Il titolo, come si sa, è diverso. Ne scorgo una parte qui – perché dal cielo non ci si ripara, l’altezza dilania. “Il cielo limpido e arroventato ogni mattina, quando dal suo giaciglio lei guardava fuori dalla finestra, ripetuto in modo identico giorno dopo giorno, era parte di un apparato che funzionava senza alcun rapporto con lei, di una forza che aveva continuato ad andare avanti, distanziandola sempre più. Una giornata nuvolosa, lo sentiva, le avrebbe permesso di rimettersi al passo con il tempo. Ma là fuori, quando lei guardava, c’era sempre quella vasta e immacolata trasparenza, immutabile e spietata al di sopra della città”.
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La trasparenza è uno degli attributi della verità: ed essa è spietata, immutabile.
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Penso che The Sheltering Sky – che per tutti, dopo Bertolucci, è Il tè nel deserto e la musica ipnotica di Ryuichi Sakamoto, il viso viziosamente malato di John Malkovich e quello, da baccante del nulla, di Debra Winger – sia l’appendice di Cuore di tenebra. Entrambi i libri sono ambientati in Africa: quello di Conrad è una esplorazione nelle viscere segrete, nelle inconfessate pulsioni dell’uomo nell’Africa ‘nera’, oscura, nel Congo belga; Paul Bowles, invece, investiga l’enigma della relazione, lo scompiglio e la mania, l’insoddisfazione e la crudeltà, l’impossibile di fare di due un monile unico, in braccia, unghie, occhi. Il contesto, in questo caso, è il Marocco, l’Africa islamica: nelle tortuosità e nei tunnel del villaggio nordafricano, folgorato dal sole selvaggio, si rispecchia il labirinto dell’amore, l’etica del Minotauro, la necessità della perdizione.
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Kurtz, qui, è la coppia, cannibale, è l’amore, famelico; l’orrore il gorgo di solitudine che provi appena ti ulceri penetrando l’altrui carne.
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L’Africa, va da sé, non è l’Africa – Conrad e Bowles non sono dei paesaggisti. L’Africa mette a nudo, con la necessità di un virus, l’Occidente, ingabbiato dalle norme, preda di un sovrano desiderio di morte che lo porta a portare la morte ovunque.
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Joseph Conrad inaugura l’etica della decadenza – Paul Bowles è lo scrittore caduto, che descrive la caduta, l’ammissione dello sfascio. D’altronde, l’uomo è polvere, l’amore è sabbia, la Storia una conseguenza del vento, dune che s’infiammano sulla nostra sete – e a cui ciascuno assegna l’alfabeto preferito. Il deserto è la metafora perfetta, il luogo esatto dove naufraga l’ambizione occidentale. Nel deserto il ‘bianco’ boccheggia, muore – o è preda di brame sessuali; si orienta chi conosce i miti che si sdipanano sopra di lui, in forma di costellazioni, chi conosce la ferocia dell’obbedienza. L’Occidente obbedisce ai propri desideri – che per proprietà generica schiavizzano, ci smarriscono.
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L’anno prossimo cadono due anniversari: i 20 anni dalla morte di Paul Bowles e i 70 dalla pubblicazione de Il tè nel deserto. Di Bowles, di solito, si sa che era ricco e sensibile, che indossava belle giacche e che spesso è fotografato mentre maneggia una sigaretta, che aveva una bella moglie, Jane, a cui è dedicato il suo capolavoro. Si sa, anche, che Bowles, schifato dalla ‘newyorchesità’, si ritira dal 1947 a Tangeri, attratto dall’esotico – cioè: non tanto dalla voglia di studiare la cultura di laggiù, ma di percepire l’assoluta differenza, la distanza, anche linguistica, tra sé e il resto dell’uomo. Di Bowles si sa che a Tangeri costruì una casa che divenne un bordello: ospitò Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal; divenne il guru dei beat, Allen Ginsberg, Gregory Corso, William S. Burroughs. Di Bowles, forse, non si ricordano le lunghe gite in Sri Lanka e soprattutto l’attività di compositore musicale, assai vasta. Discepolo di Aaron Copland, Bowles musica pezzi e lavori di George Balanchine, Elia Kazan, Orson Welles, Salvador Dalí.
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In effetti, attraverso Paul Bowles si legge una bella fetta di Novecento. A Parigi frequentava Gertrude Stein e Tristan Tzara, fu amico di Christopher Isherwood e apprezzato da Somerset Maugham, ha tradotto Sartre per uno spettacolo di John Huston, e fu omaggiato come un maestro da Paul Theroux. Nel fatidico film di Bertolucci è quell’anziano, di stupefacente eleganza, che guarda il mondo con occhi vitrei, indifesi, certi.
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“Si svegliò, aprì gli occhi. La stanza gli diceva poco o niente, profondamente immerso com’era nel non-essere da cui era appena affiorato. Se l’energia di accertare la propria collocazione nel tempo e nello spazio gli mancava, gliene mancava anche il desiderio. Sapeva soltanto di esistere, d’avere attraversato vaste regioni per ritornare dal nulla; c’era, al centro della sua coscienza, la certezza di una tristezza infinita e al tempo stesso rassicurante”. Così comincia la nenia disperata – la trafelata scoperta che Eden è una casa delle torture – de Il tè nel deserto.
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Non c’è altro, nel cielo vuoto di dèi, che l’amore carnale – ma anche lì, nella carne, una grammatica ossificata, offuscata, è incomprensione, l’impotenza delle coincidenze. Paul Bowles, con il passo aristocratico di chi voluttuosamente ama la melma psichica, ha detto questo, quello che non vorremmo ci fosse detto. Non è poco. (d.b.)
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Paul Bowles Remix. Proponiamo una scelta di frasi rilasciate da Paul Bowles in diverse interviste. Ricordando, ad esempio, che la sua opera poetica, raccolta in “Next to Nothing” e in “No Eye Looked Out from Any Crevice” è ancora inedita in Italia.
Scrittura allucinogena. “Ho masticato hashish per scrivere la scena della morte de Il tè nel deserto. Non mi sentivo all’altezza, avevo bisogno di rilassarmi. Ad ogni modo, non ho mai usato Lsd. Il problema sono le dosi corrette: ho visto fare cose assurde a troppi amici sotto acido. Dopo, non erano più gli stessi”.
Esilio per scelta. “Non trovavo gli Stati Uniti particolarmente interessanti, così ho cercato un posto migliore dove vivere. Mi pare ovvio, non trovi?”.
Denaro per necessità. “Gli Stati Uniti sono noiosi. Ma ci sono tornato spesso. Avevo bisogno di soldi. Non sono mai stato negli Usa per piacere ma solo con la garanzia di fare soldi”.
Il mondo invecchia peggiorando. “Le cose procedono, diventano altro da ciò che erano e che sono. Le cose vanno avanti e il futuro, per necessità, è infinitamente ‘peggiore’ del presente”.
L’apocalittico. “Pessimista? Guarda dentro di te, cercati. Non bisogna essere pessimisti per vedere la possibilità concreta di un olocausto nucleare, in grado di carbonizzare qualche miliardo di umani. Non spero in questo, è ovvio – ma la sola possibilità che accada è disperante”.
Ipotesi sul meraviglioso. “Certo, si può sperare. Spero, ad esempio, che accadano cose meravigliose in futuro – ma chi ha la mia età, semplicemente, non penserà che siano tali”.
Il romanzo melodico. “Il tè nel deserto è costruito in tre ‘movimenti’, ma sarebbe sbagliato considerarlo una sinfonia, o una sonata. Diciamo che è una melodia”.
I musulmani? Barbari. “Non ho idee politiche, ma sono certo che non riusciremo a conoscere davvero i Musulmani, e penso che se li conoscessimo davvero li troveremmo meno simpatici di come ce li propinano gli antropologi. Lo stesso vale per loro: apprezzano la nostra tecnica, ma non penso sia compatibile con la loro civiltà. La loro cultura è essenzialmente barbara, la loro mentalità è totalmente predatoria. Mi sembra che le loro aspirazioni politiche, pur comprensibili, siano assurde e che la loro realizzazione avrebbe effetti disastrosi sul resto del mondo”.
Decadenti saranno loro. “I critici dicono che sono uno scrittore ‘decadente’, certi, forse, che gli Stati Uniti abbiano il più alto standard morale al mondo e che i suoi abitanti siano necessariamente più ‘sani’ degli altri”.
Le mille sfaccettature dell’infelicità. “Mi chiedi cosa sia la decadenza. Io dovrei dire che nella letteratura non c’è nulla che sia decadente quanto l’incompetenza e il mercato. Se esalto le mille sfaccettature dell’infelicità è perché credo che dovremmo studiare con molta attenzione l’infelicità. Questo non è il momento di essere stupidamente felici, mettendo in ombra l’oscuro. Chi non è infelice, oggi, è un mostro, un santo, un idiota. Bisogna guardare l’universo mentre ti si sgretola sulla testa”.