Vita inimitabile di Romain Gary, uno scrittore di cristallo
Letterature
Silvano Calzini
Al centro della piccola insenatura c’era un veliero. Disarmato di fiocco e randa lo scafo color mogano contrastava con il verde acquamarina dei fondali. Chiazze di blu scuro li punteggiavano per poi diventare uniformi lì dove il mare ritornava profondo.
Ai lati della baia, su piccoli promontori prospicenti, si rispecchiavano due abitazioni: bianche, un patio dietro cui si dovevano allungare le stanze, una discesa a mare della quale indovinavi in alto il punto di partenza ma non quello di arrivo, magari in un anfratto roccioso ancora dentro alla baia, oppure sul lato che già dava sul mare aperto.
La mattina quando mi svegliavo e la sera, prima di addormentarmi, rifacevo mentalmente i miei calcoli: in linea retta fra le due case c’era all’incirca un chilometro, mille, millecinquecento bracciate, tre quarti d’ora di nuoto, a stare larghi. All’andata avrei nuotato dritto davanti a me, lasciandomi sulla destra la prua della barca e cercando di mantenere il più possibile una traiettoria all’interno dell’immaginario triangolo che racchiudeva la traversata completa. Al ritorno avrei spezzato il tragitto in due lati: dalla raggiunta abitazione sul promontorio a est sarei tornato fino alla poppa dell’imbarcazione; dalla poppa sarei risalito sino a incrociare l’estremità dell’abitazione a ovest.
Entrambe le coste erano immerse nel verde, ma dove la caletta si chiudeva intuivi dovesse aprirsi una profonda spiaggia bianca che poi probabilmente si tramutava in una bassa radura. Intuivi, perché la foto non ti permetteva di dire di più: incorniciata (come fosse un quadro) e appesa a una parete della mia camera lasciava all’immaginazione il compito di riempire i vuoti che l’obiettivo del fotografo aveva tagliato via nello scegliere l’inquadratura. La barca doveva avere un equipaggio, nelle case doveva abitare qualcuno, magari sulla spiaggia c’erano dei capanni, un gazebo, un ristorante… Eppure la mia mente era come riluttante a staccarsi dallo schema che fin dall’inizio l’aveva appagata: una costruzione, una barca, un nuotatore. C’ero io che entravo in acqua e bracciata dopo bracciata mi dirigevo verso il promontorio opposto. Sotto di me il mare alternava spazi scuri di scogliere, improvvise distese di sabbia bianchissima, tappeti di alghe, una fauna di piccoli pesci d’argento e di altri più grossi che apparivano e scomparivano a branchi e a cui davo il nome di quelli che conoscevo: orate, mormore, spigole, cefali… Il primo tratto era il più serrato e il più veloce e arrivavi alla fine a sdraiarti su delle rocce perpendicolari e a picco rispetto alla casa sulla scogliera che in linea d’aria era stato il tuo obiettivo. Te ne stavi come una divinità marina ad asciugarti, piccoli granchi che percorrevano il tuo corpo, ogni tanto dei moscerini, le mani ora staccavano una lumaca di mare, ora si accanivano invano contro una patella… Il ritorno era un po’ come una gita, un’andatura più lenta, ogni tanto un’immersione perché qualcosa aveva colpito la mia attenzione, arrivavi a toccare la poppa che quasi non te ne accorgevi. Raramente ci salivo sopra, il più delle volte sostavo qualche minuto attaccato all’ancora e poi riprendevo la via del ritorno, l’ultimo tratto.
Fra i sette e i dodici anni quelle traversate silenziose hanno rappresentato per me la felicità. Non mi domandavo mai come fosse l’interno delle due case, quante persone ospitasse la barca e insomma se quella fosse un’isola, una penisola, una costa e chi ci vivesse e come. A me bastava essere il nuotatore che da un capo all’altro perfezionava ogni volta la sua traversata, più lunga, più corta, più veloce, più circostanziata. Case, barche, persone, erano superflue. O forse, lo dico a tanti anni di distanza, era la vita in quanto tale a sembrarmi superflua. Volevo qualcosa di più e di diverso, ma non sapevo cosa. Nell’attesa, nuotavo.
Non solo con la fantasia. Per far funzionare quell’immagine, per renderla viva, le mettevo a disposizione un patrimonio infantile di estati marine, quattro mesi a mollo fra Adriatico e Tirreno, il mare come la seconda casa di una banda di ragazzini che nel mare trovava i confini di un regno autonomo e autosufficiente da dove i grandi restavano esclusi, confinati fra spiagge e scogli, ora distratti e ora preoccupati, minacciosi o imploranti: «Non devi andare così al largo», «non puoi scomparire per delle ore», «guarda che polpastrelli bianchi che hai», «basta, da domani fai il bagno qui davanti a me e dopo mezz’ora fuori…». E tuttavia mai che un genitore si decidesse a varcare veramente quei confini, di cui del resto non si rendeva nemmeno conto, quel combinato disposto di barche, canotti, rocce e rena, quel rituale di tuffi, immersioni, giochi e gare di destrezza, quelle maschere perse e poi ritrovate, quelle pinne lanciate lontano e poi ripescate, l’alchimia delle prime esplorazioni subacquee, il nuovo mondo che si spalancava sotto di te e di cui tu inseguivi le tracce sul fondo, indovinavi le aperture fra gli scogli, verificavi fosse e secche improvvise. Così, quelle immaginarie nuotate autunnali e invernali davanti alla foto incorniciata in camera tua si nutrivano in realtà di migliaia di nuotate reali, rifacevi gli stessi gesti, riassaporavi lo stesso gusto salmastro di quando per distrazione l’acqua ti entrava in bocca, sentivi la fatica nelle braccia, il sole sulla pelle, il piacere della progressione armonica e costante, l’affiorare in lontananza e poi via via sempre più vicino della costa dove alla fine ti saresti arenato, il cuore che pompava furioso, i riverberi della luce che ti ferivano gli occhi, la pace primordiale dei mattini bagnati di silenzio.
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Il mio status di piccolo nuotatore timido e superbo andò a picco in terza media. Quell’anno era stata inaugurata la piscina e il nuoto entrò nell’orario scolastico. Delle piscine ignoravo tutto, ma fin dal principio non mi piacque nulla. Il clima artificiale, innanzitutto, una specie di bagno turco, umido e caldo, che ti prendeva alla gola e ti dava un senso di spossatezza. Il fetore del cloro e quel suo bruciarti gli occhi trasformandoli in due palle di fuoco. Il biancore di quei ventisei corpi di ragazzi, alti, bassi, grassi, magri, infagottati negli accappatoi oppure immersi nell’acqua a provare stili che a me sembravano più degni del circo che non dell’idea di nuoto mi portavo dietro: farfalla, delfino… Il suono stridulo del fischietto dell’istruttore e il ripetersi estenuante dei tuffi dai blocchi di partenza. Che il nuoto potesse essere uno sport non mi era mai passato per la testa, e la monotonia schizofrenica di quelle vasche avanti e indietro, su un’acqua che sentivi stranamente pesante, all’interno di un percorso tracciato lungo un fondo anonimo e privo di sorprese… be’, c’era da impazzire. La velocità, poi, che c’entrava la velocità con il nuoto, come si poteva trasformarla nell’essenza di un qualcosa che invece era contemplazione, osservazione, riflessione, piacere estetico? Spogliato dei suoi elementi naturali nuotare diveniva una sorta di coazione senza senso, l’idea di essere come animali da batteria tesi soltanto al raggiungimento dell’obiettivo fissato. Più uova possibili, più metri possibili, nel meno tempo possibile.
Poi c’era il biancore dei corpi, illividiti dalle luci al neon, corpi ancora in formazione che un’estate all’acqua, all’aria, al sole aveva per un istante rastremato e modellato e che l’inverno di nuovo ingrigiva, togliendo loro lucentezza ed elasticità e riconsegnandoli alla prosaicità di un’età critica e infelice. Il timido e superbo nuotatore che era in me quell’anno non inghiottì che umiliazioni. «Grandi potenzialità, ma scarso impegno agonistico», era il verdetto impietoso. Sconfitto nelle finali, a volte addirittura eliminato nelle batterie, guardavo i compagni vittoriosi e cercavo di consolarmi pensando a come si sarebbero comportati in mare: il nuoto non è soltanto velocità, mi ripetevo, e l’acqua un elemento con cui convivere, non un nemico da sconfiggere… Saltavo gli allenamenti, fui tolto dalla squadra. Mio padre non capiva: «Ma come, non è la cosa che ti piace di più?». È difficile per un ragazzino spiegare in termini razionali un rifiuto di carattere sentimentale, legato a emozioni, sensazioni, fantasie. Nuotare era per me come entrare in un’altra dimensione, una sorta di regno di cui io solo detenevo le chiavi. Ridotto a mera pratica sportiva diveniva avvilente, asfissiante. «Mi annoio, non mi diverto», mi limitavo a bofonchiare a mo’ di risposta.
Quando finalmente arrivò l’estate, ahimè fu senza incanto. Sarà che stavamo cambiando pelle, ma nulla era più come era stato, luoghi, volti, desideri, aspettative. Entravo in acqua e mi sentivo come impacciato, nuotavo lungo un percorso e mi sembrava come se tutto, sole, rocce, coste, mi irridesse: il nuotatore senza velocità, il nuotatore senza agonismo, il nuotatore della domenica… In ogni altro ragazzo vedevo un ipotetico rivale, e tutti mi sembravano più bravi, più capaci, più convinti. E però il mare non era più il loro centro di interesse, l’altra vita rispetto alla terraferma, ma al più l’appendice di una sdraio, un baretto, un ombrellone, una comitiva, un falò, una chitarra… Tutti giocavano, scherzavano, si bagnavano, ma non nuotava più nessuno. Timido e superbo nuotatore mi immersi in un’apnea che durò il tempo dell’adolescenza. Riemersi l’anno della mia maturità classica.
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Si nuota da soli e in solitudine. Non lasciatevi convincere da chi vi dice che farebbe volentieri qualche bracciata insieme a voi. Buttereste al vento una giornata, il ritmo rotto ogni due per tre per non perdere di vista chi è con voi, un susseguirsi di stili privo di senso da parte di chi non è abituato a tenere una rotta e un’andatura, tu che imprechi silenziosamente ogni volta che l’altro si ferma, fa il morto, riparte senza tenere una direzione. Il nuoto non è di compagnia, non è il tè alle cinque con gli amici. È autodisciplina, è contare solo su sé stessi, è fatica fisica e piacere fisico, nutrimento spirituale. Arrivi arrugginito e ingrigito dall’inverno, dalla routine della vita, e lentamente prendi a riequilibrare il tuo corpo e la tua mente. Cominci il primo giorno con un numero limitato di bracciate, senti la muscolatura che inizia a sciogliersi, la respirazione che si fa più sicura, il mare che ti accoglie come se non te ne fossi mai andato. Ti sei immerso e ora scivoli silenzioso nell’acqua avendo la costa alla tua destra. Nel tramonto segui la striscia lucente che il sole lascia sul mare e ti sembra di nuotare in una galassia di luce, il riverbero che ogni tanto ti acceca o ti ferisce. Domani raddoppierai la distanza e così via via ogni giorno si amplierà il tuo raggio di azione, di esplorazione, di dominio. Sdraiato su una riva nel sole di mezzogiorno guarderai il tratto di mare dietro di te, e ti farai cullare dallo sciabordio dell’acqua intanto che il tuo corpo si scava una posizione fra sabbia e alghe per non essere trascinato nuovamente al largo.
L’azzurro del cielo è squillante, l’azzurro del mare perfetto e tu non ti sei mai sentito così vivo e così felice.
Si nuota senza orpelli, pinne, maschere, boccagli, costume. Al massimo un paio di occhialini e, per questioni di decenza, quegli slip sganciabili che ebbero un momento di gloria e di moda negli anni Sessanta, Port-Cros, si chiamavano, e che ancora adesso puoi trovare in qualche emporio balneare. Il tuo obiettivo è eliminare qualsiasi cosa si frapponga tra te e l’acqua, fare di quell’elemento il tuo elemento naturale, abituarti all’autosufficienza, sentirti come un pesce o come una divinità marina decaduta alla ricerca della sua perduta dimensione. Quanto al costume, non c’è piacere più sottilmente erotico di un corpo nudo che fende la superficie del mare, «fornication avec l’onde», secondo la definizione di Paul Valéry.
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Quando ho ricominciato a nuotare è stato come nascere una seconda volta. Gli anni del ginnasio e del liceo li vedo avvolti in una nube di goffaggine, in un limbo di incompiutezza. Mi ero lasciato alle spalle l’isola del tesoro di una fanciullezza individualistica e appagata e mi ritrovavo in alto mare, senza una rotta da seguire, una latitudine e una longitudine su cui fare il punto. Non mi piaceva nulla di me, non mi piaceva nulla degli altri. Uscivi da inverni scolastici noiosi, faticosi, uggiosi e senza luce ed entravi in estati prive di magia dove mimavi la tua esistenza di studente senza il peso delle lezioni, ma con il fardello del divertimento a tutti i costi, della vita da spiaggia al posto della vita di quartiere, gli strusci sul lungomare, le cene sul lungomare, il cinema sul lungomare, un locale dove ballare sul lungomare… Era la ripetizione della vita di città fatta da chi non era né carne né pesce, non più in grado di riallacciarsi a ciò che era stato prima, lo stupore infantile di chi si crea un mondo a parte, non ancora in grado di disegnare un percorso personale, stretto fra obblighi e convenzioni familiari, scolastiche, di gruppo. L’anno della maturità comprai un biglietto per la Grecia…
Si prendeva un traghetto e poi ancora altri traghetti, sempre più piccoli, mai puntuali, sempre più sgangherati. Perdevi coincidenze improbabili e ti ritrovavi a passare la notte in porti che affacciavano su un microcosmo di caffè, taverne, stanze in affitto, pescatori intenti a rammendare le reti, mercati del pesce e della frutta. Ripartivi all’alba, una piccola tribù improvvisata di zaini e sacchi a pelo che il tempo e gli imprevisti aveva alla fine radunato, e ti godevi quel primo sole su imbarcazioni dai motori spetezzanti, vecchi con i volti intagliati, donne vestite di nero che ogni tanto sporgevano la testa fuori bordo per vomitare, bambini che giocavano, un gran consumo di semi di zucca masticati e sputati, borse della spesa piene di ortaggi, qualche cane, qualche capretta… A ogni porto il ferry si vuotava per poi riempirsi nuovamente, biciclette, motori, carretti, fagotti che si aprivano per il pranzo, bottiglie di vino resinato che giravano, passeggeri addormentati sotto il sole, un berretto calato sugli occhi, uno scialle a coprire il volto, un russare pieno che faceva da contraltare agli starnuti ritmati del motore. Da Atene a Patmos quell’estate ci misi tre giorni e sei traghetti.
La casa di V. distava dal mare un centinaio di metri di spiaggia bianca. L’abitazione era sul limitare di quello che una volta doveva essere stato un bosco rigoglioso e che adesso, invece, era attraversato da strade sterrate e mulattiere che portavano al paese e da lì al resto dell’isola. In mattoni, bassa, un piano era ancora in costruzione ma, essendo destinato alla figlia più piccola una volta sposata, c’erano ancora quattro o cinque anni davanti prima che il bisogno si facesse impellente. Se al mattino non ero andato a pescare con V, uscivo di casa e mi ritrovavo nel centro di un’insenatura contrassegnata ai lati da scogliere che finivano per inabissarsi in mare e, a un paio di chilometri di fronte, da un isolotto basso e largo, qua e là macchiato di verde. L’acqua alla vita, cominciavo a nuotare in un mare smeraldo che a poco a poco virava al blu prima di divenire cobalto, lì dove la profondità si faceva massima, i fondali scomparivano alla vista e l’adrenalina che ti dà l’ignoto faceva pulsare il cuore furiosamente. A fatica mi imponevo di mantenere lo stesso ritmo, ché nulla nel nuoto è più deleterio del cambiare velocità, l’illusione di accelerare per poi riposarsi. A mano a mano che l’isolotto si avvicinava i colori tornavano a mutare e un gracidio di gabbiani faceva da contrappunto al respiro della bracciata, allo scivolare del corpo sulla superficie del mare. Alla fine strusciavi con il petto su pochi centimetri di sabbia e rimanevi così, sul bagnasciuga, la testa appoggiata su un cuscino di minuscoli sassi e conchiglie, il respiro che lentamente si acquietava, i muscoli che tiravano, il mischiarsi del fresco dell’acqua e del calore del sole, un dolce torpore che si impadroniva di te e si trasformava in sonno. Ti avrebbe svegliato lo schiaffetto improvviso di un’onda.
In paese c’erano due locande, una vicino al porticciolo delle barche da pesca, l’altra all’estremità dell’abitato, lì dove le stradine finivano in aperta campagna e si inerpicavano verso il centro dell’isola. A partire dal tramonto i polli cominciavano a rosolare sugli spiedi e si preparavano le griglie per il pesce: gamberoni, calamari, triglie, pagelli. Passavi, facevi la tua ordinazione e poi ti fermavi all’unico bar a bere una birra gelata e ad ammazzare il tempo in attesa di andare a cena. Alle dieci di sera non c’era più una luce accesa in giro e al momento di mettermi a letto osservavo stupito come il nuoto avesse cominciato a rimodellare il corpo, i pettorali che si allargavano, i fianchi che si asciugavano, la muscolatura di gambe e braccia che si allungava sotto la pelle. Prima di addormentarmi facevo i piani per la nuotata che mi attendeva il giorno dopo: al mattino mi sarei lasciato la baia sulla sinistra e avrei cominciato a esplorare l’isola risalendola lungo la costa; al pomeriggio, a meno che non mi fossi imbattuto in qualche scogliera di particolare bellezza, avrei fatto lo stesso dall’altra parte. Poi piombavo in un sonno profondo, fatto di stanchezza e di piacere.
Quell’estate greca segnò una duplice agnizione. Nuotare mi si ripresentò come uno degli elementi fondanti della vita, una specie di forza primordiale che leniva e rendeva possibile ogni cosa. Il senso panico di fisicità e di compiutezza che ne derivava mi dava un’illusione di immortalità, un sentimento di grandezza. Nel corso degli anni dolori, lutti, sofferenze, angosce si sarebbero sciolti nel ritmo sostenuto con cui fendevi il mare, avrebbero trovato una ragione d’essere nell’armonia di una traversata, nel vagabondare da una cala all’altra, nel complicato scivolare sopra rocce a fior d’acqua. A ciò si aggiunse la rivelazione del Mediterraneo come cornice naturale, luogo deputato d’eccezione, mare per eccellenza. Imbevuti di storia come siamo, è l’unico dove ti senti veramente a casa. Non c’è angolo di costa, arcipelago, isola, che non ti rimandi a una civiltà, una battaglia, un romanzo, una poesia. Non c’è lembo di terra da lui bagnato che non sia carico di nostalgia e di passato e nulla è più compiuto e definito di quella civiltà classica che lo tiene a battesimo e lo utilizza come scenario, ospita divinità ed erige monumenti, fortifica città, segnala confini invalicabili, costruisce flotte e progetta esplorazioni. Per certi versi il grido di gioia dei soldati dell’Anabasi di Senofonte davanti al mar Nero, «Thalatta, Thalatta», il mare, il mare, nel considerarlo un’appendice dell’unico degno di questo nome, è una delle dichiarazioni d’amore e di identità più strepitose che siano echeggiate nei secoli. Così, non ci sono mari tropicali e oceani che tengano, giganteschi acquari, immense autostrade liquide dove ti aggiri sconsolato, schiacciato o sedotto dalla natura, ma senza coordinate nelle quali muoversi, un destino in cui riconoscersi.
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«Un uomo libero, un orgoglioso nuotatore che fendeva l’acqua in cerca di un nuovo destino». Nelle ultime righe del Clandestino di Conrad è scolpito il perché di una fascinazione. Ci sono delle albe squillanti, avvolte nel silenzio, in cui entri in mare come se prendessi possesso di un nuovo dominio di cui ignori i contorni. Ti appartiene, ma non lo hai mai misurato, non sai quali sorprese ti riserva, se ne sarai deluso o conquistato. Via via che scivoli nell’acqua e accordi velocità e respirazione ti prende una sensazione di euforia: non sei mai stato così padrone di te stesso, nessun legame, nessun impiccio, nessun secondo fine, non sei mai stato così in balia del caso, qualsiasi direzione può rivelarsi giusta o sbagliata, qualsiasi scelta ha in sé l’incognita dell’ignoto. Nuoti, e nel nuotare apparentemente si annulla ogni altra attività: conti il numero delle bracciate, perché sai che c’è comunque il ritorno che ti aspetta, verifichi la traiettoria, controlli i fondali, ma il tuo orizzonte iniziale è già mutato, perché hai superato quel promontorio, oltrepassato quella scogliera, incontrato quella baia fino a un istante prima coperta dalle rocce… E ogni volta il dominio si rinnova, assume dimensioni diverse, obbliga a nuove verifiche. L’orgoglioso nuotatore di Conrad è tale perché conosce le proprie capacità, le ha messe alla prova, ha lavorato sul proprio fisico per trasformarlo in una macchina in grado di rispondere docilmente, perfettamente, ai comandi, e ora verifica con sorpresa felicità come tutto ciò avvenga, come tutto il lavoro fatto in precedenza si tramuti in una «navigazione» fluida e senza scatti, in una sorta di naturale proiezione fisica del proprio Io, del proprio essere. La sua libertà deriva anche da questo, la consapevolezza della propria unicità, il non doverla spartire con nessuno, il non dipendere da nessuno. E il destino, alla fine, consiste in questa continua misurazione di noi stessi con ciò che ci circonda, nella capacità di aprirsi al nuovo ogni volta che si presenta, nella disponibilità a sorprendersi e a sorprendere. Bracciata dopo bracciata cerchiamo di avvicinarci al perché delle cose, e pazienza se un’onda o una corrente ci allontanano. Caparbi ricominciamo, pessimisti ma attivi. Il nuoto è una metafora della vita.
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L’ho già accennato, ma vale la pena di insistere. Dei tanti stili con cui si può nuotare, solo uno si addice alla essenziale dignità del nuotatore. Lasciamo stare i più eccentrici, delfino e farfalla, tutt’al più adatti, lo ripeto, a fenomeni da circo equestre, e soffermiamoci sull’altra coppia più classica. Il dorso è, nella peggiore delle ipotesi, una scelta da pensionati, da teorici del materassino; nella migliore un’andatura cieca in cui si dà il culo al mare, lo si nega, cioè, e ci si rivolge, chissà perché, al cielo. Un controsenso, detto in altri termini. Il crawl è da esibizionisti un po’ fighetti, bello e imponente, certo, ma condannato alla visione parziale, laterale, di ciò che ha intorno e limitato dalla sua stessa velocità: lento è un assurdo, veloce fa confondere la causa con l’effetto. Nuotare non è correre, è pensare. Così sul terreno, ovvero sull’acqua, rimane solo la rana che assomma in sé tutte le qualità: ti permette di affrontare il mare a viso aperto, di fronte, ti garantisce la massima visibilità, sia sopra sia sotto, ti lascia stabilire il ritmo più idoneo, ha dalla sua un’eleganza naturale, non ricercata, è essenza, non apparenza.
Nuoti perché non ne puoi fare a meno. Ogni volta che l’estate si annuncia cominci a smaniare, il tuo corpo che risponde al richiamo come un cavallo imbizzarrito. Sogni giornate luminose, tramonti estenuati che si annullano nel mare, caraffe di vino bianco gelato e frizzante che ti aspettano al ritorno, il sonno della controra nella penombra fresca di una camera bianca di calce, lo sguardo che si perde all’orizzonte, una vela poco distante. Sogni giornate pigre che pigramente si ripetono, un libro abbandonato al tuo fianco, un asciugamano su cui te ne stai sdraiato, il rumore quieto delle onde che si rompono sotto di te. Sogni il momento irripetibile in cui entrerai di nuovo in acqua e subito ti sembrerà come è sempre stato e avrai l’impressione che il tempo si è annullato, che non ci sono state stagioni fredde e morte, che tu da lì non ti sei mai allontanato. Perché il sogno sia perfetto e corrisponda poi alla più perfetta delle realtà hai bisogno che intorno a te non ci sia nessuno, che la solitudine sia totale e rimandi all’altra solitudine che ti accompagnerà nuotando, unico signore incontrastato di un regno immaginario eppure reale.
Il nuoto non è un’attività fisica, è una disciplina interiore. In quanto tale non è trasmissibile. Puoi anche insegnare i movimenti, la tecnica, ma al senso, al suo significato, o ci arrivi spontaneamente o non ci arriverai mai. Certo, la tentazione di far provare a un’altra persona lo stesso tipo di emozioni che provi tu è forte, ma quasi sempre è destinata al fallimento, quasi mai si accende la scintilla dell’affinità elettiva. Per eccesso d’amore ci si può anche ingannare. M. era la più perfetta delle compagne, un soldatino obbediente nel suo seguirmi su e giù lungo sentieri che invece di scendere a mare finivano a strapiombo su pareti impraticabili, un allegro marinaio su un gozzo che imbarcava acqua e un motore asmatico che ogni due per tre si bloccava, lungo il perimetro di una Ponza che alla fine degli anni Sessanta era ancora incantevole. Avrei dovuto fermarmi lì… ma da ragazzi si ha ancora il demone dell’assoluto e della perfezione e si vorrebbe che l’altra persona fosse una parte di te. Che non avrebbe funzionato avrei dovuto capirlo subito, allorché lasciata la barca cominciammo a nuotare e lei mi venne dietro, invece di andare a cercarsi la sua rotta, ché nulla è peggio per un nuotatore del trovarsi qualcuno davanti o sulla scia, l’incrinarsi di una perfezione, l’intromissione nel Tutto dell’Altro da te… Mi seguiva, poverina, perché era innamorata e voleva farmi contento, laddove io pensavo di svelarle l’ineffabile… Cala Fontana era a meno di un chilometro, ma lei dopo un centinaio di bracciate aveva già cominciato a rompere il ritmo, a cambiare stile e io, che un po’ mi sentivo responsabile, mi fermavo spesso e mi voltavo per vedere dove fosse, cosa facesse, quali rischi si potessero presentare… Uno stillicidio perché ciò che per me c’era di sacro in quelle traversate assumeva in lei i contorni del divertissement, un’impresa un po’ noiosa da trasformare in gioco, in passatempo, per non deludere quel pazzo che le era davanti… Sì, avrei dovuto capirlo subito e comportarmi di conseguenza, ovvero limitarmi a fare il bagno, pratica piacevole peraltro. Da allora, comunque, ho imparato la lezione. Se sono con amici faccio finta di niente e lascio che ciascuno, me compreso, dipani la sua giornata al mare secondo i propri gusti, senza obblighi né attenzioni. Se sono con una donna faccio come vuole lei…
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Ogni tanto si inciampa nei ricordi. Svuoti una casa, perché tua madre se n’è andata per sempre, e ti vengono incontro frammenti, schegge di memorie, una fotografia, un oggetto, un quaderno di appunti. La vita va avanti ma sempre qualcosa ti tira all’indietro e aveva ragione l’io narrante nel Grande Gatsby di Fitzgerald: «Così continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato». Sulla scrivania recupero e allineo una piccola bottiglia intarsiata d’argento in una custodia di pelle, un serramanico, una conchiglia, ciò che resta di un’estate dalmata, un’estate greca, un’estate sarda che lentamente prendono a riaffiorare lì dove il timido e superbo nuotatore del tempo che fu è l’unico filo conduttore. Ecco il mare gelido delle isole Incoronate, ultima tappa di un viaggio che fra Zara e Spalato ti aveva sprofondato fra i resti avviliti del Leone di San Marco in una Jugoslavia ancora sotto Tito, rassegnata e polverosa, impronte di pietra fra mercati poveri e senza gioia. Ecco la taverna di Amorgos dove d’improvviso scoppiò la rissa, con l’ubriaco dietro al bancone che metodicamente tirava bottiglie verso tutto ciò che si muoveva, lo schianto delle sedie usate come clave, io che alla fine tirai fuori il coltello e intanto mi chiedevo se veramente avrei avuto il coraggio di usarlo. Ecco gli scogli piatti della Pagliosa dove mi allungai esausto e mi addormentai di botto, svegliato poi da un granchio che cercava di incunearsi nel mio naso… Sempre e comunque case coloniche, o tende che si trasformavano in forni di prima mattina, dune di sabbia da cui rotolando finivi in mare, bagni in un’alba tiepida sotto un cielo ancora come sospeso, ancora incerto nel delineare i contorni, svelare rocce e anfratti, disegnare compiutamente il territorio intorno a te. Sempre e comunque l’avanzare sicuro di un corpo che fendeva le onde, lasciava una striscia dietro di sé, scompariva nascosto da una roccia, riappariva in mare aperto. Metodico, sicuro, inarrestabile.
«Il nuotatore come L’Unico di Stirner». Il titolo campeggia in stampatello sulla copertina azzurrina che raccoglie una manciata di fogli pieni di citazioni, scalette, rimandi, una delle tante (troppe?) cose pensate e mai scritte di cui si compone la mia vita. L’edizione che recupero nella mia libreria è del 1970 e quindi quell’abbozzo risale al tempo dei miei diciott’anni, quando Stirner brillò per una stagione e poi si spense come un malinconico fuoco d’artificio. La sua anarchia doveva sembrarmi allora una via d’uscita rispetto a una destra asmatica e a una sinistra asfittica, il tentativo di salvare l’individuo dalle grinfie della ragion di Stato e della solidarietà di classe. Per certi versi il preludio adolescenziale, retorico e imperfetto, di quella figura jungeriana dell’Anarca che un decennio dopo ne avrebbe preso il posto, sia pure nella visione meno statica e contemplativa di chi ancora si illudeva che le idee potessero far muovere il mondo…
Cenere intellettuale, insomma, da cui quel titolo però mi sembra immune, semplice e assertivo, una dichiarazione di intenti, mi accorgo ora, che ha finito con l’essere parte di me. Fra i tanti brani di Stirner trascritti, vale ancora la pena di riportarne uno: «Ogni vagabondaggio dispiace al borghese, ed esistono dei vagabondi dello spirito che, soffocati sotto il tetto che ospitava i loro padri, vanno a cercar lontano più aria e più spazio. Ciò che loro manca è quella specie di diritto di domicilio nella vita che è assicurato da un commercio solido, da mezzi di sussistenza garantiti, da rendite stabili». Vagabondaggio spirituale è una definizione che si addice perfettamente all’idea del nuotatore. Evoca quelle giornate senza tempo in cui si entra nell’acqua senza sapere dove si andrà, la mente sgombra da ogni preoccupazione, pigramente interessata al paesaggio circostante, alla regolarità delle bracciate e della respirazione, facilmente appagata dalla semplicità con cui il corpo penetra in un liquido di cui sembra fare parte, in uno scenario di perfetto silenzio e potenza, mille miglia lontano da ogni miseria terrena, a spasso nel giardino incantato della tua felicità.
In vita mia ho rischiato di affogare tre volte. Non sono tante ma bastano a darti l’idea di come potrebbe andare a finire. Naturalmente il mare non c’entra, si limita a essere sé stesso, e in fin dei conti la colpa è solo tua. Ti sei distratto un attimo, o ti sei intestardito nel voler portare a termine un tragitto e intanto il tempo è girato, il vento ha preso a soffiare, l’acqua a incresparsi, le onde a montare. Quella che era una superficie piatta comincia a farsi verticale, quella che era una bracciata regolare e distesa comincia a rompersi, impegnata com’è in un saliscendi sempre più serrato. La respirazione si fa difficoltosa, perché ogni volta che riemergi il mare ti schiaffeggia la faccia, assedia la tua bocca, preme per entrare. Guardi la costa e a un certo punto realizzi che non si avvicina, ma si allontana. Non avanzi di un metro, ma impercettibilmente indietreggi e più moltiplichi gli sforzi più ti rendi conto che non servono a niente. Il mare davanti a te si è fatto di spuma, creste bianche a ripetizione, il tuo corpo pesante, e ora non stai più nuotando, ti limiti a galleggiare e a svettare con la testa cercando di capire cosa fare, come venir fuori da questo inferno che ti è piombato addosso. Ancora non hai paura, la paura totale e finale che ti svuota d’ogni forza, ti succhia via il pensiero e ti consegna come una povera bestia da macello alla brutalità impietosa della natura; in compenso hai l’adrenalina a mille, ma sai che devi restare calmo, non sprecare energie, valutare attentamente le possibilità che hai di fronte. Come se ne esca non lo so, a meno di un deus ex machina che provveda per te… Può succedere che di colpo cali il vento, oppure si limiti a girare, spirando verso terra. Può succedere che intanto tu abbia cominciato a nuotare sott’acqua e non più in superficie. Ti sei reso conto che in profondità la situazione è ancora statica, la forza del mare ancora imbrigliata e così sforzi i polmoni il più possibile in un guadagno che ogni volta si riduce a pochi metri, sufficienti però a infonderti nuova speranza… Sia come sia, di colpo ti accorgi che il mare non fa più barriera ma si apre, che la terra ha smesso di allontanarsi, che la tua testa ha ripreso a sovrastare le onde e non a finirci dentro. Allora ti prende un’euforia che centuplica le forze, mista a un’ansia che tutto possa ancora cambiare, che si tratti di un attimo, o di una suggestione, e nuoti come non hai mai nuotato, concentrato nella gara più importante della tua vita, per la tua vita. E nuotando vedi il fondo del mare apparire all’improvviso, sempre più vicino, e capisci che ora puoi metterti in piedi, che per questa volta è andata, che il mare ti ha dato una strizzata, un avvertimento. Hai freddo, e la pelle d’oca. Prima di sdraiarti a riva vomiterai acqua salata e sentirai il cuore battere come un tamburo.
Due volte su tre è andata così. La terza è arrivato Ursus, il deus ex machina. In tutta la vita, diceva, suo padre aveva letto un solo libro, Quo vadis?, e ai tre figli aveva dato i nomi di Vinicio, Licia e, infine, Ursus. Il più piccolo dei tre era stato un ragazzino svogliato e un po’ bislacco, schiacciato da un nome a cui non corrispondeva, incapace di fare del male, ma capacissimo di fare fesserie a cui la disgrazia di quel nome comunque lo condannava: piccoli furti, vandalismi. A quattordici anni il padre l’aveva tolto da scuola e, tramite conoscenze, gli aveva trovato un posto su un mercantile, mozzo, ragazzo di fatica. La sera prima di imbarcarsi Ursus piangeva nel suo letto di casa le calde lacrime spaventate di uno della sua età e il fratello Vinicio, per consolarlo, gli aveva prospettato un futuro bellissimo fatto di palme e datteri, candide uniformi, mari di sogno, belle ragazze, incontri straordinari, tanto ozio e nessuna fatica. «Girerai il mondo, servito e riverito, mentre io me ne resto qui, in questa Civitavecchia di merda». Alla fine Ursus si era addormentato. Dalla partenza passarono alcuni mesi, poi un giorno arrivò a casa una cartolina, dall’Australia. «A Vini’, se stava bene in Marina…! Li mortacci tua». Per Ursus i marinai, lo diceva con affettuoso disprezzo, erano la categoria più stupida della terra: «Non vedono niente, non conoscono niente. In mare si annoiano, a terra s’imbriacano, ogni porto è uguale all’altro, al di là del porto non vanno mai». Per quarant’anni era stata la sua vita. Mi recuperò con il suo gommone un pomeriggio che il cielo si era fatto scuro e il mare grigio. Ero andato troppo al largo e non riuscivo più a rientrare. «E adesso sbrighiamoci a tornare», disse dopo avermi aiutato a montare, mentre me ne stavo ancora mezzo inebetito sul fondo del canotto. «Di coglionaggini per oggi basta la tua». D’estate viveva in due cabine sulla spiaggia trasformate in abitazione e deposito di attrezzi da pesca. Stava sempre in pantaloncini e canottiera, mingherlino e ossuto, in testa un berretto bianco e blu con la visiera. Lo chiamavano il comandante.
C’è una poesia del presidente Mao che si intitola Nuotando:
«Ho appena bevuto le acque di Changsha
e mangiato il pesce di Wu-chang…
ora sto nuotando nel grande Yangtze
mentre guardo il cielo limpido di Chu.
Lasciate che il vento soffi e le onde si infrangano…
molto meglio che una passeggiata senza meta nel cortile.
Oggi mi sento a mio agio perché
fu vicino a un fiume che il Maestro disse:
La vita, come le acque, scorre nel passato!
Le vele si muovono al vento,
le colline della tartaruga e del serpente sono immobili».
Nuotatori dittatori furono Mussolini, che però vi arrivò tardi e da autodidatta sviluppò uno stile laterale che era più uno stare a galla che un nuotare vero e proprio, e Saddam Hussein, emulo di Mao nelle sue traversate del Tigri e autore di proclami alle truppe in cui incitava al nuoto come antidoto all’invasione Usa. Un numero così ridotto non è sufficiente a stabilire una qualche correlazione ed è più la spia di singole eccezioni. Da Lenin e Stalin a Hitler, da Franco a Salazar, da Pol Pot a Castro, tutto nella costruzione della loro immagine pubblica si oppone a un rapporto del genere. Sono i sacerdoti o le divinità di una moderna religiosità, figlia della tecnica, dove il corpo umano è un’appendice da superare, oppure di una religiosità bigotta dove il corpo umano è un elemento da celare, uniformare, camuffare. Sul versante opposto, quello democratico, il panorama è ancora più scarno, di qua e di là dell’oceano. Di presidenti e premier podisti, golfisti, ciclisti, velisti, alpinisti c’è l’imbarazzo della scelta, i nuotatori brillano per la loro assenza. Disciplina individuale e autosufficiente, votata all’isolamento e alla solitudine, democrazia e totalitarismo sono due categorie che non la definiscono. Il nuoto è aristocratico.
***
Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald muore ammazzato in una piscina proprio mentre il suo sogno di far rivivere un amore del passato va a pezzi di fronte alle durezze del presente.
E in una piscina si apre e si chiude l’esistenza cinematografica del William Holden-Joe Gillis di Viale del tramonto. «Gli piacevano tanto. Ora ne ha una tutta per sé. Anche se gli è costata cara», è il commento del poliziotto che ne ripesca il corpo. Ancora Fitzgerald, in Tenera è la notte, racconta ascesa e declino di Dick Diver, tuffatore incomparabile, come il suo nome del resto ben indica, la cui rovina familiare coincide proprio con il suo decadere fisico di nuotatore: il carisma e la bellezza degli «happy few», dei «pochi felici», non sopportano incrinature, la volgarità di massa dei bagnanti che in acqua annaspano e al sole si bruciano è pronta a prenderne il posto.
Tuffatrice d’eccezione era Zelda, la moglie pazza e bella di Francis Scott. Una volta che le spalline la impacciavano, le slacciò, si liberò del costume, rimase un attimo in equilibrio sul trampolino e poi volò nuda in acqua. Vestita si tuffò nella fontana di Union Square, a New York, durante il viaggio di nozze, e nella piscina Pulitzer dell’omonimo giornalista miliardario. La «natatoria» del magnate americano W. R. Hearst si trovava invece in California, a San Simeon. Colonnati, spogliatoi, terrazze all’italiana, cippi confinari romani con su montati globi di vetro per illuminare, una copia della Fontana di Trevi commissionata a Cassou, a Parigi, per ornare la nicchia delle scalinate, fondali di marmo verde. Era all’aperto e faceva il paio, per magnificenza, con quella coperta che, sempre Hearst, si fece disegnare da Julia Morgan, allora architetto di grido: mosaici di Murano blu con stelle d’oro, il mausoleo di Galla Placidia a Ravenna preso per modello. Vi andavano a nuotare Johnny Weissmuller e Esther Williams, Aldous Huxley e John Gilbert, atleti, autori, attori del tempo. E fu imbattendosi nelle piscine di Los Angeles e quindi di Hollywood e di Beverly Hills che il pittore inglese David Hockney diede il via alla sua serie tematica, emblematica – per l’uso dei colori, degli sfondi, delle figure – di una certa filosofia di vita californiana, apparentemente raggiante nella fisicità e nell’ebbrezza delle tinte, eppure già minata dalla sua vacuità e dalla inesorabilità del tempo.
Intorno al mare, al nuoto, ai tuffi si muove un capolavoro italiano del dopoguerra, Ferito a morte di Raffaele La Capria, lì dove la bellezza panica della natura si trasforma in Nemesi per chi si è limitato a viverla ma non ha fatto nulla per esserne degno. E sempre La Capria ha dedicato al trampolino e alle sue evoluzioni, ai rapporti che intercorrono fra questo sport d’acqua e le costruzioni artistiche, un saggio, Letteratura e salti mortali, bizzarro quanto profondo. La Capria è una figura anomala nel panorama culturale italiano, che scarseggia di scrittori «bagnati», se si esclude il piccolo-grande e dimenticato Vittorio G. Rossi, e che al nuotare e a tutto ciò che a esso fa corona ha dedicato attenzioni distratte. Non sorprende, anche se dispiace, che Charles Sprawson, nel suo L’ombra del massaggiatore nero, uscito una decina di anni fa, non lo citi, visto che rappresenta comunque un’eccezione più o meno assoluta. Così come non sorprende che il titolo sopracitato, il cui sottotitolo recita «Il nuotatore come eroe», sia opera di uno studioso inglese. Perché solo un inglese può, nel corso di una vita, fare prima il bagnino in una vecchia piscina vittoriana a Paddington, poi, grazie a un trafiletto sul Times, il professore di «cultura classica» in un’università araba e, intanto, pensare e scrivere un libro simile, vera e propria Weltanschauung che ruota intorno alla figura del nuotatore. Al suo eroismo, al suo apparente anacronismo.
Nella Roma imperiale funzionavano ottocento piscine e di un ignorante si diceva che «non sapesse né leggere né nuotare». L’archeologo Winckelmann per cercare di esprimere l’idea greca della bellezza non seppe che pensare alla contemplazione di un mare calmo e al sapore dell’acqua pura. Laghi, stagni, fonti, fiumi testimoniavano una concezione pagana della vita nella quale l’uomo si avvicinava al divino purificandosi e ritemprandosi. «L’Aurora peplo di croco dalle correnti d’Oceano / balzò a portare la luce agli immortali e ai mortali, / e Teti giunse alle navi, portando i doni del dio», canta l’Iliade.
Con l’avvento del cristianesimo tutto questo finì. Dei quattrocento bagni turchi di Granada ai primi cent’anni della nuova religione ne sopravvisse soltanto uno. «La Chiesa popolò il mare di mostri immaginari e fantastici, lo status del nuotatore declinò gradualmente. Non era più un eroe, ma necessitava dell’intervento soprannaturale per sopravvivere». Sempre più si diffuse la figura del peccatore in balia delle onde, dei marosi, impossibilitato a salvarsi se non pentendosi (e non sempre…). Si associò il nuoto al piacere sessuale, e quindi lo si condannò. Rimasero, a testimonianza, in tutta l’area mediterranea e dell’Europa occidentale, le rovine di quelle piscine che ricordavano l’influenza civilizzatrice dei Romani. Fu allora che il nuotatore s’immerse per un’apnea di secoli, a cui avrebbe posto realmente fine solo l’Ottocento, interrotta qui e là da brevi boccate d’aria, giusto per non affogare: riti di propiziazione e di sacrificio lungo le rive dei fiumi, le sponde dei mari, fontane come unici sacri flutti, erotici e animaleschi, eterei e filosofici. L’Ypnerotomachia Poliphili, Il sogno di Polifilo, di Francesco Colonna, ne dà all’inizio del Cinquecento un’interpretazione bislacca e suggestiva a cui gli architetti idraulici del Rinascimento e del Barocco attingeranno a piene mani, rimodellando un substrato mitico e mitologico pagano al servizio della religione che ne ha decretato la scomparsa. Bambino, il giorno della Befana a piazza Navona la Fontana dei Fiumi del Bernini si stagliava fra bancarelle, tendoni, palloncini, i suoni delle ultime zampogne, la fiumana incessante di gente, a celebrare la potenza trionfante dell’acqua, «grandiosa sintesi», scrive il Simon Schama di Paesaggio e memoria, «di materia e spirito, natura e fede, culti pagani e culti cristiani: misteriosa trasmutazione di una cosmologia in un’altra». Elettrizzato, ma saldamente tenuto dalla mano di mia madre, avrei dato tutti i giocattoli, lo zucchero filato e la pasta di mandorle per nuotarci dentro.
Allorché i viaggi in Europa, l’interesse per il mondo classico, la passione per gli scavi, la riscoperta di Pompei, riportarono in voga il nuoto, i club edoardiani del Royal Automobile o del Corinthian di Londra presero a modello la lezione di Roma… «Nessuno può essere considerato un viaggiatore se non si è bagnato nelle acque dell’Eurota», il fiume simbolo di Sparta, sentenzierà la Quarterly Review. Da Byron a Swinburne a Trelawny, è tutto un susseguirsi di imprese natatorie, di correnti da sconfiggere, di golfi da attraversare, di istmi da tagliare, di letture felici su scogli, lastroni, rocce e spiagge. «Ho nuotato dal Lido fino all’estremità opposta del Canal Grande», scrive Byron all’amico Hobhouse, «oltre al tratto dal Lido all’ingresso (o uscita) del Canale […]. Sono stato in mare dalle quattro e mezzo – fino alle otto e un quarto – senza toccar terra o riposarmi». «Byron ha preso in moglie l’Adriatico», commenta qualcuno ironicamente.
«Se l’Adriatico si prendesse la mia sarei ben felice di sposarlo al suo posto», è l’ironica risposta.
Nei loro resoconti, in lettere, poesie, frammenti di memorie viene fuori l’immagine di nuotatori contro il mondo, contro l’odiata vita di tutti i giorni, come se il nuotare li alzasse a un’esistenza superiore che permetteva loro, nota Sprawson, «di rifiutare in blocco la realtà materiale, la rispettabilità, il sistema industriale e la società contemporanea». Sono uomini contro il proprio tempo, in cerca di qualcosa che la modernità non può più dargli. «Siamo tutti greci», griderà estatico Shelley. A Eton, ancora cinquant’anni dopo, gli studenti si tuffavano nel Tamigi da un punto chiamato «Atene» e il molo era detto «Acropoli».
Il Novecento vede un cambio di staffetta: agli inglesi subentrano i tedeschi. Tuffatore e nuotatore finiscono con l’esprimere «la tensione verso gli abissi faustiani della conoscenza, la perfezione fisica e spirituale, un ponte con il proprio passato mitologico, qualcosa di assolutamente intrinseco all’anima tedesca». Leni Riefenstahl ne farà gli eroi dei suoi Olympische Spiele. In Tonio Kröger Thomas Mann oppone l’antintellettuale Hans, che «nuotava come un eroe», «biondo dagli occhi azzurri», chiari «come l’acciaio», all’omonimo protagonista del romanzo, bruno, artista, insoddisfatto della sua cultura e che non vorrebbe essere ciò che è. Ma non ce la fa a essere ciò che non è. L’ombra del massaggiatore nero (il titolo è preso dal racconto omonimo di Tennessee Williams) unisce alla purezza espressiva e alla padronanza della materia l’atteggiamento pudicamente ironico di chi si identifica con ciò che scrive, ma sa benissimo che la nostra è un’epoca scettica che non tollera fedi troppo profonde e opinioni troppo radicali. Così, nel narrarci i suoi exploit sulle orme di Byron (la traversata dell’Ellesponto, quella della foce del Tago, a Lisbona) o il suo guidare per sedici ore nel deserto soltanto per poter nuotare nella piscina dell’hôtel Biltmore di Phoenix, in Arizona, disegnata da Frank Lloyd Wright, ha l’accortezza di minimizzarli, di sottolinearne gli aspetti più divertenti e più pedestri: i ritardi, gli impacci, i qui pro quo… Eppure si coglie lo stesso la felicità e la levità del nuotatore. Questo eroe in incognito di un tempo senza eroismi.