“La morte non esiste”. Jack London, vagabondo delle stelle
Libri
Nicolò Bindi
Si incontrarono i primi di agosto del 1906. L’ufficiale russo che aveva scelto una vita all’avventura stava risalendo l’Ussuri, verso le foreste del Sichotė-Alin’, presso spazi finora inattaccati dall’uomo. Sognava l’ignoto, gli piaceva essere infestato dai dubbi, forse credeva nel dio con la testa di tigre. La spedizione era partita a maggio, contava venti elementi, tra cui quattro cosacchi, sarebbe durata sei mesi. L’incontro accadde presso il fiume Zerkal’naya: l’esploratore Vladimir Arsen’ev si consegnò, per così dire, a Dersu Uzala, cacciatore di etnia Nanai – o meglio Henzhen, o meglio: Goldi – in cui riconobbe le stimmate di una intelligenza connaturata, ferina, e il talento di una eclatante onestà. Fu l’inizio di una straordinaria amicizia, per quanto breve – Dersu Uzala muore nel 1908, probabilmente assassinato da chi voleva impossessarsi del suo fucile – consolidata dai principi della sopravvivenza. Non era la prima spedizione di quel tipo organizzata da Arsen’ev, fu quella di maggior successo dal punto di vista etnografico e geografico, quella che gli diede fama.
Autore di articoli scientifici, di vasti reportage, Arsen’ev dedicò a Dersu Uzala il libro omonimo, il più noto, che fu pubblicato un secolo fa, nel 1923. Dal libro sono stati tratti due film: il primo, nel 1961, girato dal regista sovietico Agasi Arutjunovič Babajan; l’altro, diretto nel 1975 da Akira Kurosawa, conquistò l’Oscar come Miglior film straniero. Il film di Kurosawa è indimenticabile: Dersu Uzala si intaglia nel nostro cuore come una figura leggendaria, un Fitzcarraldo, un Mowgli, un Mistah Kurtz a contrario, un sapiente naturale, che conosce i motivi della pietà e quelli della ferocia, che crede nei patti e nei bisbigli del vento. Tradotto ovunque, Dersu Uzala di Arsen’ev è pubblicato in Italia da Mursia.
Inquieto, avido di giungle, con i baffi lunghi – che si tagliò durante la Rivoluzione in obbedienza ai soviet – Vladimir Arsen’ev aveva percorso per necessità la carriera militare: agli studi preferiva i romanzi di avventura, da bambino leggeva Jules Verne. L’incontro con Dersu Uzala coincide con l’inizio della sua vita da esploratore. Arsen’ev fece di Vladivostok, alle estreme propaggini dell’impero, la base delle sue missioni: in una ventina d’anni guidò una decina di viaggi, mappando l’Estremo Oriente Russo, solcandone i vasti fiumi. Nel 1909 navigò il Samarga, l’anno dopo era a Capo Kekurny, da lì attraversò la Kamčatka. Nel 1912 esplorava le zone del Primorsky Krai, anche con l’intento – non ufficiale – di spiare gli spostamenti dei cinesi. Conosceva a menadito le cosiddette ‘minoranze etniche’: per un periodo, nel ’17, fu eletto Commissario del popolo per gli affari con le popolazioni indigene dell’Amur. In alcune fotografie, indossa gli abiti tradizionali degli Udege, di cui conosceva abitudini e riti.
L’ultima spedizione, nel 1927, ha come luogo d’irradiazione la città di Chabarovsk: da lì Arsen’ev risale l’Amur per inoltrarsi nella foresta vergine. È un viaggio intriso di malinconia, sulle tracce di Dersu Uzala, l’amico conosciuto vent’anni prima. L’incontro con la tigre – apparizione fantomatica – pare quello con lo spettro del fedele Goldi. Da quel viaggio Arsen’ev trae un libro, Attraverso la taiga, finora inedito in Italia e di cui si traducono qui alcuni passi.
“Se il viaggio dell’autore ha avuto un qualche successo, ciò è stato possibile grazie all’aiuto fondamentale e coscienzioso del ‘popolo della foresta’, verso cui siamo tutti debitori”.
Suona quasi come un congedo. Attraverso la taiga esce nel 1930; Arsen’ev fa in tempo a firmare la prefazione: muore il 4 settembre di quell’anno. Il suo sforzo nella creazione di musei etnografici e nella difesa delle popolazioni autoctone è stato formidabile. Dicevano fosse duro, spesso aspro. Con scaltrezza, riuscì a tenersi ai margini delle lotte politiche, più feroci di quelle che accadono nella giungla siberiana.
Piuttosto, Arsen’ev lottò per la tutela delle aree naturali dell’estrema Russia. Attraverso la taiga, infine, è il requiem su un mondo che sta svanendo, esaurito dall’idolatria industriale:
“La vasta area delle foreste vergini primordiali del fiume Anjuj è abitata da molti animali: dovrebbe essere dichiarata riserva statale, come il parco di Yellowstone negli Stati Uniti… La protezione di queste aree è di urgenza primaria: queste zone vengono rapidamente colonizzate, i pesci catturati, le foreste abbattute senza pietà e bruciate. Di questo passo, perderemo tutto”.
La mannaia dell’ideologia sovietica, che non ammetteva tali integralismi, tentò di disintegrare il cadavere di Arsen’ev. I suoi studi, pionieristici, furono accusati di scarsa scientificità, di non svilupparsi nell’alveo di un’ottica marxista. A subire il vile attacco contro Arsen’ev, ormai defunto, fu la moglie, la vedova, Margarita Nikolaevna: arrestata dalla polizia segreta nel 1935, accusata di cospirare ai danni della Russia con cinesi e giapponesi, fu fucilata nell’agosto del 1938. La figlia Nataljia fu arrestata nel 1941 e costretta ai Gulag.
Naturalmente, più tardi, riabilitarono tutti, con tanto di francobolli commemorativi e pubblicazioni postume.
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Foresta vergine
21 agosto: navigazione lungo l’Anjuj. Giornata nuvolosa. Il vento ci scalfisce. Nubi di piombo solcano il cielo; ha piovuto per due volte. Tutto segnala l’avvicinarsi dell’autunno: le foglie cadranno dagli alberi, la terra congiura in fango, le bestie si rivestono di pellicce, il fiume diventerà ghiaccio.
Passato Tormasuni, la valle dell’Anjuj diventa più ampia. Dal fiume si diramano diversi affluenti. Lungo la via incontriamo degli orsi. Uno ha attraversato il fiume a nuoto per guadagnare l’altra riva. Osserviamo la distruzione dovuta a una recente esondazione del fiume: cadaveri di animali annegati, yurte distrutte, alberi sradicati. L’Anjuj è considerato con giustizia la patria del salmone: mi dicono di aver catturato un esemplare di sedici chili.
Sulla via del ritorno, vediamo una dozzina di corvi. Appollaiati sugli alberi, si chiamano l’un l’altro. Il mio compagno, Gobuli, ne trae due conclusioni: qualcosa li ha attratti qui; questo ‘qualcosa’ è nelle vicinanze. Abbiamo rallentato il ritmo della navigazione, guardandoci attentamente intorno. All’improvviso, una figura enorme, dal piumaggio marrone e rosso si alza in volo. Ho subito riconosciuto l’aquila dalla coda bianca. La testa e il collo sono più piccoli rispetto al resto del corpo: grandi zampe gialle, artigli neri, il potente becco, volto verso il basso, sono così caratteristici che non posso sbagliarmi. Di solito, l’aquila dalla coda bianca si nutre di pesci, può capitare, tuttavia, che attacchi quadrupedi come il cervo muschiato.
Il predatore vola, pesante, lungo il fiume. Lo seguo con lo sguardo. Sbarco e cammino tra i cespugli. Il cadavere di un giovane cervo. La testa e il fianco ricoperti di limo: indizio che è annegato. Il rapace lo stava sviscerando. Non appena l’aquila è volata via, i corvi gracchiano per la foresta, contro di noi: hanno paura che portiamo via l’animale morto. Nel fango, impronte di volpe e di lupo di montagna.
*
Il giorno dopo abbiamo lasciato le barche, inoltrandoci per le montagne.
In questi luoghi, tra l’Anjuj e Nemptu, in uno spazio di circa duecento chilometri, si sviluppano enormi foreste primordiali, mai toccate da mano umana, aliene agli incendi. Gli alti tronchi del sughero, dalla corteccia grigia, di velluto al tatto, gareggiano in bellezza con i possenti cedri. Ora massicci e scuri, ora snelli e leggeri, spessi o sottili, pari a un intero colonnato, i tronchi coprono questo spazio che non ha confini. Alcuni alberi hanno centinaia di anni. Alcuni giganti della foresta, dopo aver sopportato il peso di secoli, cadono, si polverizzano. Durante il giorno, fasce di luce trafiggono a fatica la coltre chiomata; di notte si intuiscono, tremanti, le stelle. L’aria, immobile, è satura di odori; riconosco il sentore del cedro, del tiglio, del pioppo.
La foresta è piena di suoni misteriosi: un mare verde che ondeggia intorno a noi.
*
La foresta vergine è abitata da molti animali: tigri, linci, orsi, lupi, volpi, martore, furetti, zibellini, ghiottoni, tassi, lontre, cervi, capre selvatiche. Le loro tracce si scoprono ovunque. Spesso spaventiamo branchi di cinghiali. I maiali selvaggi corrono rumorosamente, irritati dal nostro passaggio.
Dopo le piogge, si è stabilizzato il sole.
Il 23 agosto la giornata è soleggiata e calda. Nuvole soffici nascono nello sconfinato blu, si muovono verso est, si consumano, rapidamente.
Il giorno è soffocante. Di tanto in tanto ci riposiamo, levandoci lo zaino. Il sole scollina mezzogiorno. Rose dall’afa, le creature della foresta vivono in uno stato di torpore, di sonnolenza. Solo gli insetti sono frenetici: si arrampicano in bocca, entrano nelle orecchie, accecano gli occhi. Ci siamo seduti in silenzio, asciugandoci le facce con gli stracci. All’improvviso, un rumore di rami secchi. Silenzio. Prendo la pistola. L’enorme tigre ci sfida, ci spaventa, si spaventa. Si precipita di lato, salta nella foresta. La bestia striata fugge, sfiora un albero cavo, che crolla. Strani presagi, antichi ricordi. La tigre è uscita accidentalmente; la circostanza ci obbliga a stare in guardia, a non fidarci dell’infido silenzio della foresta.
Due giorni dopo, risultò che avevamo percorso soltanto un settimo della strada prevista e consumato un terzo del cibo. Le piogge ci avrebbero rallentato per un giorno o due. Queste considerazioni mi portarono a riprendere il fiume, verso Ovest. Presso la foce, abbiamo trovato un piccolo villaggio di Goldi. Gli abitanti si impegnano nella caccia e nella pesca; ci siamo riposati insieme a loro. Nel corso inferiore l’Anjuj si divide in diversi canali, ruscelli, fiumi; dopo ogni inondazione la struttura idrografica muta, e questo ci costringe a muoverci con cautela.
Un altro villaggio Goldi. Vivono in yurte coniche, costruite con corteccia di betulla. Sono scampati a un’esondazione. Ci chiamano. Uomini, donne e bambini si radunano intorno al nostro bivacco. Alcuni li ho conosciuti anni fa, erano ragazzini. Ora si sono trasformati in uomini, sposati, spesso con figli.
I Goldi ci hanno rifornito di verdure. Dopo averli pagati proseguiamo la navigazione. Varchiamo il lago Udyl’, la cui figura sembra, vagamente, quella di una clessidra. La sponda destra è costituita da bassi rilievi sabbiosi, solcati da anfratti di palude. La costa opposta è bassa. Ci teniamo sulla sponda destra, al tramonto raggiungiamo un attracco. Il posto per il bivacco è scelto male. Manca legna secca da ardere, tremiamo. Tracce di antichi falò testimoniano la presenza umana.
Gobuli mi sveglia che è ancora buio: mi dice che il vento raggiunge la sua forza massima a mezzogiorno, quando navigare è quasi impossibile. In un quarto d’ora siamo tutti pronti a remare. Il lago è calmo, levigato, riflette il cielo, un rogo stellare. Le sagome scure degli alberi scorrono di fianco a noi. Una luce guizza. Nella barca qualcuno ha acceso un fiammifero.
L’alba appare a Est. Una brezza solca la superficie delle acque, la costa come ammutolita da striature di nebbia. L’alba divampa ogni minuto più forte, come un bagliore, poi come un fuoco. Le nuvole perlacee diventano arancioni. Flotte di uccelli si alzano dalle paludi. La notte sta morendo, la nebbia si scioglie. I raggi rimbalzano sul lago, poi lo perforano. Un pesce salta dall’acqua, sbatte contro la barca. Poi un secondo, un terzo, un quarto. Uno entra nella barca. Salta, apre la bocca, batte la coda. È una carpa asiatica, la chiamano ‘moxan’; dicono che sia difficile da catturare con le reti, raggiunge anche i due chili di peso, ha un corpo snello, trapunto di squame d’argento, lucenti e grosse. Tra i pesci, è considerato il più intelligente. In questo caso, non si è rivelato tale.
Vladimir Arsen’ev