, dopo la miracolosa inversione di destini con il ritratto, resta privo di anima. In tutte le drammatiche esperienze successive in cui si imbatte – e che provoca lui stesso – si dice che non provi rimorsi né emozioni. Ma è davvero così? Non resta più alcun sentimento all’uomo che si è venduto l’anima?
L’inquietudine lo percorre comunque, alimentata dal non riconoscere se stesso, dal non comprendere quell’assenza di emozioni. Un insistente interrogativo permane a garantire l’ombra della coscienza, che sopravvive essenzialmente nel ricordo di sé. Wilde ipotizza lo smarrimento dell’anima, ma salva la memoria di averla avuta. Il tentativo di redenzione tardiva è tuttavia senza speranza: affoga l’uomo nell’odio e nella cieca disperazione. Così, presumibilmente, va letta la distruzione del ritratto e l’autoeliminazione del protagonista. Quest’epilogo ammonisce e sollecita una profonda riflessione sul significato dell’attesa e sulla percezione del tempo, talvolta già esaurito quando ancora lo si sta contando.
Oscar Wilde ci fa fare un viaggio nei desideri più profondi e irrealizzabili, nelle conseguenze dello spingerci oltre noi stessi. Una fine tragica pare attendere chi tenta di modificare le regole della natura e del mondo; ma, dopotutto, perdere l’anima per scelta potrebbe anche voler dire, semplicemente, essere pienamente se stessi.
Qualcun’altro un giorno, tanto tempo prima, costruì il suo poema sul presupposto che nel libero arbitrio le anime scelgono se essere destinate all’inferno o al paradiso.
Riccardo Peratoner