“Ho conosciuto Rimbaud, un mercante francese. È instancabile”
Cultura generale
Lo hanno sempre saputo tutti, da Cervantes a Hemingway, che la Spagna è un enorme regione di luce, uno scintillio dorato sotto un azzurro intonso, primitivo. È dal delirio del cielo iberico che nel piccolo villaggio valenciano di Orihuela, il 30 ottobre del 1910, viene al mondo Miguel Hernández Gilabert, distillatore di luce, meteora poetica tra le più radiose e potenti della sua terra. Brillante epigono di quella generazione del ’27 che incendiò la letteratura spagnola del XX Secolo. Ci ha lasciato centinaia di scritti composti in punta di penna. Versi semplici e rotondi che sfiorano le pagine con una delicatezza impalpabile, sferoidale. In Spagna gli dedicano atenei, piazze e stazioni ferroviarie. In Italia – ovviamente – resta semisconosciuto: al di là dell’antica edizione Feltrinelli del 1962 (per la cura di Dario Puccini), non resta che un’unica piccola raccolta delle sue ultime poesie, medaglia al petto della Passigli di Mario Luzi, il Canzoniere e romanzero di assenza, a cura di Gabriele Morelli (Passigli, 2014).
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“Miguel el poeta cabrero” (come lo chiamano i suoi compaesani) è una creatura teocritea, scopre la potenza del verbo tra gli armenti di famiglia. Notato dal canonico Luis Almarcha, viene instradato alla lettura di Juan de la Cruz, Lope de Vega, Virgilio, Verlaine.
La notte del 31 Dicembre 1931, contro il volere del padre, molla gli armenti e lascia il suo borgo natio per spostarsi verso la Capitale. A Madrid, accede a ogni lettura possibile. Totalmente autodidatta, ha l’occasione di conoscere tutti, perlomeno quelli che contano, da Alexandre Vincente a Manuel Altolaguirre, da Pablo Neruda a Federico Garcia Lorca.
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Da questo momento in poi le sue mani non abbandoneranno più la penna, se non per imbracciare il fucile. È stato per eccellenza il poeta della guerra civile. Schierato con le forze repubblicane si arruola volontario nel quinto reggimento fanteria. Assegnato inizialmente a scavare trincee, gira poi per il territorio spagnolo. Scrive direttamente dal fronte, tra cadaveri, feriti e combattenti. Accerchiato dalla morte, declama i suoi versi d’amore e resistenza direttamente alle truppe. Un congedo per una diagnosi di anemia cerebrale gli darà l’occasione di andare in Unione Sovietica, nel 1937, presso il Festival del Teatro di Mosca. Sarà assieme ad altri scrittori iberici in qualità di rappresentante della nascente Repubblica Spagnola. Non si hanno dettagli sulla sua permanenza moscovita. A tanti piace pensare che abbia conosciuto le grandi penne che animavano i fermenti russi. Di certo sappiamo che una volta tornato in patria riprende il fucile e con esso la penna.
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L’evolversi repentino delle vicende si ripercuote sui suoi componimenti, al punto che le iniziali terzine incatenate cedono velocemente il posto al verso libero, svincolato, rimbaudiano.
La poesia è stata la sua più grande arma contro l’arroganza della tirannide franchista che, di lì a poco, prenderà il potere per trentasei lunghi anni. Strofe scritte e decantate tra i fischi delle pallottole nemiche. Un incoraggiamento ad andare avanti, verso il nuovo; in rivolta contro il potere che logora l’intelligenza. Sì, perché la vera poesia è qualcosa che sta molto lontano dal potere, ma che mantiene un rapporto intensissimo e amoroso con la potenza – la poesia, quando avviene realmente, è una lacerazione, uno squarcio, un vuoto in cui il linguaggio sospende tutta la dipendenza dall’antecedenza. È un sigillo di luce, un qualcosa che congela l’accento acuto del presente, di quel momento in cui le cose accadono. Un far impazzire il realismo, il realpolitick del pensiero in quanto tale. Il Generalissimo Franco ne era perfettamente al corrente, lui che tanto temeva i poeti. Il potere – sia esso democratico o tirannico – ha una paura innata del canto libero.
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Parallelamente alle vicende sul fronte, la vita di Hernández procede tra privazioni e sofferenze di ogni genere: la distanza dall’amatissima moglie Josefina, le fughe, la malattia, la fame e la morte per stenti del primogenito Salvador, conducono inevitabilmente il poeta all’indispensabile. Un ridursi a niente: pane duro, penna e moschetto. Non serve altro. Non c’è tempo per il decoro, per gli orpelli. Tutto deve essere decisivo, semplice, brutale. Nitidezza assoluta. Essenzialità estrema. Il poeta pulisce il verbo, lo raffina, lo lucida sino al limite della frattura, ponendosi lui stesso sull’orlo del crac. Tutte le grandi cose, o perlomeno quelle che contano, nascono da dei processi di sottrazione. Sempre a levare. Il verbo passa per i ferri del poeta: cesoie, bisturi e smerigli di ogni genere. Il costrutto viene limato dall’inutile e, leggero, torna alla sua natura aerea, alla sua essenza di luce; diamanti flawless (mi perdoni la gemmologia!) senza nessuna impurità, in grado di moltiplicare la luce.
Sul piatto della bilancia è in gioco sempre la vita. Fetta per fetta, pezzo per pezzo. Questa è l’unica discriminante. La bellezza, quella vera, si paga a caro prezzo. I pescatori di perle l’hanno sempre saputo che per portare in superficie i pezzi più belli devi trattare con l’ipossia, con l’enfisema, con la morte.
E così quelle mani callose da contadino che sanno mungere il latte dalle bestie, quelle mani salde da soldato in trincea, sono in grado di stendere dei versi di una lucentezza sconcertante.
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Anche Miguel fu luce. Velocissima. Luce pura, zenitale, rubata al sole di Spagna, alle sassaie di Orihuela. La sua penna è stata un dardo infuocato sulle vicende di una Spagna fratricida e sanguinaria. Ha cantato l’amore – quello per i figli e quello per la sua amata –, l’erotismo della natura, la sensualità degli elementi, la luce zenitale della sua terra, il mistero, il silenzio. Ha ricamato in versi la vita ma – soprattutto – ha scandagliato e affrontato la morte: tra le fucilazioni sommarie, le cataste di cadaveri in trincea e tra le mura di casa. La perdita del primo figlio segnerà in maniera ossessiva i suoi ultimi anni di vita.
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Nel 1939, le truppe falangiste sfondano le resistenze madrilene. Inizia la disfatta per i Repubblicani. Il Nostro tenta di scampare al patibolo franchista con una rocambolesca fuga verso il Portogallo. Intercettato dalla Guardia Civile, farà il tour delle varie carceri spagnole sino al capolinea di Alicante. Nonostante la celebre frase di Francisco Franco “otro Lorca no”, Hernández non morì fucilato, ma – ancor peggio – dimenticato nel buio di una cella. La sua fiamma divenne sempre più flebile, la sua luce vacillò sino a spegnersi del tutto quel 28 marzo 1942. Aveva 31 anni. Passò gli ultimi giorni in totale solitudine, stroncato dalla fame, dalla tubercolosi e dal tifo. A noi il ricordo.
“Tutto qui; al di là c’è il vuoto”
Martino Cappai
*Editing di Matteo Fais e Luisa Baron
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A seguire alcune poesie tratte dal citato Canzoniere e romanzero di assenze:
Io non voglio altra luce che il tuo corpo sul mio
Io non voglio altra luce che il tuo corpo sul mio:
chiarità assoluta, trasparenza rotonda.
Limpidezza il cui grembo, come il fondo del fiume,
con il tempo si afferma, con il sangue si affonda.
Che lucenti e durevoli materie ti hanno fatto,
oh cuore pieno d’alba, mia pelle mattutina?
Io non voglio altro giorno che non sia dal tuo seno.
Il tuo sangue è il domani che giammai si conclude.
Solo il tuo corpo è luce, sole: il resto è tramonto.
Io non vedo le cose che al lume del tuo volto.
Altra luce è lo spettro, niente più, del tuo passo.
Il tuo sguardo insondabile mai si volge a ponente.
Chiarità senz’alcun declino. Somma essenza
del lampo che non cede né abbandona la cima.
Gioventù. Limpidezza. Chiarità. Trasparenza
che fa vicini gli astri di fuoco più lontani.
Chiaro il tuo corpo bruno di fiamma fecondante.
Erba nera l’origine, erba nera le tempie.
Un sorso nero gli occhi e lo sguardo distante.
Giorno blu. Notte chiara. Ombra chiara che vieni.
Io non voglio altra luce che l’ombra tua dorata
dove spuntano anelli di un’erba che dà ombra.
Nel mio sangue, con fede dal tuo corpo incendiato,
per tutto il tempo è notte: per tutto il tempo è giorno.
Miguel Hernández