
Pangea
Redazionale
Gianni Cascone, bolognese, scrittore e regista teatrale, insegna scrittura creativa e dirige diversi gruppi di scrittura collettiva, di cui ci parlerà in questa intervista. Tra le sue opere recenti ricordiamo il romanzo “Quadrante Nord” (2004). Fondatore del laboratorio di scrittura Grafio (che si pone in contrasto al modello portato avanti dalla Scuola Holden) ha teorizzato sull’antitesi scrittura individuale/scrittura collettiva, la seconda rispondendo meglio – a suo giudizio – allo spirito del tempo, in quanto capace di “superare il concetto di autore geniale e solitario quale era stato concepito in epoca romantica e perdurato almeno per tre quarti del Novecento” e di valorizzare “l’intelligenza collettiva della Rete”, la quale “ci sta facendo vivere un nuovo Medioevo, ossia una creatività collettiva simile a quella che portò alla costruzione di grandi cattedrali”. Un discorso interessante che merita di essere approfondito. Per questo abbiamo deciso di intervistarlo.
Caro Cascone, varie le esperienze di scrittura collettiva. Oltre ai contemporanei Wu Ming, il Gruppo dei Dieci, collettivo di autori futuristi e avanguardisti (ricordiamo il romanzo “Lo zar non è morto”, riedito da Sironi nel 2005) composto da personalità come Massimo Bontempelli e Filippo Tommaso Marinetti. La stessa “Odissea” potrebbe essere stata un’opera collettiva. Ma negli ultimi anni di questi collettivi ne sono sorti un po’ ovunque, specie all’interno di laboratori di scrittura. In cosa si differenzia il vostro?
Credo che rispetto alle esperienze delle avanguardie storiche effettivamente una differenza ci sia. Un secolo fa la letteratura di gruppo rispondeva all’esigenza di mettere in pratica una poetica di tendenza, programmatica, ed era forte l’esigenza di riaffermare costantemente i principi teorici espressi dai movimenti nei rispettivi manifesti. Noi, che veniamo dopo la fine delle ideologie e la postmodernità, non viviamo più questa necessità poetica programmatica tesa a imporsi sulle altre. La nostra ricerca nasce – almeno per quanto mi riguarda – da tre presupposti fondamentali. Il primo, che ha trovato la più alta e lucida teorizzazione nei Wu Ming, è quello di rispondere allo zeitgeist, allo spirito del nostro tempo: la mutazione antropologico-culturale determinata dalla rivoluzione mediatica e telecomunicativa ci ha fatto superare da tempo il concetto di autore geniale e solitario quale era stato concepito in epoca romantica e perdurato almeno per tre quarti del Novecento (in questo sì un punto di contatto con alcune avanguardie antiromantiche); l’intelligenza collettiva della Rete ci sta facendo vivere un nuovo Medioevo, ossia una creatività collettiva simile a quella che portò alla costruzione di grandi cattedrali per opera di molte sapienze tecniche e di genialità artistiche unite insieme. Il romanzo può essere paragonato a queste grandi architetture, e più talenti possono unirsi per realizzarlo. Non si tratta né di una perdita né di una conquista; si tratta semplicemente di prendere coscienza di quel che sta avvenendo oggi su uno dei piani dell’espressione artistica e cercare di rispondere a questa nuova dimensione al più alto livello di qualità possibile.
Intrigante la similitudine con le grandi cattedrali della cristianità, anche se finora di opere letterarie collettive che raggiungano un simile splendore se ne sono viste pochine… Veniamo al secondo presupposto.
Il secondo presupposto della scrittura collettiva risponde alla necessità di recuperare un racconto condiviso: con le ideologie sono morte anche le grandi narrazioni – il filosofo Romano Màdera dice che l’ultima grande narrazione che abbiamo a disposizione è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Credo sia molto importante recuperare, attraverso la pratica del romanzo collettivo, questa capacità umana di concepire narrazioni condivise e, aggiungerei, possibilmente da tramandare; anche perché, singoli o comunità, “noi siamo un racconto” e tale identità narrata va preservata, dato che la surmodernità ci vuole espropriare del passato e del futuro schiacciandoci nella bidimensionalità dell’istante digitale.
Non so se mi trovo d’accordo col filosofo citato (nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo per esempio manca il male, manca il cattivo, che come si sa sono gli ingredienti primari di ogni narrazione che aspiri a essere veramente universale) ma andiamo avanti, il discorso si fa interessante…
Il terzo presupposto è più personale: non facendo, per scelta metodologica, “scuola di tecnica narrativa” bensì laboratori di scrittura fondati sulla pratica maieutica, accade che da quasi 30 anni (ho iniziato nel 1991, in epoca non sospetta!) non propino ricettari di tecnica narrativa bensì seguo una linea di ricerca che si sviluppa negli anni; così i partecipanti iniziano un percorso e mi vivono come un treno indiano o africano che passa a bassa velocità: sul treno si sale, si decide di restare, oppure dopo un po’ si scende, a volte per sempre, a volte per un periodo, a volte ci si torna a montare sopra. Allora accade che a poco a poco gli autori maturano e si deve essere capaci di fornire loro una sfida, una proposta di lavoro degna di questa autorialità. Il romanzo può essere questa proposta, un cimento degno. Mi scuso per l’autocitazione, ma dalla mia pratica laboratoriale per ora non è nato solo un collettivo, ne sono nati diversi: Banchéro (a Taggia), IndiMondi (a San Lazzaro di Savena), Navigadour (a Bologna), Immagici e Pistores (a Pistoia). Non conosco tutte le esperienze simili alla nostra, però una cosa mi sento di dirla: sono diverse le iniziative in Rete di scrittura nata da molte mani, che hanno gemmato narrazioni tramite un meccanismo di accumulazione. Ecco, rispetto a tali iniziative spero che quelle curate da me si contraddistinguano per una estrema consapevolezza letteraria e per una scarsa meccanicità del processo di redazione.
Da dove deriva il termine Banchéro?
Banchéro è un centro culturale di Taggia, in provincia di Imperia, uno dei più importanti del Ponente ligure e direi di tutta la regione. La sua principale attività sono la formazione e la produzione teatrali, ma negli anni è cresciuta moltissimo la sezione letteraria, tanto che adesso direi che quasi eguaglia per importanza e risultati l’altra vocazione. Il nome viene da una figura storica realmente esistita: Luigi Banchéro era un borghese di Taggia, spirito libero e cuore ardente, vissuto nel Seicento. Ebbe una vicenda molto simile a quella di Renzo Tramaglino: come lui un nobile locale, tale Lercari, si infatuò della sua fidanzata, la rapì e cercò di impedire il suo matrimonio. La vicenda, narrata in diversi romanzi tra cui uno dell’Ottocento di Carlo Cagnacci, in realtà finisce in maniera ben più tragica dei Promessi sposi: in mezzo alla contesa tra francesi e savoiardi da una parte e genovesi e spagnoli dall’altra, i due amanti finiranno entrambi per morire. Giusto l’anno scorso, per celebrare il 20 anni di esistenza del Teatro del Banchéro abbiamo da quel romanzo un bello spettacolo à la Broook.
Come funziona? Chi scrive cosa? Quali le difficoltà che incontrate nell’armonizzare una pluralità di voci?
Sebbene ogni autore collettivo abbia una sua identità, il funzionamento di questi autori collettivi è sostanzialmente simile – forse perché c’è un unico coordinatore (nella fattispecie io)? potrebbe essere. Gli spunti di partenza sono disparati: a volte si parte da una storia, concepita insieme ovviamente, a volte dai personaggi, a volte da un ambiente o da un periodo storico. Quando si è chiarito il punto di partenza si procede alla redazione del testo: spesso partendo dalla storia, il numero dei personaggi risulta più limitato, e in quel caso tutti scrivono di tutto, ossia un personaggio passa dalla elaborazione di più mani; viceversa se si parte dai personaggi, ognuno solitamente cura il proprio; quando i personaggi si incontrano lì avviene la scrittura più rischiosa, complessa e affascinante, nel senso che un capitolo, ad esempio, vede la collaborazione di due, tre o quattro autori contemporaneamente; ed è qui che i singoli componenti del collettivo imparano a sacrificare un po’ del loro narcisismo (che tutti abbiamo!).
E di solito tutto fila liscio, o vi sono scontri, nascono dissapori?
Anche se può sembrare insincero, nell’esperienza degli autori collettivi che seguo non abbiamo mai incontrato particolari difficoltà di armonizzazione fra le varie voci. Chi legge i nostri romanzi resta stupito dal senso di unitarietà dello stile. Ci abbiamo più volte riflettuto sopra. La conclusione a cui siamo giunti è che questa armonia non è il risultato di una mia revisione finale del testo – per principio tendo a non intervenire sui testi, non li limo, non li “casconifico”; mi piace rispettare al massimo l’autorialità delle persone; mi limito a levare o mettere qualche virgola e a vigilare sulle ripetizioni; questa armonia è piuttosto il frutto di un lavoro a monte – il mio massimo impegno è quello di creare un gruppo umanamente armonico – e di un lavoro in fieri – cioè la revisione collettiva che facciamo di ogni testo durante il laboratorio che produce un romanzo.
Come è nato questo romanzo dal titolo “1,2, 3… Tocca a te!”?
Il romanzo di Banchéro “1, 2, 3… tocca a te!” è nato dal desiderio del collettivo di cimentarsi con il genere thriller, dopo essersi cimentato con il romanzo psicologico e il romanzo storico. È stato molto interessante in questo caso esperire come la trama del giallo richieda una elaborazione più lunga e attenta al meccanismo della costruzione dell’enigma (che poi in finale verrà sciolto).
Ci racconti il plot e le ragioni che lo guidano, se ve ne sono?
È una storia molto contemporanea. Una multinazionale individua nella zona di confine tra Francia e Italia un territorio ricco di materie prime rare utilizzate dall’industria informatica. Per appropriarsi della zona, sottraendola al diritto di sfruttamento dello stato francese e dei cittadini del luogo, la multinazionale maschera l’acquisto dell’area con un investimento ecologico sulla pecora brigasca (appunto da La Brigue, il paese al centro della speculazione). Il giovane rampante Alfredo Zabelli, responsabile della sezione informatica della multinazionale – e che è legato sentimentalmente alla zona –, venuto a sapere dell’operazione decide di vendere il segreto industriale alla concorrenza: questo “tradimento” gli permetterà in qualche modo di guadagnarci sopra un bel po’ di soldi e, forse, di sabotare la speculazione stessa… ma non tutte le ciambelle riescono col buco! Ovvero, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi! E così il nostro protagonista si ritroverà in un mare di guai… (di più non posso dire!).
Veniamo alle intenzioni che vi stanno dietro…
Le ragioni che hanno guidato l’invenzione di questo thriller sono tre: la prima era la volontà di concepire un thriller che non fosse un banale whodunit, un puro meccanismo di decodifica alla Christie – il nostro autore di riferimento in qualche modo è stato Hitchcock; la seconda era la volontà di concepire un thriller che in qualche modo evitasse il più possibile i topoi del genere – qui i cadaveri non compaiono quando dovrebbero generalmente comparire (per esempio all’inizio) e non servono del tutto all’avanzamento della trama; la terza ragione, legata strettamente alla prima, era che non volevamo un thriller fatto di silhouette e di stereotipi: desideravamo scrivere una storia fatta di personaggi veri, complessi, e che fosse legata alla contemporaneità.
È corretto dire che lei è il regista di questi collettivi?
Sì, quello è proprio il mio ruolo. Quando vengono presentate le storie faccio l’avvocato del diavolo, cercando di metterne in evidenza le debolezze, le aporie; quando si creano delle impasse nell’avanzamento di una storia o nella sua redazione cerco di fare il Wolf della situazione, sciogliendo un nodo e soprattutto creando i presupposti perché gli autori riescano a scioglierlo. Insomma, faccio l’occhio esterno del lettore ideale, del lettore critico. In più cerco di facilitare le collaborazioni, se necessario, quando si scrive a quattro, sei o otto mani – devo dire però che ogni sottogruppo di solito si autogestisce egregiamente.
Spesso l’unione fa la forza ma talora amplifica i difetti. Lei che ne pensa? Ovviamente è per la prima ipotesi…
Certo, altrimenti non porterei avanti con i vari laboratori e relativi autori collettivi la scrittura di questi romanzi. Una delle ragioni per cui credo nella loro esistenza è proprio quella di affermare che “L’unione fa la forza”! Ma a parte le battute, personalmente ho solo visto i talenti maturare, e maturare più velocemente che nelle prove individuali. Il confronto, per chi scrive (ma non solo), è fondamentale: il confronto ti rende cosciente dei tuoi limiti, il confronto ti apre la tua visione (che altrimenti sarebbe limitata), il confronto ti dona continuamente stimoli, idee, suggestioni.
Che esito hanno di solito questi libri collettivi?
Se si parla del profilo letterario, direi molto buono (non lo dico io, lo dicono il pubblico e i critici che hanno la bontà di interessarsene). Se si parla del profilo commerciale… direi così così – e dipende anche da caso a caso. Innanzitutto quando ho cominciato a proporre questi autori collettivi agli editori, anche maggiori, ho trovato interesse, riconoscimento… ma paura! Credevo che, dato lo spirito del tempo e la buona riuscita di alcune esperienze, prime fra tutte quella dei Wu Ming, ci sarebbe stata molta attenzione e curiosità per il fenomeno; invece l’editoria ha paura, non sa come maneggiare queste esperienze, non sa come pensarle né come presentarle – e questo credo che dimostri un ritardo culturale. Poi c’è la critica, o meglio ci dovrebbe essere: e la critica, a parte alcune eccezioni come questo spazio di riflessione e pochi altri, non ha alcuna attenzione per questi nuovi fenomeni. La trovo una cosa triste, e un’occasione mancata. È vero che sui giornali c’è sempre meno spazio per i libri e le recensioni, ma è anche vero che dando un’occhiata alle più importanti testate, si vedono recensiti i soliti 5 o 6 editori maggiori… e poco più. È questa “informazione”? È questa “critica”?
Posto che il talento (se esiste) non si insegna. Quanto servono i corsi di scrittura creativa?
Io credo che i corsi di scrittura creativa servano a poco, se per corso intendiamo i “corsi” appunto dove con lezioni ex cathedra si trasmettono ricettari – un personaggio si fa così, una storia si costruisce cosà, un paesaggio si descrive così, un climax si costruisce cosà… Credo invece che i laboratori di scrittura, cioè quei luoghi dove la scrittura non viene ridotta a tecnica bensì viene interrogata continuamente, perché risponda alle esigenze espressive del suo autore (individuale o collettivo che sia) e allo spirito del tempo che viviamo (come sempre dovrebbe fare ogni forma d’arte), dove con metodo maieutico si offre la possibilità ai talenti di emergere a coscienza e maturare – proprio perché il talento non si insegna! – ecco io credo che i laboratori di scrittura servano a molto, e permettano ai nuovi talenti di rivelarsi e di uscire allo scoperto.
Progetti futuri?
Tanti – forse troppi per le mie forze. Banchéro uscirà presto (in autunno) con un nuovo romanzo (per me straordinario) e a distanza di pochi mesi con una interessantissima raccolta di racconti strettamente collegati fra loro; Navigadour, dopo due libri di racconti su Bologna, uscirà con il suo primo romanzo collettivo; IndiMondi di San Lazzaro sta per uscire, dopo due romanzi, con il suo primo thriller; e poi continua la de-scrittura dei paesaggi contemporanei, con nuovi autori molto interessanti, per esempio a Russi, in Romagna. Ostinatamente, caparbiamente, continuerò a lavorare per affermare una delle forme di scrittura del futuro.
Scrittura individuale o scrittura collettiva, dunque? Mondi che si intersecano o realtà parallele? Quale futuro per le scuole di scrittura creativa? Ai posteri l’ardua sentenza. Personalmente, ne ho sentite ormai talmente tante nella mia lunga/breve vita (secondo i punti di vista) che non mi azzardo più ad avventurarmi in sentieri così irti di spine. Lascio i lettori alle proprie meditazioni, individuali o collettive che siano.
Gianluca Barbera