17 Settembre 2024

“Mi sovrasta il pensiero di Michelangelo”. Il Poeta e l’Artista: la “parentela” tra Gabriele d’Annunzio e il Buonarroti

Tra Ottocento e Novecento, Gabriele d’Annunzio è tra i protagonisti più discussi e seguiti del panorama internazionale. Le sue storie amorose spiccano sulla bocca di tutti e la sua arte così sensuale affascina e divide. Con le sue imprese eroiche entra nella Storia e con il suo erotismo incanta e tradisce. Intanto il suo animo si tinge di leggenda, e la sua personalità viene enfatizzata con motti del tipo «ardisco e non ordisco» e «memento audere semper»: tutto tranne che fascisti, poiché nati prima del regime e coniati durante il Volo su Vienna, la Beffa di Buccari e l’Impresa di Fiume.

Questa narrazione di sé arriva anche oltreoceano e fa discutere intellettuali di primo ordine. Basti pensare alle parole benevole e generose di Ernest Hemingway, sebbene ostile alla produzione dannunziana. Nel 1936, l’autore americano vede nel «rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso» l’unica soluzione al «bluff» di Mussolini.

Ma il Vate è tanto eroico quanto umano, tanto amato quanto odiato. Divino, a tratti immarcescibile, in un attimo risulta fragile e volubile. Le trincee e le imprese sfociano negli ultimi anni in un abuso annichilente della cocaina. Dall’alba al crepuscolo, dalla leggenda alla storiella da osteria. Il Comandante di Ronchi, l’«orbo veggente» della Grande Guerra, è lo stesso che passa le notti al Vittoriale, la sua ultima dimora principesca sul Garda, con una contadinella bresciana. Idolatrato dai legionari fiumani, osteggiato dal Duce, appare temuto e al contempo dimenticato.

I segni di questa duplice natura, sia olimpica che fallace, risalgono all’esilio che, non appena trentenne, si autoinfligge nel 1893. Il Poeta si definisce «animale di lusso», per cui «il superfluo è necessario come il respiro», e per questo è costretto a scappare da Napoli e dirigersi ad Arcachon, in Francia, inseguito dai creditori, dopo averli seminati a Roma anni prima. Lui, celebre per il Piacere pubblicato nel 1889, deve fare i conti con la dura realtà della vita, becera e rozza. E durante questa fuga inevitabile, decide di portare con sé tre beni di “prima necessità”: l’automobile, i suoi autografi e il busto di Michelangelo. Se fosse solo un curioso episodio, questo gioverebbe alla mitologica immagine del Vate finora raccontata: un uomo impregnato di eccentricità e narcisismo, immune dalla modestia – «il solo difetto» che si vanta «di non avere».

Eppure, per conoscere realmente la figura di Gabriele, quella più profonda, quella più intima, bisogna proprio partire da quel busto e interrogare il Buonarroti, il «creatore titanico». Molti tratti distintivi del Poeta, molti atteggiamenti e convinzioni, derivano proprio dall’artista fiorentino, sebbene tra loro vi siano quasi quattro secoli di differenza. Se c’è una cosa che da Michelangelo, d’Annunzio non eredita è proprio lo sperpero di denaro. Lo scultore guadagna tantissimi fiorini al servizio del Papa: li deposita nelle prime banche fiorentine e mantiene padre e fratelli, nonostante egli viva da guitto. Al contrario, d’Annunzio, tra prestiti e mancati pagamenti, è sempre al verde e chiede anticipi all’editore Treves con suppliche e promesse, spesso non mantenute.

Tuttavia, per d’Annunzio, Michelangelo è qualcosa di unico, fino a diventare una specie di nume tutelare. Il Poeta non si limita a lodare il Buonarroti: per lui esiste un legame viscerale, come una continuità ereditaria, un’«affinità elettiva».

Addirittura, il Poeta contempla le fotografie degli originali michelangioleschi per comporre le sue opere. Lui stesso lo ammette: mentre scrive la Laus Vitae, poema di oltre mille versi, «su l’altra tavola era disteso il ròtolo che recava la raffigurazione della Sistina». Perfino le donne dei suoi romanzi hanno le sembianze delle Sibille della Volta romana. Un esempio è Isabella Inghirami, protagonista del Forse che sì forse che no, romanzo del 1910 dedicato all’aviazione. Salendo lo scalone del Palazzo ducale di Mantova, «ella s’apparentava con le grandi creature di Michelangelo».

Anche nella solitudine d’Annunzio ritrova il suo artista, in una risonanza dolcissima. Il Poeta lamenta un malessere in una lettera ad Olga Ossani, che nel Piacere veste i panni di Elena Muti: «Posso dire come il Parente: non ho amici di nessuna sorte e non ne voglio». Gabriele, per esprimere la propria malinconia, riporta pedissequamente la confessione che Michelangelo fa al fratello Buonarroto mentre lavora a Bologna:

«Sto qua in grande afanno e con grandissima fatica di corpo, e non ho amici di nessuna sorte, e no’ ne voglio».

In un certo senso, sancisce con lui una comunione dello spirito.

Di particolare interesse è soprattutto la parola «parente». Nel corso della sua prolifica produzione letteraria, d’Annunzio desidera scrivere Buonarrota, un romanzo in omaggio a Michelangelo. Da un verso di un sonetto appena abbozzato, e destinato a quest’opera mai realizzata, conservato nell’Archivio personale del Poeta al Vittoriale, si ritrova il riferimento alla «parentela» ideale: «Disse, o madre, colui che m’è parente».

Ecco che d’Annunzio si autoincorona discendente del Buonarroti proprio per le motivazioni finora elencate, tanto che, al Vittoriale, gli dedica il Portico del Parente: una loggia in cui è conservato il busto del Buonarroti accanto a quello di Dante, e sotto la copia del Torso del Belvedere si legge «DIVO BONARROTO SACRUM». Si legge nel Piacere: «Bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte». E tutto il Vittoriale, oltre al Portico, è tempestato di calchi, di disegni e di busti michelangioleschi. In particolare, l’ala di Schifamondo, la nuova camera da letto del Poeta, purtroppo mai utilizzata e oggi parte del Museo d’Annunzio Eroe. Qui vi sono le copie dei Prigioni, della Madonna Medici e dell’Aurora.

Dell’Aurora si trova anche il busto nell’anticamera, di fronte al quale d’Annunzio morirà il 1° marzo 1938, e le fotografie nell’Officina, lo studio del Vate, e nella Veranda dell’Apollino. Talmente amata che d’Annunzio arriva a domandarsi in un suo scritto:

«S’è svegliata l’Aurora di Michelangelo? Ho sete, ma io non posso dissetarmi se non a quel seno scolpito».

Il Poeta, dunque, si sente tributario di una missione iniziata dall’Artista secoli prima: raggiungere la Verità attraverso l’Arte; ascendere ad una dimensione che valica notevolmente la finitudine comune, attraverso la «fatica» e il travaglio inevitabile.

Michelangelo è quell’antenato che mostra al discendente il trionfo del titanismo sulla mediocrità: l’artista sfida la pietra esattamente come d’Annunzio deve spremere la parola; il dolore diventa processo di sublimazione e di compimento. «La pictura e la scultura, la fatica e la fede m’han rovinato» scrive Michelangelo, ma alla fine scolpirà fino all’età di 89 anni e non tradirà quel percorso che «porta a quell’altezza» di cui sopra. Esattamente come d’Annunzio, che intende «aspirare al dio unico», rivelando che «l’agitazione dell’artista» deriva dalla «condanna di superare se stesso».

D’Annunzio rivede nel Buonarroti la sua stessa insoddisfazione, non essendo mai appagato da ciò che crea; riconosce la sua stessa tribolazione, necessaria per nobilitare l’arte; scorge il suo stesso desiderio di placare un animo tormentato, desideroso di rappresentare ciò che esiste ma che non si vede; e infine condivide il bisogno di vincere l’impossibile, per approdare finalmente in quella dimensione divina a cui ogni uomo tende. Infatti, nel Notturno il Poeta menziona l’affresco della Cappella Sistina, il capolavoro che più di tutti rasenta la perfezione e attesta la superiorità michelangiolesca. È descritta come un «prodigio», che «ha la perfezione compatta di un guscio d’ovo». La «sovrumana volta» è «una tra le materie più belle del mondo, nata intiera da un cervello maschio», le cui «spatolate» sembrano «tracce lasciate da un combattimento vinto a furia di lampi mentali».

D’Annunzio evoca spesso Michelangelo propria per questa disposizione dello spirito alla volontà di potenza. Sia in poesia che in prosa, il Vate talvolta riporta integralmente i versi dell’Artista fiorentino. In particolare, accade nel Libro segreto:

«Mi sovrasta il pensiero di Michelangelo, e quell’emistichio nella memoria vòlto alla mia significazione: “arder senza morte”».

Arder senza morte sono parole contenute nel verso finale del madrigale Spargendo gran bellezza ardente foco. Protagonista assoluta è una «gran bellezza»: questa sparge «ardente fuoco» e genera amore, ma che «calcina» il cuore dell’Artista come farebbe con il «sasso dur», al punto da renderlo «arso nelle parti interne». Tuttavia, Michelangelo desidera proprio questo incendio, e accoglie favorevolmente le conseguenti lacrime utili a spegnerlo. Poiché è molto meglio bruciare e poi morire per un amore distruttivo, piuttosto che «arder senza morte» in un fuoco che non ha fine e non annienta lo spirito.

E questo madrigale è antesignano dello spirito dannunziano. «La mia anima visse come diecimila» si legge nella Laus vitae, così come la domanda «perché non è infinito come il desiderio il potere umano?»: l’iperbolica narrazione di sé deriva dalla consapevolezza che nulla deve essere fuggito. Al contrario, l’esistenza deve trasformarsi in vita attiva, non contemplativa, al punto da espandersi il più possibile e diventare un capolavoro. Non si è mai sazi di giorni, di emozioni, di Vita, da addentare con ardore.

In un certo senso, nel Meriggio d’Annunzio sembra raggiungere il suo obiettivo: «La mia Vita è divina». Come «divino», del resto, è l’epiteto di Michelangelo.

Davide Chindamo

Gruppo MAGOG