“In una diaspora celeste”. Dialogo con Elisa Longo
Poesia
antonio coda
Il verso più bello di Eugenio Montale non è di Eugenio Montale. O quasi. Prendete La primavera hitleriana, quinta parte (“Silvae”) de La bufera. La si studia – si dovrebbe – pure a scuola. Si rievoca, con un repertorio di immagini potenti, che danno l’idea della cristallina futilità della Storia (“Folta la nuvola bianca delle falene impazzite”), della fragilità dell’uomo, della furia cosmica, la visita di Hitler a Firenze (“è passato a volo un messo infernale”), ricevuto da Mussolini il 9 maggio del 1938. La poesia, d’un tratto, ha il nitore dell’amuleto: la figura centrale è Clizia – che nel regesto mitico è la ninfa che si fa girasole – “che il non mutato amor mutata serbi”. Eccolo, il verso micidiale, memorabile. Clizia (Irma Brandeis, nell’agiografia montaliana) pur mutando – dacché tutto muta – serba l’amore immutabile, fino al sacrificio.
L’esergo che avvia La primavera hitleriana, dischiude il senso remoto di quel verso. Montale attinge a una poesia attribuita a Dante dal codice Ambrosiano O 63, dedicata al rimatore trecentesco Giovanni Quirini. Il sonetto fa riferimento a Clizia, appunto (“Né quella ch’ha veder lo sol si gira”: è il verso ricalcato da Montale in esergo), che “’l non mutato amor mutata serba”. Inglobato nel breve poema, l’apocrifo dantesco acquista un potere mistico, misterico, “Montale, nel suo riecheggiamento che è anche la migliore possibile chiosa, coglierà la potenzialità di platonica e mistica sublimazioni in queste parole per molti versi enigmatiche”, scrive Matteo Veronesi. Raffinato lettore di Dante, Montale – per dire dell’uomo e della sua felina ritrosia – si scherma, scrivendo al grande grecista Manara Valgimigli, il 3 settembre 1954 (La bufera è pubblica nel ’56), che l’aveva invitato “a tener una lectura Dantis”: “Per dirti tutto, figurati che non posseggo nemmeno una Divina Commedia, e fin qui poco male, si potrebbe rimediare; ma che non ho in testa quel tanto d’impressioni, osservazioni, opinioni personali che mi permettano – in qualche singolo canto di Dante – di far qualcosa di diverso da altri lettori e commentatori” (in: Eugenio Montale, Non posseggo nemmeno una Divina Commedia, De Piante, 2016).
La poesia amata da Montale (“Nulla mia parve mai più crudel cosa”) è accolta come reperto lirico numero XVI nel canzoniere di “Trentuno poesie attribuite a Dante”, Folli pensieri e vanità di core, allestito da Veronesi per Edizioni Mondo Nuovo (con una prefazione di Rossano De Laurentiis). Poeta (“uno degli esiti più convincenti della poesia contemporanea”, ne scriveva, anni fa, Giancarlo Pontiggia), traduttore (da Seneca e Francis Jammes, tra gli altri), intellettuale ‘fuori dai giochi’ (dunque dai gioghi), nell’anno dantesco Veronesi s’insinua nel Dante minore, nel quasi-Dante, tra gli specchi delle attribuzioni, nel groviglio del probabile.
“A volte emerge, da questi testi marginali e problematici, un Dante diverso; una sorta di altra faccia, di zona d’ombra del poeta, che in questi versi parrebbe ora immergere ed intingere il suo discorso amoroso in atmosfere torbide, cupe, ferali, ancor più dense di quelle che velano le ‘rime petrose’, ora connotare il suo stesso poetare, il suo stesso ‘amoroso canto’ come strumenti, e insieme espressioni, di traviamento e di ossessione, infine confermare quell’elemento magico ed esoterico che è effettivamente presente in Dante, tutt’altro che mera allucinazione interpretativa o allettante illazione”. Scritta così – questo, va da sé, è Veronesi – la raccolta assume il fascino corrusco, rubino, del canzoniere in assenza, della promessa sfumata, della verità in bilico, obliqua.
Le poesie sono commentate, riconducendo alcuni versi a passi autenticamente danteschi. Così, questo canzoniere può essere letto per il gusto, e basta – ed è sufficiente –, o per sana curiosità, per andare oltre il seminato, fuggendo la cagnara delle celebrazioni dantesche. Se ne può trarre un bestiario – “L’aquila ardisce, mirando la spera,/ di riguardar nella rota del sole”; “Muovesi dalla parte d’Aquilone/ il serpentel che diverrà ’l tuo male” –, una mappa astronomica, oppure scardinare singoli versi, come cartigli che suggeriscano viaggi in altri mondi – “Così m’appaga amor, ch’io vivo all’ombra”; “Tu sei al mentire, et io son giunta al vero”; “Sì che discopre ogni oscuritade” – e ordire cesure, cessioni, una clausura verbale. E, come ha fatto Montale, farne la miglior chiosa, dilatando, da un singolo verso, una foresta poetica.
***
Nulla mi parve mai più crudel cosa
di lei per cui servir la vita lago,
ché ’l suo desio nel congelato lago
ed in foco d’amore il mio si posa.
Di così spietata e disdegnosa
la gran bellezza di veder m’appago;
e tanto son del mio tormento vago,
ch’altro piacere a li occhi miei non osa
Né quella ch’a veder lo sol si gira,
e ’l non mutato amor mutata serba,
ebbe quant’io già mai fortuna acerba.
Dunque, Giannin, quando questa superba
convegno amar fin che la vita spira,
alquanto per pietà con me sospira.
Proposta a Giovanni Quirini espressamente attribuita a Dante nel codice Ambrosiano 0 63