
Nella violenza del Mistero. Flannery O’Connor: le sue storie fanno a fette i falsi moralismi
Letterature
Silvano Calzini
Destinare la propria vita a graffiare note intorno a un libro assente, a elaborare concetti nell’orda di un sistema impossibile, a polverizzare le certezze con mania certosina.
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Senza che vi sia un ‘utile’, consapevole che il lettore è uno, unico, originario – che le parole non hanno pubblico ma accolgono accoliti, non sono accoglienti, occorre vincerle, o farsi vincere. Scegliere di essere un pensatore ‘di culto’ più che ‘di fama’; del sottosuolo, dell’altro tempo prima che di questo tempo, dato per spacciato.
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Scrivere, dico, come corrodere il passato e rovinare i futuri: calcina in faccia all’oggi.
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Di Nicolás Gómez Dávila si sa che è sepolto nella sua opera, che è morto nel maggio del 1994, che è nato a Bogotà nel 1913, che è cresciuto a Parigi – l’odore boschivo latinoamericano si mescola spesso al razionalismo francese, come la squadra s’innerva al ruggito, Cartesio sulla schiena di un leopardo –, che è tornato in patria poco più che ventenne. La vita come una nota sul margine dell’opera. L’opera, di suo, va tenuta nascosta, macerata dall’oblio, perché se l’opera è grande è sempre troppo presto rispetto all’epoca. C’è come una lotta all’ultimo sangue, all’ultimo verbo, tra lo scrittore e il proprio tempo, tra il pensatore e la storia: il grande scrittore è sempre fuori tempo, in sincronia diagonale, perpetuamente anacronistico, incompreso per troppa considerazione o per sconsideratezza.
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Nel 2001, grazie all’editore Adelphi, che rende ogni autore distrattamente un guru, ogni libro un breviario del caos (ogni riferimento ad Albert Caraco è ovviamente voluto, voluttuoso), Nicolás Gómez Dávila diventa, d’improvviso, pop. Alla pubblicazione di In margine a un testo implicito segue, nel 2007, quella di Tra poche parole. Entrambe, sono antologie dell’opera immensa di Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito. Lo ‘scolio’ è il commento intorno a un testo: che questo sia ‘implicito’ significa che è sottinteso, non occorre denunciarlo – o forse: che ogni denuncia è inutile. Quelli di Nicolás Gómez Dávila sono commenti sulla soglia dell’invisibile, l’esercizio non estemporaneo di dare attributi al vuoto, anzi, al noto. L’uomo moderno, però, ha perso di vista l’implicito – cos’è? La vita? La Storia? L’uomo? L’anima? Dio? Il commento, così, scandisce la nostra ignoranza, scandalizza. Lo ‘scolio’, storicamente, è l’esercizio di una civiltà evoluta – o spiritualmente involuta – totalmente letteraria, bizantina.
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Gli Escolios, dopo anni di navigazione antologica, hanno trovato degna sistemazione in due tomi editi nel 2017 e nel 2018 a cura di Loris Pasinato per l’editore Gog, nato al fianco de “L’Intellettuale Dissidente”, con riferimenti arcani (Gog e Magog, tra Ezechiele e il Corano, sono vocaboli che descrivono il sanguinario, il selvaggio, il caotico) e letterari (Gog è il romanzo di Giovanni Papini del 1931 che denuncia, con verve satirica, la stortura dell’uomo contemporaneo). Con Notas – sempre per cura di Pasinato – le edizioni Gog compiono un ulteriore annegamento nell’opera di Nicolás Gómez Dávila. Notas infatti è il preludio agli Escolios, la camera oscura di quegli ‘scoli’, un libro iniziale e iniziatico, già ammantato dal fato e dalla necessità dell’innecessario – pubblico nel 1954 in edizione fuori commercio, per amici. Note che anticipano gli scoli: il testo è reso implicito dal commento megalitico, scompare, divorato dalla sua interpretazione. Il gioco labirintico di scoli che rimandano a note non crea il caos, ma l’egida delle lame.
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Non chiediamo a note e a commenti di dirci la verità: esse sono cuciture, a volte, altre volte sono cicatrici. A volte impongono un taglio. La coerenza è l’assenzio di una coltellata.
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Questo Notas, per ubriaca follia editoriale, è uno dei libri dell’anno, altro che il Nobel, qualcosa che apri a caso, ti appendi a un grumo di parole (“Nel silenzio della carne sazia si destano le potenze dello spirito”), il giorno, il giornaliero, ha già un altro gusto, l’asprezza delle scelte memorabili, di vite incuneate nel regno della propria immaginazione. Se fossi il direttore di un “Corrierione” qualunque battezzerei la testata, ogni giorno, con una nota – guai a scambiare per ‘aforismi’ le note e gli scoli – di Nicolás Gómez Dávila. Esempio: “La vita è la ghigliottina delle verità”.
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Ho sempre amato, senza particolari interrogativi, Álvaro Mutis. Ora capisco: il padre, Santiago Mutis Dávila, diplomatico, era imparentato ai Gómez Dávila (famiglie ricche: ci vuole ricchezza, esteriore, interiore o entrambe, per fare letteratura scrollandosi dalle spalle il crollo della gloria). Soprattutto, il Maqroll di Mutis – figura di inquieta bellezza – ha per sistema filosofico, nel suo digradare sui bastimenti da Anversa ai recessi amazzonici, gli Escolios e le Notas. “Leggeva molto, era un uomo immensamente ricco, dalla cultura assoluta: sembrava Bisanzio incarnata”, ha detto di lui, Mutis – per cui andò in estro Fabrizio De Andrè. “Nicolás mi ha adottato come figlio, ci sono amici che ti sono padri. Nicolás è con me, vive in me, è qualcosa che frulla nel sangue”.
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Più noto nel circolo filosofico francofono – avvezzo all’aforisma, al pensiero smaliziato – che in quello anglofono, dove è visto soltanto nell’accezione del conservatore – su “The Imaginative Conservative” un articolo recente lo definisce The Nietzsche From the Andes – Nicolás Gómez Dávila è stato definito, di volta in volta, il “reazionario anticonformista”, “l’illustre sconosciuto”, “l’angelo crudele del nostro tempo”, “l’Epicuro dell’intelligenza”, “il solitario più originale del XX secolo”, “il Nietzsche colombiano”. Nell’inafferrabilità – dovuta anche a una educazione per via di precettori privati, a una cultura ondivaga, anarchica, scriteriata e dunque unica, la sola percorribile – è il crisma della sua opera. “Ci sono scrittori che spuntano inattesi, senza essere annunciati da nulla e da nessuno”, scrisse Franco Volpi nella storica intro a Tra poche parole. “Ci sono scrittori che sembrano provenire dal nulla. Che germogliano imprevedibilmente da ambienti che sono a loro estranei, senza essere stati preparati da nulla e da nessuno, senza precedenti, senza appartenenze o segnali di riconoscimento utili per definirli. Eccentrici, scomodi e irregolari… inconfondibili”, scrive, ora, introducendo Notas.
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Non c’è rito senza dissacrarne i verbi – l’oratoria deve farsi ostia, parola che conduce a un inesplicato. Così, Nicolás Gómez Dávila va inghiottito. (d.b.)
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Ammirare senza invidia e senza odio è la sola maniera di riscattare la magnificenza del mondo la cui possessione ci fu strappata dalla nostra mediocrità. Ma il nostro astuto orgoglio cospira instancabilmente per intorbidire con i suoi giudizi diffamatori lo specchio lucido e freddo di quell’intelligenza che sola può restituirci la nostra eredità perduta.
Mi è sempre bastato scorgere il paesaggio della coscienza desolata per sentirmi trascinato da un vento di fiducia irresistibile fino ai piedi di Dio.
La vita quotidiana, con i suoi obblighi familiari e i suoi doveri professionali, è generalmente così monotona e così insipida che molti all’annuncio di una guerra si sentono, in maniera confusa, deliziosamente esaltati.
L’orgoglio è il residuo restitutorio della nostra gloria abolita.
L’intelligenza tende verso l’immobilità come i corpi verso il centro della Terra.
Un vocabolo raro è capace di indiscrezione, mentre il termine comune propala solamente una villania.
Quando le cause del fallimento di una vita sono mere convenzioni sociali non possiamo parlare di tragedia, ma di accadimenti patetici.
Gli uomini che non cercano nei libri solamente divertimento, informazione o dati sono pochi. Un libro raramente educa. Ciascuno legge con lo spirito che possiede. Nei libri non scopriamo altro che la conferma dei nostri pregiudizi. I libri non educano se non coloro per i quali essi sono una presenza viva, un’esistenza immediata e carnale.
Che Dio ci vinca oppure che lo conquistiamo noi. La violenza sola ci consegna a Dio o ce lo consegna.
Non credo ci sia un uomo dotato di minor predisposizione di me. Tutti hanno qualche “talento”, qualche “grazia”; solo io sono nato sprovveduto, nudo, sorprendentemente inerme.
Non viviamo tranquilli se non quando crediamo che nessuno esista. Certamente è raro osar sostenere un solipsismo così acuto, ma la sgradevole sorpresa che ci causa un’esistenza patente ed innegabile è prova della nostra segreta convinzione. In fondo, la nostra educazione, il nostro rispetto verso gli altri, la scrupolosa attenzione con la quale ascoltiamo le opinioni altrui, la nostra ripugnanza a ferire una sensibilità qualsiasi, le precauzioni che prendiamo per non far arrabbiare o non disgustare, non sono nient’altro che le astuzie e gli stratagemmi che elaboriamo al fine di evitare il contatto violento con gli altri, il gesto brusco che impone la realtà irrefutabile di una persona. Umiltà e discrezione sono atteggiamenti di chi si ritira e si riduce per non scontrarsi con gli oggetti non perché tema di romperli, neppure perché tema di ferirsi, bensì perché la loro sola esistenza reale lo atterrisce.
La nostra ebbrezza di fronte al mondo non dev’essere altro che lo strumento della nostra intelligenza.
La ricchezza non serve all’uomo moderno se non per moltiplicare la sua volgarità.
La futura borghesia comunista prepara banchetti d’ilarità alle potenze infernali.
Viaggiare per l’Europa è come visitare un palazzo dove i domestici ci mostrano le sale vuote in cui vi furono feste meravigliose.
Nicolás Gómez Dávila
*da: Nicolás Gómez Dávila, “Notas”, a cura di Loris Pasinato, introduzione di Franco Volpi, Gog, 2019