15 Settembre 2023

“Dove sono finito io? Ha senso chiedersi questo?”. Nota a piè di pagina (bianca)

Il desiderio fortissimo sarebbe quello di lasciare cadere tutto: è quello che si dice nello zazen, nel momento in cui si entra nella pratica, cioè continuamente – perché lasciare cadere tutto una volta per tutte è impossibile, è idealismo puro. Anche in poesia lo è, anche nel mio rifiuto di pubblicare, praticamente inutile e che non interessa, giustamente, nessuno. Eppure.

Eppure ci si rende conto, anche dopo alcuni problemi di salute, di quanto gratuito sia ogni gesto, pure quello rabbioso e puerile del rifiuto. Identificarsi con un vuoto che occorre continuamente ribadire è comunque un controsenso ridicolo, ma ho voglia di ridere e di farmi anche tenerezza: dicendo questo di me, sento di essere spietato con me stesso, almeno in questo, proprio perché mi faccio tenerezza – e lo accetto. Doverlo dire e ribadire è ancora risibile, ma chi se ne importa? Eppure occorre anche sapere che lasciare vuoto il proprio giardino è quasi l’opposto di lasciarlo incolto, e vale pure per la pagina: è una fatica dura tentare questa sorta di leggerezza.

Del resto, ciò che viene prodotto è un prodotto, oggi più che mai, anche la poesia. Non volersi assoggettare a questa catena di montaggio della produzione artistica non è certo umile, non è certo la salvezza, non è certo un insegnamento. Ma la coazione a ripetere di questa economia del prodotto molto spesso viene confusa con l’ispirazione: si passa quindi da un luogo comune romantico ad un luogo comune economico-commerciale. Tale coazione o ispirazione comunque rimane: come direbbe Lacan, “non smette di non inscriversi”, ed è questo il lavoro duro.

In questa catastrofe, in questa tempesta di comunicazione continua e senza scampo, in questa dissenteria del voler esprimersi, che ruolo ha veramente la poesia? Che ruolo o non ruolo il silenzio e il rifiuto? È un partecipare alla tempesta comunicativa? Siamo così bisognosi di significati e di “sentimenti”, di “eventi” e di “notizie”, tanto da doverne produrre anche con la scrittura o con il silenzio? ancora?

Tornare a domande semplici perché quasi impossibili da evadere: perché andare a capo? Perché scrivere in versi? Stare nella domanda, stare nella domanda: cioè stare nella chiamata.

Perché prostituirsi ad ogni possibilità di pubblicazione e di presenza pubblica? Ma anche: perché vendersi alla solitudine e al silenzio urlato? Perché? Non sento più queste domande irrisolte nella dinamica di un testo poetico, non le sento quasi più.

Devo tornare a leggere i padri del deserto, i grandi maestri ortodossi, lantico sempre più contemporaneo. Dove sono finiti, gli altri amici che incontravo quando scrivevamo? Dove sono finito io? Ha senso chiedersi questo?

In fondo vorrei entrare in un ordine dove il silenzio e la solitudine fossero le più potenti modalità di comunicazione, dove la parola fosse dono domenicale e basta, di pochi, preziosissimi minuti – mentre il resto della settimana solo silenzio e ascolto.

Andrea Ponso

Gruppo MAGOG