“Credo nei miracoli dell’arte”. Vita & versi di Jane Kenyon, l’Achmatova d’America
Poesia
Fabrizia Sabbatini
Ho letto History (Mondadori, 2017). L’ho letto avidamente, l’inverno scorso nel mezzo della scrittura del mio Libro VI di Nemesis (“Eternity”). Non lo faccio mai, non leggo mai niente mentre scrivo, in genere è una cosa che mi distoglie dalla dimensione in cui sono immersa. Per History non è stato così, ci stava già dentro, a irradiarmi, ed è stato come ricevere una propulsione potente di flusso scrittorio, uno spalancamento di porta percettiva, ricettiva, tracimante. La scrittura di Giuseppe Genna è metafisica nella sua gigantesca concretezza, monologo coscienziale che si fa testo, un terzo occhio spalancato sul mostruoso incanto dell’estraneo al Sé che diviene Sé, un piano sequenza di Inarritu, ossessivo sulle acrobazie in soggettiva senza trucchi di post-produzione, il surreale è nell’intima constatazione orrifica di un avvento pervasivo, quello della macchina tecnologicamente singolare, intelligente, concepita dall’umano tendente all’immortale, che con l’umano si fonde, in un’emulazione dello spirito, del linguaggio, dello stile, nell’impossibile sostituzione che si fa simbiosi cognitiva. E allora il testo si espande come contraerea, voce abissale della disperanza storica aggrappata nella eco onnipresente della scena lugubre di una generazione già estinta, tra gli interstizi di una stanza mortifera animata di ombre consanguinee tra le quali il moribondo appare il più vivo tra i viventi, il più sacro della Storia, quella Storia italica già disossata da Genna nei suoi precedenti letterari, un tributo della rimembranza per accogliere il tempo nuovo, il suo antefatto, così come più viva tra i già estinti è History, la bambina autistica, la bambina freak, erede cognitivamente abortita dell’alta finanza, esemplare singolare sotto osservazione, non solo autistica ma animalesca nella sua inconcepibile esistenza dissociata, nel suo incubo visionario e lucido accompagnato da una Trista Figura in una separazione-appartenenza agli ultimi bagliori della specie. È la macchina intelligente ad osservarne la corporalità interiorizzata, per coglierne l’essenza incorporea. L’algoritmo euristico che tutto minuziosamente, autonomamente, rileva, elabora, restituisce, apprende, emula. Il suo medium è lo scrittore e la sua deriva esistenziale, esistenzialmente attonito, ancor poetico, ancor umana risorsa, in quel luogo-simbolo che fu la Mondadori, ora divenuto polo tecnologico nel tempo dell’accelerazione, al centro della mutazione. Il medium non più medium ma simbiosi. Il medium è il testo-incarnazione, il testo-resistenza di Genna contro la colonizzazione bio-cognitiva dell’algoritmo, un intimo aggrappamento corporale nell’imminente scomparsa, è la contraerea massiccia dell’angelico testo. Perché c’è dell’angelico junghiano, in quest’imminenza già incorporata nell’accelerazione di un tempo zero, in cui l’evocazione della sincronicità metafisica è l’unica salvezza. Mastodontico Genna, in questa rappresentazione di un tempo non più solo “devastato e vile” ma dilaniato interiormente nel collassamento presente, opera che oserei definire cinematograficamente “inarritiana”, visionariamente “delilliana”, letterariamente genniana, più presente del presente indicibile, inosservabile, non narrabile e dunque implosione irriverente, innescata a sfida al suo stesso essere epocale.
Allora chiedo a Giuseppe Genna, studioso della Coscienza, cos’è la salvezza, se c’è, in questo tempo. Un atto di resistenza estrema del testo? Da ritrovare nella Storia, nella memoria, o nell’avaguardia? Oppure nel ritorno allo studio della coscienza, alla pratica della formazione esistenziale?
Per quanto mi è dato ipotizzare, siamo alla fine della civiltà del testo e ciò comporta alcune implicazioni, che sono gravi in quanto gravide. Ogni tempo vissuto dall’umano presenta il conto di una spesa storica, che si è compiuta e che non riesce di non pagare. La storia come mercato della psiche collettiva, addirittura planetaria, è una verità relativa che si manifesta progressivamente come ladrocinio organizzato: un furto commesso ai danni di se stessi e al contempo della generalità, non soltanto umana. Quali caratteristiche uniche, non dico irripetibili, ma certamente prive di paragonabilità addietro, presenta questo tempo che stiamo vivendo? La prima evidenza è l’imminenza e l’accelerazione a toccare materialmente e immaterialmente il bioma psichico umano. Sta parlando un linguaggio privo di sintassi e di verbalità la sempre più intensificata messa in outsourcing delle nostre competenze, già a questo punto, che è comunque iniziale nella vicenda dell’accelerazione, nonostante ci siano voluti millenni per arrivare all’attuale scatenamento dell’indipendenza propria di ciò che da sempre era strumentale. È già creato un microclima che non soltanto geograficamente possiamo dire occidentale: il politico è già mutato, andando ad adattarsi, con una preparazione inquietante e disordinata, all’ingresso dell’inorganico in noi, con tutte le conseguenze che scaturiranno da questa mescita, che secondo una prospettiva unilaterale sembrerebbe un faustismo da incubo – l’economia andrà a trasformare il proprio sistema valoriale, almeno tanto quanto l’idea e la pratica del lavoro, la cura sarà rivoluzionata, il gioco verrà stravolto, e sarà messo a dura prova e ad alterazione il fare poetico e cioè creativo in genere. Al momento noi siamo collocati su questa curva parabolica, sottoposti a velocità centrifuga e centripeta. Però tutto ciò è la storia che si sta facendo. Essa insiste sul momento psichico delle persone che sono schiacciate dal tentativo di colonizzazione radicale da parte dello strumento, il quale da esterno si sta facendo interno, divenendo noi, ovvero: ciò che siamo. Ecco l’ancoraggio che riduce la storia a un’indifferenza assoluta rispetto al centro coscienziale: non smettiamo di sentire che siamo ciò che siamo. Tento di chiarire: non è importante ciò che siamo dal punto di vista delle qualificazioni (Eva è una donna, un’artista, ha una determinata anagrafe, peculiarità e formazioni specifiche), quanto il fatto che sentiamo di essere ciò che siamo: siamo coscienti di esserlo. Una simile piega, che rende possibile un indentramento in noi stessi, alla ricerca di che cosa sia fattualmente la sensazione di esserci, credo sia una chance che l’umano, anche se mutato e mutageno, non smetterà di percorrere. Tutte le tradizioni metafisiche, in qualunque momento storico, all’orizzontalità del procedere lungo la china della storia, offrirono e offrono e ritengo che offriranno la possibilità di comprendere senza linguaggi, per sperimentazione diretta, la sensazione di essere. Nessuno di noi ha mai compiuto l’esperienza di non essere. Tendiamo a confondere la memoria con l’avvertimento continuo che siamo. Non è così. In ogni istante noi sentiamo che siamo e non è possibile che accada il contrario, perché l’essere è e il non essere semplicemente non è. Il lavoro coscienziale è una continua meditazione su questa presenza, su questo centro di sensibilità dell’esserci. È il lavoro fondamentale. Peraltro lo stanno praticando nell’esteriorità anche le moltissime menti che sono protagoniste dell’accelerazione tecnologica: c’è da chiedersi realmente cosa sia la coscienza, e non la psiche, nel momento in cui le macchine evengono nel mondo e in noi. Molta scienza contemporanea è direttamente metafisica. Io non penso che la metafisica salvi, se non dall’illusione, che è l’inimmaginabile per la nostra povera struttura egoica o collettiva. Tantomeno la metafisica dà una consolazione, a fronte di tempi che possono apparire plumbei: quei tempi, per altri, sono radiosi. È la legge della dualità. Si tratta di risolvere la dualità tutta, non di spostarsi su un fronte o sull’altro per non essere intaccati dall’indesiderato. Detto ciò: io sto malissimo e prendo con enorme affanno questa svolta che ci conduce materialmente al muro del tempo, nonostante le aperture metafisiche che cerco. Ed è un problema mio rispetto alla storia, non invece un’universalità. Devo praticare opera interiore di chiarificazione e scioglimento di un nodo fatto di nostalgia puerile, lutto dispercettivo, ansia da materia in frenetico movimento.
So che tu progetti anche un servizio di consulenza per quanto riguarda questo approccio all’esistenzialismo. Qual è la tua visione di fondo riguardo a questa necessità di approfondimento del Sé, che da quanto capisco trovi fondamentale in questo momento storico? Inoltre… condividi le teorie di Mark Fisher, e anche di Franco Berardi Bifo, sulla connessione tra capitalismo, depressione e suicidio?
Da dove proviene la depressione? Di cosa si sostanzia? C’è un groviglio di sentimenti basali, un’elementarità del senziente umano, che conducono a uno stato depressivo. Registriamola, anzitutto, questa elementarità, ovvero tentiamo di osservare le componenti di base, che fanno la segmentazione di uno stato di angoscia. Ecco, già ho spostato l’accento dalla depressione all’angoscia. Perché l’angoscia? Tra i molti motivi possibili, è centrale lo sbilanciamento rispetto a ciò che si desidera. Se si sortisse la situazione desiderata, l’angoscia andrebbe a zero. Che cosa dunque desideriamo e non ci viene dato, fino a spostarci all’idea suicidaria? Possiamo convocare tutte le ragioni interne e storiche possibili, ma di fatto è la forma desiderio che ci fa fuoriuscire dalla nostra condizione originale. Se fosse risolto il rapporto non con un oggetto particolare o una situazione specifica che vengono desiderati, bensì con l’attività che ci fa aderire identitariamente al fatto di desiderare in sé, avremmo forse compiuto un passo in avanti. Sottolineo questa possibilità per onestà nei confronti della metafisica e per mostrare come è possibile lavorare sull’inquietudine del complesso mentale. Ciò a cui vorrei arrivare è in effetti una possibilità profondamente terapeutica, ma non clinica, che non riguarda la psiche (ci sono bravissimi psichiatri o psicoterapeuti, a cui è opportuno rivolgersi per disordini psichici), bensì concerne il sentimento di presenza, ovvero l’angolatura interna che diciamo coscienza e che nessuno scienziato od operatore della psiche è ancora riuscito a spiegare nella sua del tutto eventuale genesi – poiché le metafisiche asseriscono non esserci genesi né morte del sentimento di essere presenti. Ho dedicato a questo un saggio, che si intitola “Io sono – Studi, pratiche e terapia della coscienza” (il Saggiatore), per illustrare i fondamenti metafisici dell’attività di coscienza e ipotizzare un metodo che lavori non sullo specifico clinico, ma a monte: con l’enormità e l’onnipervasività del fatto coscienziale. La risposta ai disagi personali e storici, includendo in ciò anche l’analitica di Fischer e di Bifo, potrebbe forse affrontarsi non a partire dalle condizioni appunto personali o storiche, bensì impegnandosi a incrementare la sensazione di stabilità che ci appartiene quando sentiamo di essere: ora senti di essere, in questo momento continui a sentire di essere, anche adesso senti di essere – e così all’infinito. E ciò in qualunque condizione storica. Forse, operando in questo senso, il che prescrive un’uscita dal linguaggio mentre lo si pratica più o meno tranquillamente, è il rapporto con la rabbia o con l’orgoglio o appunto con il desiderio a sciogliersi. Lavorare sulle radici implica trasformazioni impensate a ogni singolo ramo o anche al tronco.
Che riscontro hai trovato dopo la pubblicazione di “History”? Nel mondo dei lettori, nel mondo degli intellettuali, nel mondo dell’editoria, cosa ti sembra che sia stato colto, o non colto, del senso del romanzo? O del suo livello letterario? Senti che è stato recepito, che la visione del contemporaneo che esprimi insieme alla tua sperimentazione del testo, è condivisa? Esiste un dibattito su questo? Voglio dire, questo contemporaneo è in grado di autoanalizzarsi, e di accogliere, assorbire, “History”?
È una domanda che deve tenere conto di due specificità. Anzitutto, del fatto che io sono uno scrittore per nulla famoso. Quindi, della cripticità stilistica, che implica una fatica nella decodifica della lingua e delle intenzionalità antinarrative, a cui ho sottoposto l’espressione nel testo. Infine, della materia scientifica e di quella metafisica, che sono propriamente àmbiti in cui la comunità letteraria italiana, come sai in prima persona, tende a non preoccuparsi. La ricezione del testo mi è parsa sufficiente. Non è che si sia gridato al capolavoro, insomma. Le direttrici su cui sono andato, che stanno peraltro tutte nelle domande che mi stai ponendo, e lo dico con immensa gratitudine e altissima stima intellettuale, ancora sono divaricate rispetto al discorso intellettuale. La singolarità, il futuro crollato nel presente, l’autismo quintessenziale nel fenomeno umano, l’opportunità coscienziale, il vuoto, la percezione e la disabilitazione dei canoni storici di ciò che è stata l’interiorità e non soltanto il rapporto con l’attrito del mondo – sono soltanto alcuni temi su cui “History” lavora, che tuttavia non vedo affrontati nella generalità letteraria nazionale. Il discorso sulla contemporaneità è spesso condotto attraverso la buona narrazione, che si suppone fare presa sull’emotivo, sull’identificazione, sull’evasione – e ciò accade a tutt’oggi nella narrazione italiana. Posso soltanto dire che, avendo incontrato per un’intervista un grande scrittore americano un paio di anni fa, tutta questa materia mi veniva da lui dipanata, quasi che la formazione di uno scrittore non italiano avesse per necessità afferenze a discipline fondamentali e non soltanto umanistiche, ma pure quantitative. A parlare del futuro, nell’accezione à la Kurzweil e nelle implicazioni materiali e spirituali che comporta, davvero, mi sento in ristrettissima compagnia. Non a caso mi rivolgo a scienziati e intellettuali che chiedono un utilizzo di saperi trasversali. Ecco, non mi sento isolato nel confronto con intellettuali di specie non umanistica. Ritengo comunque che questa materia, per l’abuso compiuto su di essa dalla tradizione fantascientifica, oltre che per l’insondabilità e il rischio di errore previsionale, interessi assai poco gli scrittori nostrani. Ho tentato una fantascienza che non lo è: il libro, uscito nel 2017, si svolge nel 2018. Ho anche provato a comporre un’epica della fine e non del nuovo inizio – un addio sfinito e sfinente al tempo in cui ci siamo formati noi novecenteschi. Ho infine tentato di rispondere testualmente all’abbandono della testualità, in cui mi pare consista una delle cifre più sconvolgenti del tempo accelerato che stiamo vivendo e, credo, che andremo a vivere sempre di più. Non so se argomentazioni simili e stili ingaggiati con la mia lingua possano risultare penetranti per la collettività…
Nella tua scrittura mi sembra evidente la ricerca della poesia in prosa, in senso quasi estremo. Chi sono i poeti oggi? C’è spazio, c’è futuro, per la poesia tradizionalmente concepita in versi, o trovi che sia necessario che la poesia si evolva in prosa, che solo in questo modo possa rappresentare la complessità di questo tempo?
Questo punto mi sta molto a cuore. Per formazione, storica e personale, io vengo dalla poesia. L’idea di una rappresentazione del continuum tra poesia e prosa mi ha sempre affascinato e forse fin troppo intossicato. Fino ai primi anni di questo decennio, il mio tentativo era prevalentemente quello di trascinare una prosa nei territori del poematico. Non sono mai stato attratto dalla narrazione in sé, dal racconto per plot e trame, quanto dalla possibilità che il poema potesse darsi in una forma prosastica. Ho compiuto i miei tentativi, guardando a Kafka, a Walser, a Burroughs, a DeLillo – o, stando agli italiani, a Fenoglio, a Gadda, al Pasolini di “Petrolio”, a Bianciardi. Ragionavo, poco tempo fa, che nella mia vita ho sempre atteso, di anno in anno, le uscite dei poeti che amavo, da Sereni a Zanzotto, da Benedetti a De Angelis, da Fortini a Caproni. Da qualche anno non so chi attendere, fatti salvi De Angelis, Cucchi, Riccardi e pochissimi altri. È come se la poesia nazionale si fosse sfrangiata o, meglio, diffranta. È una deflagrazione di scritture e autori, di cui fatico a sentire la coerenza canonica con la storia della nostra letteratura in versi. Non è che ci sia meno poesia: ce n’è di più. In questa nebulosa poetica, fatico a trovare la poesia. La quale è l’unica verticalità letteraria, è irrinunciabile, rivelativa, immediatamente assoluta e mai assolutoria. Penso che il mondo sia descrivibile e trascendibile per via della poesia, che è un’istanza, non solo stilistica, a cui credo che sempre l’umano andrà aggrappandosi, producendo un tessuto dialogico che improvvisamente si sbreccia e fa percepire lo scintillio tenebroso che dorme attivamente oltre qualunque testo, oltre il tessuto stesso. È vero però che, nella crisi generalizzata della testualità, che ravvedo acutissima da qualche anno, è proprio la necessità, il bisogno di alimentarsi alle fonti della poesia che io sento mancare nella collettività degli scriventi, più che dei lettori. Io posso compiere il mio umile tentativo, ma non sono appunto paragonabile ai grandi che hanno erculeamente provato a trascinare la ritmica prosastica in direzione di quella lirica o tragica. Ecco, questo aggettivo è centrale per me: ogni volta che appare il tragico, questo zero metafisico che è pura ambiguità morale e testuale e emotiva e cognitiva, è perché in quel punto si dà poesia, anche se ci si trova all’interno del discorso prosastico. Dov’è oggi la rappresentazione del tragico? È una domanda che equivale a quella sulla poesia.
C’è poesia negli algoritmi? Nell’ermetismo dell’intelligenza artificiale? La mutazione antropologica, la simbiosi uomo-macchina, coscienza-intelligenza artificiale, può ancora produrre “presenza”, poesia e arte? Cosa riesci a vedere, o intravedere, del futuro?
È una domanda molto impegnativa. Se parto da ciò che posso umanamente prevedere, ovvero una porzione notevole di tempo impiegato in ciò che ora sembrerebbe virtuale e che in futuro aprirà a nuovi sensi e nuove interpretazioni del tempo interiorizzato, francamente non so se sarà la poesia linguistica a reclamare diritto di asilo nei neoambienti a cui andremo adattandoci. Il linguaggio verbale e scritto, al momento, sembra flettersi sotto il peso della propria insufficienza ad accampare pretese nel reale. Sarà probabile l’emersione di neoarti, credo: visivo-interiori, appartenenti ad altri spettri, cinematiche in senso nuovo, immaginali in una dinamica tutta da scoprire. Nel frattempo, gli algoritmi simulano il fare poetico, il che inquieta, ma di fatto non tocca la sostanza del problema. Lo scorso aprile, sull’archivio on line “arXiv”, è stata data notizia dell’algoritmo poetico elaborato dall’università di Kyoto. Nel 2017, il chatbot Microsoft, noto come Xiaoice, per imparare a comporre ha studiato tutto il corpus poetico di 519 autori, pubblicati dal 1920 a oggi, una quantità di testo che impegnerebbe un poeta umano per più di un secolo di studio assoluto. Il chatbot ha poi emesso, a partire dal canone che ha appreso, diecimila poesie in 2.760 ore. Queste sono imitazioni incrementali: è il lato algoritmico, che va a incremento di calcolo, ben oltre le possibilità umane. Tuttavia, mancando di coscienza qualunque chatbot, la poesia umana rimane tale: e poesia e umana. Il che non consola affatto, se davvero si pensa a un mondo in cui il fare muta ontologicamente di senso. Il fare poetico subirà una trasduzione. Per il momento possiamo osservare cosa succede in questo periodo in cui gli algoritmi bussano alla nostra porta, non per sostituirci, ma per fondersi con noi. Muta la lettura, si disinnesca il valore veritativo del testo. Poi bisognerà pensare a una coscienza umana, la cui psiche è aumentata nel calcolo e diviene capace di uploadare l’esperienza testuale in modo oltreumano. Continuo a pensare al risvolto metafisico: oltre al “transumanar significar per verba non si porìa” di Dante, per quanto ritengo, non si potrà mai andare.
Ti confesso che ho sempre sospettato che tu fossi uno dei Wu Ming, ma poi ci sono delle contraddizioni nel tuo pensiero critico rispetto al tenore dei loro dibattiti antagonisti, e personalmente trovo che per certi versi le tematiche che proponi siano più incisive, quindi mi resterà questo dubbio… so che tu li consideri tra coloro che salvi nel contesto letterario contemporaneo. La letteratura ha un ruolo in questo momento storico? Chi sono gli scrittori che secondo te lo stanno determinando?
C’è un equivoco iniziale, per quanto concerne la mia vicenda letteraria. Esordii in prosa con un testo firmato abusivamente Luther Blissett, che intendeva esaltare la politica dello pseudonimo collettivo, ma praticava maliziosamente un furto nei confronti di chi stava muovendo verso l’atelier comunitario, che si sarebbe poi chiamato Wu Ming. Ritengo che la band dei WM abbia avuto ragione su tutto dal punto di vista politico e comunicativo, ovvero culturale in senso lato. La produzione del collettivo bolognese è certamente un patrimonio fondamentale di questi anni letterari. Io sono molto affascinato da un lavoro specifico, firmato da Wu Ming 1, che è “New thing”, uscito presso Einaudi nel 2004, e che ho sempre considerato l’avanguardia burroughsiana a cui guardare. Ci sono moltissimi autori che hanno composto il nostro tempo attraverso le narrazioni e sarebbe ingiusto fare dei nomi a scapito di altri. Posso dire chi a me impressiona maggiormente, ovvero Giorgio Falco, Tommaso Pincio e Giorgio Vasta, le cui scritture mi sembrano sororali. Tra le scritture più recenti e che ho curato io finché sono stato all’interno del comparto editoriale, vorrei segnalare che Marco Magurno (“Diorama”, il Saggiatore) ed Enrico Sibilla (“Il libro dei bambini soli”, sempre il Saggiatore) offrono la possibilità di attraversare squarci di codice, attraverso movimenti molto radicali, capaci di ridurre a zero la lingua letteraria contemporanea. Però non penso che si possa affermare che il nostro tempo sia qualificato da pochi nomi, come forse nel passato accadeva. Le trasformazioni, quanto a ontologia ed epistemologia, dicono che il mutamento di paradigma, assai violento, è anche questo: si va a collegialità molto vasta, all’uscita della memorabilità del genio singolo, di origine tra l’altro romantica. E’ mutata la selezione del canone, poiché è trasformata la natura stessa del canonico.
Come inserisci il nostro paese, l’Italia, socialmente, politicamente, in questo scenario globale di collassamento temporale, di mutazione della specie, di ibridazione con l’intelligenza artificiale? Siamo, nel nostro provincialismo, nella nostra sudditanza, nel nostro essere sempre da sempre ibridazione profondamente italica, paradossalmente un anticorpo, un’avanguardia oppure una singolare cavia consumistica di laboratorio?
Intanto disponiamo della capacità di intervenire sull’orizzonte della prassi scientifica, come del resto è sempre capitato – basti pensare che l’Italia dà i natali a uno scienziato che si inventa la bomba atomica mentre governa Mussolini. C’è una spinta all’umanismo scientifico, che in Italia ha secondo me un elaboratore piuttosto formidabile in Roberto Cingolani, il direttore dell’IIT di Genova, la mente che ha disegnato lo Human Technopole di Milano. In questo momento l’Italia è all’avanguardia nella robotica, nella precision medicine, nelle nanotecnologie. Il tuo quesito era più vasto, ma intanto bisogna verificare davvero che l’Italia è una comunità linguistica ancora capace di dare un volto politico globale alla tecnologia, che sempre più freneticamente va modificando il paesaggio antropico e quello planetario. In un simile contesto, l’andata a cloud di qualunque canone, politico ed economico e artistico, produce una nebulare confusione sotto il sole, che è polluzione pura, composita di gas deietti dalle segmentazioni più arcaiche, identitarie, esclusiviste. Penso che stiamo attraversando una fase di fascismo metastorico e di specie rinnovata, che si concreta socialmente grazie all’indebolimento dei legami chimici tra molecole, per cui si è passati troppo repentinamente dallo stato solido al liquido all’attuale gassoso. Tale indebolimento è per me la messa al bando dell’idea di mediazione, intesa come traduzione in termini di riflessione, come secondarietà culturale, come meccanismo di rapporto col potere. L’abnorme rivoluzione che verrà, davvero, dobbiamo ancora vederla, ma non possiamo esimerci dal pensarla. L’uscita dalla finanziarizzazione verso un nuovo tipo di economia, che prevedo ciclopicamente in mano a pochissimi soggetti, è uno dei discrimini verso il nuovo tempo, per fare un esempio. In tutto ciò l’Italia è fortemente all’avanguardia, con il suo tipico doppio passo che fa del gerundio il proprio tempo verbale prediletto (“stiamo lavorando per voi”), in un meticciato impressionante di futuro e di passato trascorso e obliato, che continua a declinarsi in un futuro sfinitamente prossimo e venturo, mentre non è venturo e già è presente il tempo dell’anticipazione di quello stesso futuro: contraddittorio, privo di tassonomie, sperequato. La lingua italiana, che ha espresso un’altissima poesia per secoli, è all’avanguardia proprio nel dare voce ultima a questa oltranza oltre il rudere, che è capace di produrre rovina con uno sguardo che valica qualunque futuro. Come annotò sul rapporto tra Italia e storia Giovanni Pascoli poco più di cento anni fa, nel suo “Un poeta di lingua morta”: “Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia”.
Eva Milan