29 Dicembre 2023

Enigma e labirinto. Sul Villa di Tagliaferri

Tema primario

L’amplesso tra Sublime e Ironia generò Enigma. Esiliato nell’androginia, Enigma era condannato a indicare, nelle forme della madre, il volto infissabile del padre. Ed Enigma generò una schiera di figli a lui fedeli – cioè odiatori e adoratori del loro stesso padre. Tra di loro: Eraclito e Baudelaire, l’autore del Qohélet e Joyce, Paracelso e Lorca, Chateaubriand e lo Pseudo-Dionigi – tutti accaniti collezionisti e infaticabili distruttori di enigmi, che infrangendosi disegnano una cupa costellazione di scaglie.

Percorrere queste rovine è entrare nel labirinto, dove coabitano la deviazione infera del groviglio e l’amata fonte sigillata del centro. Labirinto è a un tempo il luogo esterno dell’esilio e l’interiorità del cuore del disperso. È l’immane vorticare dell’universo, ma anche l’intrico di organi, nervi e arterie del corpo umano. Espressione del caos originario, il labirinto è la carne attorcigliata dell’orecchio che questo caos sa ascoltare, ma anche il disegno musicale del passo di danza. Dal labirinto non si esce: ogni cosa vi è risucchiata e vi cospira.

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Traiettorie

Traduttore e commentatore di Pound e Beckett, Aldo Tagliaferri ha raccolto in un volume (Presentimenti del mondo senza tempo. Scritti su Emilio Villa, Argo 2022) i suoi numerosi interventi intorno all’opera di Emilio Villa (1914-2003). Curato da Gian Paolo Renello, il libro tenta di gettare una luce definitiva su questa figura senza nome: impresa inevitabilmente, gloriosamente destinata al naufragio. Perché Villa – traduttore della Bibbia e di Omero, profeta e giudice spietato dell’arte contemporanea, poeta eresiarca che frantumò ogni sintassi già data – è l’incatturabile, e la selva di grafi, geroglifici e simbolari che costituiscono la sua ricerca è la vibrazione di un infissabile Giano bifronte, che pulsa tra due idee fondamentali: l’enigma e il labirinto.

Domina in Villa una bianca assenza di mistero. Le domande e i dubbi sembrano cancellati, traghettati e rifusi nella piena visibilità del tutto, che proprio per questa luminosità, come la gloria sul Sinai, accieca e stordisce – o uccide. Come nel Trauerspiel tedesco studiato da Benjamin, agli occhi di Villa non vi è alcun mistero nel mondo, proprio perché esso appare come enigma: nulla si nasconde allo sguardo, ma la totalità del visibile è indecifrabile proprio perché veduta (misurata, nominata). Ogni pensabile, fissandosi come pensato, diventa un cadavere. Se il mondo viene alla luce, è grazie al linguaggio, ma questa stessa necessità del linguaggio scherma il mondo.

Questa perdita dell’originario, immanente alla parola, non può che pungolare il poeta evocando l’origine assente delle parole stesse. Nelle Diciassette variazioni di Villa si legge:

«Il panico spoglio degli dèi dell’acqua di tutti i giorni
delle pietre del cemento dei pensieri dei pozzi dei rioni
della velocità non sai mai se dove si comincia
e se dove si finisce è ora e dove la prudenza
è come una lettera cancellata dalla lunga pioggia
fine, e la cavi di saccoccia e ti viene la follia».

Tagliaferri rilegge questo scacco nella poetica villiana (il linguaggio contrapposto al mondo) come vocazione «a ricomporre il disgiunto, per alludere nostalgicamente a una unità indifferenziata, a una lingua unica e non univoca, onnicomprensiva, inarticolata perché totale e assoluta, non contrapposta all’essere». E se il testo non vi insiste né accenna, tale esigenza è precisamente quella che nella Qabbalah luriana prende il nome di tiqqun, la ricomposizione dell’universo infranto dopo la Caduta di Adamo. È lo stesso problema che assillava Benjamin, che vedeva nella pratica della traduzione il gesto messianico capace di indicare la lingua pura – non una lingua storicamente data, ma la pura nominazione edenica che attraversa e mette a contatto tutte le molteplici lingue fra loro. La tangenza è resa inequivocabile, poco oltre, da Tagliaferri stesso: «La sua stessa [di Villa] attività di traduttore… può essere opportunamente interpretata come un contributo all’indifferenziazione delle lingue alla luce di una lingua primigenia cui risalire». Ma se ogni lingua è storica (post-edenica), in questo anelito villiano all’al di qua della poesia e della parola è visibile «la valenza di riferimento di un io lirico alle prese con la propria ferita, con la propria scommessa, con l’attesa di un attimo cairologico» (che è precisamente l’idea benjaminiana di Jeztzeit, l’istante messianico che fa saltare il continuum della storia-barbarie).

Tagliaferri insiste: se Villa intende rendere sempre più tenui i nessi metaforici e i rapporti fra le immagini, è solo per «accentuare l’inviolabilità dell’enigma». Nessuna pacificazione – l’unica musica è la dissonanza cosmica. Per questo il poeta, «affidandosi al balbettio infantile e alle voluttà della trasgressione», cerca senza sosta di trovare, nella selva delle voci, «uno spiraglio attraverso il quale le parole possano venir fuori a costruire una cupola di echi».

Emilio Villa (1914-2003) in poster

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Babele, Pentecoste, nulla

Dopo aver perimetrato la vocazione della poetica villiana, Tagliaferri la riconduce a un nucleo ben preciso: l’onnipotenza demiurgica di Joyce, di cui Pound e Beckett sono le opposte conseguenze. Con questi nomi, Villa condivide l’ostinata battaglia «contro la tendenza del linguaggio a oggettivarsi in parole che sono specchio fedele della realtà».

Insistendo sulla grandiosa struttura di Finnegans Wake, Tagliaferri offre un ritratto mirabile di quella poetica: Joyce è colui che «si impossessa della history per tradurla in story». In Joyce, il linguaggio si espande come un’esplosione infinita e spontanea, nel senso che le molteplici lingue e le loro metamorfosi storiche vengono rifuse, nella scrittura, in un’onda che finisce per comprendere in sé il magma stesso del reale, superandolo per complessità. Lo stesso Villa era affascinato «dalla potenza e dalla duttilità che il linguaggio [in Finnegans Wake] vi esibiva in una testualità nella quale infiniti rimandi sonori e semantici si intrecciano puntando ad acquisire dimensioni cosmiche». L’opera babelica di questa poesia non riproduce il caos del reale; ne è piuttosto l’effettiva sostituzione – perché gli echi suscitati nella selva delle corrispondenze timbriche e linguistiche sono potenzialmente infiniti, e generano senza posa identificazioni, sovrapposizioni e dualismi, che a loro volta si formano e disciolgono continuamente. Una materia più densa e mobile di qualsiasi ‘realtà’. Ma se l’opera di Joyce è babelica, quella di Pound è pentecostale. Nei Cantos ogni lingua, ogni scaglia storica della lingua divina rifluisce verso un gorgo – la mente del poeta – come nella Chora: ogni forma vibra con le altre secondo un’armonia che fu quella dell’inizio, la lingua della creazione. Tutti i massacri, tutte le colpe della storia, sono attratte nel ricettacolo lirico dei Cantos, e trasfigurati nella musica della genesi, nell’armonia dell’universo.

Rileggendo Presentimenti del mondo senza tempo, sembrerebbe che agli occhi di Villa e Tagliaferri (meglio: del Villa di Tagliaferri) si dia la coincidenza di Babele (Joyce) e Pentecoste (Pound), che è poi la coincidenza di labirinto ed enigma – dove ancora la parola è sostanziale, creazione o restauro.

Non così in Beckett, che con orrore, in una lettera del ’37, definì l’opera del ‘padre’ Joyce «una apoteosi della parola». Dopo il compimento poetico e cosmico di Joyce, occorreva, per Beckett, cominciare – ed è interessante quanto suggerisce Tagliaferri: «si pensi al Come è beckettiano, costruito… giocando sull’omofonia con commencer». Ma cominciare cosa? La meta, già da sempre traguardata, di Beckett è la poesia gnostica, una parola redentrice perché decreante. La vita stessa – in quanto tempo-durata, successione – è una ferita dolorante nella pace atemporale del nulla diafano. Già nei romanzi della trilogia l’universo di Beckett si presenta come l’antagonistico dualismo di materia e nulla. L’essere è la densità, l’accumulo materico e opaco, indicato dal nero che è corpo ma anche inchiostro, colpevole fissazione di una parola che voglia positivamente significare e valere («Sento accumularsi quel nero» si legge Malone muore). Il nulla è l’aprirsi infinito e diafano di un bianco vuoto, capace di riassorbire in sé e di far sparire ogni cosa esistita, riscattandola dalla colpa di essere stata. Idea che da Molloy giunge a Quello che è strano, via («Immagina ciò che era necessario, non più, a un dato momento, non più necessario, scomparso, mai stato») e a Senza («Vero rifugio finalmente senza uscita in pezzi sparsi quattro pareti cadute all’indietro nessun rumore. Facce senza tracce bianco assoluto occhio calmo finalmente nessun ricordo… Faccia verso occhio calmo quasi raggiunto tutto bianco tutto calmo nessun ricordo»).

L’equidistanza di Beckett (parola decreante, capace di dire il silenzio) da Joyce (onnipotenza del discorso, che in sé assorbe e ricrea l’intera realtà) e Pound (poetica che in sé accolga e faccia risuonare ogni dialetto della storia umana, dopo la fine di questa) permette così a Tagliaferri di disegnare un triangolo mentale, vero centro del labirinto, nel quale l’opera di Villa si agita, urta contro le pareti e scrivendo le bestemmia.

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Fuga dal poema: mistica

La vertigine del poeta lo ha condotto a riconoscere l’enigma nel labirinto, il labirinto nell’enigma. La parete fitta di geroglifici è ora saputa come inespugnabile, e solo infinitamente evocabile – ora benedicendo, ora ingiuriando. Qui il poeta si arresta: contempla la potenza illimitata della lingua, e la vocazione inconcludibile di ogni poema. A chi è concesso sgretolare il muro? Chi appiana con lo sguardo folgorante gli scogli delle grammatiche? Solo alla preda folgorata dal cacciatore divino – il mistico incapace di calcolare e definire – è donata la partecipazione alla semplice verità del mondo. Dopo la poesia, la mistica – perché la poesia possa avere ancora fiato.

In un’intervista folgorante, parlando della complementarietà di poesia e mistica, il grande Giovanni Pozzi affermava che è possibile

«considerare in certi casi Rilke vicino alla mistica, come non va ignorato che Giovanni della Croce è anche un altissimo poeta. La differenza è in questo: in un testo poetico c’è il rapporto con il mondo, quale esso sia. In un testo mistico la rappresentazione del mondo è la traccia lasciata da un Dio che si allontana. Questo è stato rappresentato molto bene da certe visionarie».

E poiché il Dio dei mistici è fornito di ogni attributo predicabile, e simultaneamente trascende ogni piano conoscibile dell’essere, egli è al tempo stesso nominabile e ineffabile, esperibile e innominato. La parola del mistico, assorbendo in sé quella del poeta, cerca – disperatamente, sapendo di tradire l’estasi in segni – di coprire le rive di questo abisso mentale.

Nel Libro delle rivelazioni di Giuliana di Norwich si legge:

«E ora vedevo come metà del volto [del crocifisso], a partire dall’orecchio, era ricoperta di sangue rappreso che formava come una crosta fino a metà del viso, ora l’altra metà diventava così mentre il sangue spariva dalla parte precedentemente ricoperta».

Subito dopo, con un fulmineo cambio di registro, Giuliana prosegue:

«Una volta la mia mente poté scendere nel profondo del mare, e là io vidi colline e verdi valli che sembravano tutte ricoperte di muschio, con alghe e ghiaia. Allora questo compresi: che se un uomo o una donna fossero sotto quelle grandi acque, e potessero godere la vista di Dio rendendosi conto che Dio è sempre con loro, sarebbero salvi nell’anima e nel corpo, e non li colpirebbe alcun male».

Due immagini complementari: lo scolorare del volto del crocifisso, attraversato da una sezione mobile di sangue rappreso, e il fondo del mare come sterminato giardino fertile, sigillato dalla protezione della presenza di Dio. È possibile illuminare l’identità profonda di queste due visioni, contenute nella seconda rivelazione, a partire da un’altra pagina di Giuliana. Nella quarta rivelazione, che si apre illuminando la flagellazione di Cristo, si legge:

«Il sangue caldo scorreva con tale abbondanza che non si riusciva a vedere né la pelle né le ferite, perché tutto era coperto di sangue. E quando giungeva al punto in cui avrebbe dovuto cadere scompariva… Allora mi venne in mente che Dio ha creato abbondanza di acque sulla terra per il nostro uso e per le nostre necessità fisiche secondo il tenero amore che egli ha per noi. Ma tuttavia egli preferisce che noi prendiamo come medicina perfetta il suo sangue beato per lavarci dai nostri peccati: questa è la bevanda che egli desidera darci più di qualsiasi altra nel creato. Perché il suo sangue è abbondantissimo, così come è preziosissimo per virtù della beata divinità. Ed è della nostra stessa natura, e per nostra beatitudine esso scorre sopra di noi per virtù del suo amore prezioso».

Il sangue che gronda dal corpo innocente di Dio, cadendo scompare, diviene trasparente come l’acqua, e come l’acqua abbonda nel mondo per l’ultimo lavacro. Perché nel tempo infigurabile del paradiso (alla fine dei tempi come nell’estasi mistica), quando Dio abolisce ogni gerarchia per farsi «tutto in tutti» (1 Cor., 15, 28), il suo Volto invade e permea ogni cosa. Lo stesso suolo e la stessa atmosfera in cui l’anima redenta si muove sono il Volto glorioso. Il sangue che lo attraversa – vino dolcissimo dell’alleanza che riscatta e purifica ogni cosa – è quella stessa acqua che abbraccia il fondale marino, fertile di muschi ed erbe. Trasparente come l’acqua, questo sangue appunto «per la nostra beatitudine scorre sopra di noi», attraversa i fedeli come una lama e li sormonta come volta celeste. (Qualcosa di simile doveva aver visto Florenskij, quando annotava che l’invisibile, tutt’altro che remoto, consiste nell’elemento stesso in cui l’uomo vive: «noi siamo come sul fondo dell’oceano, siamo sommersi nell’oceano di luce, eppure per la scarsa abitudine, per l’immaturità dell’occhio spirituale, non notiamo questo regno di luce, nemmeno ne sospettiamo la presenza»).

Per l’occhio del mistico, il mondo è una colata verticale del sangue-vino di Dio, una cascata di porpora regale. Un rosso così intenso da esplodere in trasparenza, perché attraverso di essa appaia il mondo vero – alfa e omega di ogni poesia.

Tommaso Scarponi

*In copertina: Jacopo Tintoretto, Figura sdraiata, disegno, 1562, Art Institute of Chicago

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