L’altro giorno casco su un libro. Copertina contorta dal tempo, anonima. Credo provenga dalla biblioteca di mio zio. Sta in Piemonte, ha ottant’anni, per una vita ha fatto il geometra e coltivato la passione per le cose belle. E i libri antichi, vari, pur privi di pregio per biblioamanti. Insomma, è un tomo, malridotto, delle Opere di Q. Orazio Flacco volgarizzate col testo latino a fronte e con annotazioni. La versione è dell’abate Francesco Venini, matematico con il guizzo lirico (ha composto pure alcuni Saggi della poesia lirica antica e moderna), morto nel 1820, duecento anni fa, ma chi lo conosce più… Il libro esce a Venezia, “Dai Torchj di Sebastiano Valle”, nel 1812.
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Essenzialmente, sono uno che divora linguaggi. Me ne nutro, amo la lingua che non capisco, il retroscena del rétro, l’osceno del muffito, la parola in disuso, il settenario disseppellito, il verbo smesso, smunto. Così, ad esempio, ci vuol poco a farmi felice leggendo l’Ode XIV di Orazio, Ad Postumum, tradotta dall’abate Venini:
Come fugaci ohimè! Postumo Postumo,
Di nostra vita gli anni ognor sen volano!
Né pietà, né saggezza
Posson la morte indomita,
O la rugosa ritardar vecchiezza.
Non se ogni giorno offrissi all’implacabile
Nume d’Averno un’ecatombe triplice,
Al Nume, che circonda
E Gerione e Tizio
Di Stige irremeabile coll’onda.
Tutti varcar dovremo l’onda terribile…
Invan di Marte fuggirem lo strepito…
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Del club di Mecenate, e in assoluto della giungla della lirica latina, Orazio è il poeta più ‘contemporaneo’, il più amato, ambito, imitato, insieme a Catullo. Virgilio, Lucrezio, Lucano hanno toni per noi inconcepibili; la satira di Giovenale non attira, Ovidio è troppo laborioso, il resto è vagabondaggio accademico. Orazio, “l’ape matina” che “nei miei limiti compongo un canto laborioso”, è emblema del poeta che si concentra sulla forma poetica, artigianale, non dimentica l’umile nel suo canto, guarda con disincanto alla vita che scorre. “È vecchia consuetudine raffigurarlo di breve statura, pingue, arguto, amante dei comuni piaceri. Così fu: ma fu anche irrequieto e malato. E patì di occhi, di stomaco, di insonnie, di smanie nervose: e il suo corpo invecchiò assai prima che il suo intelletto. A quarant’anni si sentiva già vecchio e dava alla vita della giovinezza un addio pacato come si conveniva a un uomo – qual’era lui – di straordinario equilibrio”, lo descrive così Concetto Marchesi. “Classico dell’anima classica in quanto saggezza ed equilibrio”, lo dice Antonio La Penna.
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Ezra Pound, tra i latini, prediligeva Sesto Properzio, a cui dedica, nel 1918, un Homage. Gli pareva più brillante e ricco di possibilità liriche. Nei Cantos lo scheletro formale gli è fornito da Dante ma uno dei modelli è Ovidio. Nel 1930, però, sul “Criterion” creato dal suo amico T.S. Eliot, Ez scrive un lungo saggio su Orazio (edito in Italia, a cura di Caterina Ricciardi, da Raffaelli, nel 2009). L’incipit è tipicamente, violentemente poundiano: “Né semplice né passionale, sensuale soltanto quando si fa gourmet di ghiottonerie e di linguaggio, aere perennius. Quinto Orazio Flacco, calvo, panciuto, di umile estrazione, un sicofante, il meno lirico dei grandi maestri della letteratura, occupa un interno volume del British Museum Catalogue, e una buona metà di cattiva poesia inglese sembra essere stata composta sotto il suo influsso”. Due cose sono interessanti. Intanto, la congiunzione tra i tratti fisici di Orazio e la sua opera: è lui, il poeta, a fare dell’autoritratto lirico una specie di poetica (che ha il gusto della scaltra umiltà: il poeta, ci dice, non è bello, non possiede la vertigine di Pindaro, né la sensualità di Catullo). Poi, il fatto che la poesia inglese derivi da quella di Orazio, autentico narratore in versi. Il resto è Pound. Per spirito di contraddizione, scrive che Orazio gli pare banale (“Catullo e Ovidio aggiungono qualcosa alla poesia, qualcosa che non c’è nella poesia greca che ci è pervenuta. Al suo meglio, Orazio è talvolta più, talvolta poco meno, di un traduttore”) perché non è stato lui a tradurlo e chi lo ha tradotto lo ha frainteso (“C’è una precisa arte oraziana. Con l’eccezione di Catullo, egli fu il più abile versificatore dei poeti latini”).
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Tradotto da John Dryden, Orazio appare tra le maglie dei versi di William Wordsworth e di John Keats, è il mito – per nitore lirico e capacità di alternare i toni senza brutalizzarli – di Wystan H. Auden, è imitato da Robert Frost. Per Iosif Brodskij – in Dolore e ragione va letta la bella Lettera a Orazio – è proprio Orazio, spesso ‘imitato’, il punto di giunzione tra il mondo classico e il contemporaneo, ha l’umanità appropriata (complessità, ironia) per definire il caos in formule liriche, come una delle sue rare apparizioni, quasi un avatar, Osip Mandel’stam.
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In Italia vedo Orazio nella cinica fermezza di Montale, Alessandro Fo lo ha ritracciato in Andrea Zanzotto, ma è Fernando Bandini che lo ha tradotto (per Marsilio). Guido Ceronetti era sintonizzato su altri linguaggi – Giovenale, il deserto biblico – eppure ha dato una bella lettura delle Odi di Orazio (Adelphi, 2018). Ad esempio, ci ha insegnato che l’algido, equilibrato Orazio, in verità, è poeta in fiamme. “Perché invece del gelo, si scopre in questo stile del fuoco? Perché la contrazione della vita, mediante l’impegno della parola, richiede un enorme sforzo, una sovrumana energia, uno spreco di pazienza, tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria”. E poi c’è questo aspetto: “La chiarità di mente, mentre la confusione nelle povere teste umane, diventate troppo numerose per resistere al contagio della propria rabbia, delle proprie emanazioni d’impurità, va dappertutto rompendo qualsiasi limite, è un’acqua di cui non si vanteranno mai abbastanza le virtù curative”. Non poco.
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Come sarà il domani? Quest’ansia fuggila.
Quanti giorni prescritti
T’abbia la Sorte, vivili
Come un raro guadagno, ragazzo mio
Così Ceronetti traduce un brandello della nona ode di Orazio, libro primo. Così la traduce Mario Ramous (che fu pure poeta, dimenticato, non da poco):
Smettila di chiederti cosa sarà domani,
e qualunque giorno la fortuna ti conceda
segnalo tra gli utili…
Questo è l’abate Venini:
Non esser del domani invan sollecito,
Ma ricevi qual nuovo benefizio
Ogni dì, che la sorte
T’accorda favorevole
Tardando il passo celere di morte.
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L’inno, infine, è a vivere fino in fondo, finché il corpo non vada in corruzione. L’editore d’allora, Sebastiano Valle, inaugura Orazio con un paio di pagine Agli amatori della poesia. La frase che chiude la lettera è formidabile. “Vivete felici”. (d.b.)
*In copertina: Frederic Leighton, “Flaming June”, 1895