Mighty Bear, progetto solista di Magnús Bjarni Gröndal, musicista islandese e già frontman del gruppo post-rock We Made God. Tra contaminazioni elettroniche e post-indie derivanti dalla diretta influenza di Björk, questa one-man band dà forma sonora a un immaginario multiforme, a cavallo tra oscurità ed eterei paesaggi sonori. Il tutto filtrato da un’estetica sfarzosa, tipicamente drag queen, che trasporta sul palco un live set curato nel dettaglio anche per quanto riguarda l’aspetto visuale.
Non siamo a Berlino, o a New York, o a Londra, bensì a Rimini, esattamente nell’Officina Betti Art Gallery dove, il 6 ottobre scorso, Bar Lento ha organizzato, assieme a pride off Rimini, un evento super megaqueer. “Finalmente – attacca Rosangela Betti, maitresse black and white dell’arte, dandy estremo e tanto altro – l’Officina è stata aperta cinque anni fa e dopo essere stata usufruita da amici e da amici degli amici per eventi solo miei (vedi www.rosangelabetti.it) ora inizia a essere quel luogo che avevo desiderato: uno spazio ad ampio respiro, in cui creare qualcosa di qualsiasi espressione artistica. Un ‘posto’ di incontro, di condivisione, dove le generazioni si mescolano. Il 6 ottobre sembrava di essere in una capitale del mondo, con i ragazzi e le ragazze della festa assieme ai miei amici d’epoca. I giovani, molto giovani a dire il vero. Musicisti di Fabriano belli e bravi ma avevano un look inadeguato, senza personalità, quindi faccio una proposta: creo un look a quelli che mi piacciono prima di farli suonare. Li prendo e li vesto in maniera bieca”.
Giovanissimi ma non solo. “Oltre al transgender islandese, molto scenografico, e ai dj che hanno suonato buona musica, c’erano anche alcuni miei amici storici, come Claudio Tempesta, stilista dj che conosco dagli anni Ottanta ai tempi dell’Aleph. Invitato da una mia ex modella d’epoca, ci siamo ritrovati”.
Si prosegue. “Ovvio. Ci saranno altre serate, voglio proposte sia private che musicali perché l’Officina è uno spazio eterogeneo e funzionale. Anni Settanta e Ottanta: i primi sono stati i più belli della mia vita, con Barry White, i secondi anche, con ‘Self control’. Non come oggi che i giovani si ubriacano e sono sempre connessi con il loro malessere interiore. Non ci si parla più non ci si capisce più. Solo la musica e l’arte in generale ci può unire. Ci sarà il bar e il ristoro per viandanti e restanti. Poi farò mostre e workshop e feste a tema, ma ogni tanto, perché mi annoio quando vedo che fanno eventi tutti sempre uguali”.
Mostre. “Sto organizzando la mia ultima personale, poi stop. Si intitolerà ‘Lisboa antigua – San Sebastian femmina’, 160 foto in formato cartolina. Tutte scattate dal mio terrazzino nel mio lungo soggiorno lisbonese. Piccola piazzetta. ‘Largo dos Triguieras’ in una parete, nell’altra la mia ultima musa, Ana – San Sebastian. Poi la proporrò a Lisbona, New York, Londra, Mosca, Roma e Milano, Mosca, Atene, Pechino. In tout le monde”.
“Sono tra le 150 donne fotografe più importanti di tutto il mondo. Non lo dico io ma ‘Donne & Fotografia’, la mostra promossa in collaborazione con il Comune di Udine e il Museo KenDamy di Brescia, Alinari di Firenze e la Scuola di Fotografia nella Natura di Roma, e dedicata alle donne protagoniste della fotografia nel XX° Secolo. Assieme a Tina Modotti, Dorothea Lange, Diane Arbus, Sarah Moon e Annie Leibovitz ci sono anch’io. Oggi tutti fanno foto di reportage, o case, palazzi, terremoti e robe varie che no piec! Per me non è arte. L’arte è quella di Edward Weston, di Tina Modotti, di Helmut Newton, di Robert Mapplethorpe”.
Sul tavolino di casa sua fa capolino un libro, scritto da Aldo Cazzullo. Copertina rossa, forse arancione. “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione” (Mondadori, 2018). Tra le storie raccolte, anche quella di Elio. Betti, il papà di Rosangela. “Per fortuna che ho preso da lui. Puttaniere era e me uguale. Però geniali” dice prima di prendere il mano il volume, cercare la pagina e poi farmi leggere il pezzo.
Elio Betti nacque a Mercatale il 4 febbraio del 1918 da Primo, impegnato come soldato al fronte austro-ungarico nella guerra 1915-1918, dove morì il 7 ottobre 1918 di febbre spagnola, e da Maria Bedetti. Rimane orfano insieme alla sorella Giannina, più grande di lui di 2 anni, che diventerà maestra. All’età di 12 anni Elio frequenterà gratuitamente per pochi anni l’Istituto Tecnico professionale per orfani di guerra a Cividale del Friuli: quei pochi anni serviranno ad appassionarlo all’elettromeccanica e radiotecnica. Ma uno spirito libero come lui, non poteva sopportare di stare in un collegio a studiare e così, tornato a Mercatale, ancora adolescente, costruisce nei primi anni Trenta la prima radio alimentata a batteria, montata sulla sua bicicletta, con cui fa il giro del paese. La sua inventiva non si ferma: riesce a costruire con materiale di recupero una piccola trebbiatrice suscitando lo stupore dei coetanei. Poco più che ventenne sposa Luisa Manenti e si stabilisce in via Nuova, aprendo sotto casa un’officina elettromeccanica in cui costruisce, riavvolgendo indotti di dinamo delle auto, piccoli alternatori generatori di energia elettrica per abitazioni prive di luce elettrica. Nel periodo post-bellico costruisce una piccola centrale utilizzando il motore che azionava il mulino Rattini in un alternatore in grado di fornire energia elettrica ai paesi di Mercatale, Sassocorvaro e Macerata Feltria: uniche località dell’entroterra pesarese ad avere elettricità dopo la distruzione di tutte le linee e della centrale in seguito ai bombardamenti. (…) Il suo estro creativo non si ferma ai fornelli e progetta l’idea rivoluzionaria del ribaltabile applicato al camion, il primo in Italia. (…).
“Aldo Cazzullo mi ha contattato chiedendomi di raccontare una storia di famiglia. Gli ho proposto la storia della mia bisnonna, la nonna di mio babbo Elio. La poveretta tutti i giorni a piedi dal paese a Cacorsuc, dove aveva un suo piccolo appezzamento di terra. Era su di una piccola collina e lì aveva fatto l’orto e andava a zappare la terra aspettando che crescesse qualcosa. Niente. Si cibava di ghiande. Un giorno infuriata ha preso un crocefisso, lo ha legato a una corda e poi su e giù per l’orto, che era pure in salita e discesa. Lo ha trascinato imprecando. Alla fine Cazzullo ha scelto quella di mio padre. Ricordo ancora le parole di mio babbo, quelle che diceva a mia madre: ‘Fino a quando avrò queste mani non patirete mai la fame’. Non si è sbagliato”.
Alessandro Carli