Trovo questo piccolo libro, buono da custodirsi in tasca, in una libreria dell’usato a Milano, per caso arriva nelle mie mani. Federigo Tozzi che dell’amore, o meglio del desiderio, ha scritto meravigliosamente nel suo “Con gli occhi chiusi” qui ci propone tanti tagli diversi di questo cuore che sta sempre a pulsare, contro ogni previsione. Sono quattordici novelle pubblicate però postume nel 1920, stampate da Passigli come L’amore.
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“Anche quest’anno conto e spero di tornare a Maccarese e al Soratte. Quanto alla letteratura, me ne sto più lontano che è possibile; anzi, non voglio mai che se ne parli in mia presenza, né meno dagli amici”; la prima novella “Campagna romana” termina così. La letteratura è cosa troppo intima, privata, è una voce che chiama senza sosta, è una febbre che non fa dormire, da cui ogni tanto bisogna allontanarsi, sperare nell’estate, in quella vera delle campagne romane per tentare una tregua qualsiasi nella vita.
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Le novelle di Tozzi sono irriverenti, attraversano le situazioni amorose più scomode e anche più insolite, se siete fedeli alla morale. Allora vedrete come in “L’amore” c’è un ragazzo che ama una donna solo guardandola, che aspetta che esca per la passeggiata tutti i giorni solo per vederla camminare. Un ragazzo che “In certi casi, la solitudine allunga le distanze all’infinito”, perché la separazione del corpo rende il nostro desiderio quasi eterno. Il desiderio dell’amata che ci consuma nella solitudine allo stesso tempo è preservato, è protetto dal presente. Nel segreto possiamo possederlo, farlo ancora nostro e per questo renderlo immutato, sicuro.
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Sempre sul concetto di eternità del desiderio in “Una sera presso il Tevere” Tozzi ci spiega come si infrange uno dei comandamenti: desiderare la donna altrui. “Avete mai amato, soltanto a sentirne parlare, le amanti degli altri? Io sì. (…) Nate, per me, dalle confidenze de’ miei amici, hanno cessato di esistere sempre troppo presto; ma più presto di loro finisco anche quasi tutte le cose reali, che sono state nostre o che ci hanno interessato. Quelle donne, invece, anche se ce ne ricordiamo dopo tanto tempo, pigliano sempre un senso di eternità”. Ecco che quindi ciò che possediamo smette di esistere poco dopo, quel che resta invece è sempre una tensione sacra e immutata verso ciò che per natura appartiene ad altri e non possiamo interessarcene davvero. Dell’amore non possiamo che sperare che ci sfinisca, che si consumi il desiderio dentro la bocca dell’amato, e poi più niente, cessi di esistere se un poco ci è appartenuto.
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Ne “Il vino” troviamo Teofilo Bettarini che beve la sera per “mandare via la tristezza dei quarant’anni”, non frequentava le bettole ma da scapolo dignitoso beveva a porte chiuse, in camera sua. Il bicchiere doveva sempre essere pieno perché il colore dentro al vetro simulasse una compagnia. In una sera che aveva bevuto fino a non ricordarsi più cosa aveva pensato poco prima, visto dagli altri condomini in quelle condizioni, promise che avrebbe smesso di bere e che avrebbe sposato la figlia di uno di questi. Lo scapolo quarantenne convinto ora è chiuso nella promessa fatta, dedito alla parola data che minaccia di trasformarsi in fatto. Ma il vino non aveva del tutto alterato la realtà, aveva solo sbagliato bersaglio. Era la proprietaria di casa sua l’amore segreto, segreto quasi anche a lui. Tozzi ci mostra come a volte il desiderio si annidi nelle occasioni: fino a poco prima pareva assente, poi l’occasione fa l’uomo innamorato, oppure ladro.
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“La mia amicizia” è una novella di richiesta di aiuto disperata: Beppe il protagonista sente suonare il campanello di casa sua ma non c’è nessuno, si spaventa a tal punto che chiede a una coppia di amici sposati di poter vivere con loro. L’invasione è strana e scomoda, l’amicizia è un sentimento che prevede la distanza, esiste solo se c’è il confine, se l’altro davvero non si fa troppo vicino. Beppe finisce in manicomio per cinque anni, e ora che è uscito non ha più voglia di vivere “è come se io fossi stato di legno e ora fossi bruciato; e restasse di me soltanto la possibilità di concepirmi. Non penso né meno, e comincio a gustare sempre di più la mia idiozia. Perché l’idiozia è una cosa dolce”. Il rifiuto impone la condanna, è un marchio a fuoco che brucia sulla pelle, squaglia gli ultimi residui di dignità. Chi viene rifiutato resta ai margini dell’amore, si sente espropriato di quel sentimento, della sola capacità di provarlo e restituirlo. Allora Beppe ci confessa che “non avrei mai creduto che, alla fine, potessi vivere a modo mio, così separato dagli uomini e da tutto il resto; e credo alla mia esistenza soltanto quando sogno.” L’esistenza si fa sfumata quando il confine con l’altro è talmente lontano da sembrare solo un ricordo, le altre vite sono altrove, altrove l’amicizia, l’esistenza procede solo quando concepiamo di esistere nella nostra testa, solo quando il pensiero si fa presente, oppure quando il sogno ci prende.
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Tozzi in queste novelle ci apre le porte all’amore coniugale, a quelle coppie perfettissime che sembrano destinate e incastrarsi così bene che ci si chiede se non siano lo stesso corpo, da quale arto si dirami l’altro. L’amore dentro l’abitudine, o l’abitudine dentro l’amore? In “Elia e Vannina” Federigo Tozzi è impietoso, descrive una giovane coppia ai primi anni di matrimonio: tocco dopo tocco entrambi si depositano uno sull’altro come lo sporco, le pentole si incrostano e quella usura è piacevole, diventa un ingrediente necessario al piatto portato in tavola. “Invecchiando quell’egoismo era indispensabile a loro quanto il respirare. (…) Era per lui la stessa cosa tanto amare la moglie quanto il medaglione. Egli aveva soltanto lo scrupolo di essere infedele ad esso o a lei. Non altro”. Tozzi ci mostra che quando diveniamo parte dell’altro e l’altro parte di noi in realtà ci stiamo mangiando, questo è un amore cannibale, non è amore di condivisione. Ci si ciba a vicenda, si diventa cose che respirano, che mangiano, uguali al medaglione che sul petto si alza per il dovere inconsapevole del torace.
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In “La vendetta” abbiamo la descrizione della convulsione intima che prende chi prova il desiderio di vendetta. Sempre di desiderio si tratta, sempre di un sentimento che scava nel profondo come l’amore, che ha radici miste alla passione, che sprofonda nel divario tra volontà e desiderio. “Una volta mi sono sentito invece invaso da una vera vertigine, che era più forte della mia volontà: sono stato sul punto di commettere il delitto, quasi provando il principio di uno svenimento, che mi avrebbe dato giusto il tempo di agire.” Ma togliete il titolo e togliere “commettere il delitto”: potrebbe essere l’esatta descrizione della folgorazione d’amore, del così detto colpo di fulmine. L’amore è una vertigine, è lo spostamento dell’asse del baricentro che spacca la volontà, ci rende inabili, deboli e allo stesso tempo ci fornisce comunque un secondo per agire, per scegliere di non saltare quel baratro. Tozzi pone in questa novella il limite esatto tra amore e vendetta, tra amore ed ossessione. Vince sempre la seconda, la seconda porta alla mania, è comunque un pensiero sicuro, vorticoso dentro l’io.
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“Roberto e Natalia” è una delle novelle più disincantate di questa raccolta. Cinica fino al disgusto, eppure drammaticamente vera. Qui Tozzi ci riporta l’amore spolpato della carne, l’amore ridotto all’osso della sincerità. Amiamo chi ci capita davanti, non scegliamo mai nessuno veramente perché non abbiamo tutte queste possibilità. Gli incontri ci obbligano a una resa, prendere o lasciare. Illudersi sempre. Ma Roberto non si illude, illude Natalia, ma con sé stesso è onesto fino all’attrito. Parole così ci disgustano ma le abbiamo pensate anche noi almeno una volta: “E perché io l’amo adesso; se qualche anno fa io non la conoscevo nemmeno? Quand’era bambina, la sua esistenza non aveva niente a che fare con me. Che mi piaccia, non basta perché io l’ami. Io non amo né meno me stesso; ma soltanto le cose che io penso, quando non si riferiscono a quelle presenti; quando non so né meno che cosa siano e non saprei nominarle. (…) Natalia non era che l’essere scelto tra tutti gli altri; l’essere che gli era capitato; e non di più”.
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Federigo Tozzi in queste splendide novelle ci descrive l’amore in tutte le sue molteplici e “inusuali” forme. Nelle variatio più interessanti, più inconfessabili. Tozzi è capace di entrare nella serpe in seno del desiderio, di muoversi come questo rettile a terra, duro nel suo scheletro, con le coste che strisciano sulle squame, farsi microscopico e infilarsi nelle orecchie, risalire al cervello. Il desiderio che come una serpe ci si pianta dentro, sibila con la sua voce, ci fa venire la febbre.
Clery Celeste