20 Agosto 2024

Ai mega-musei, contenitori universali dell’arte, preferisco i musei-scrigno. Un esempio: il Musée de la Vie Romantique

Forse nessuna città come Parigi pullula di musei non solo dedicati alle arti figurative e applicate in ogni loro declinazione ma anche alla vita delle lettere, nonché ad ogni possibile aspetto della cultura e dello scibile umani. Quel capolavoro imprescindibile per una formazione culturale che è Parigi accoglie la massima concentrazione al mondo di musei e di luoghi letterari; le pietre stesse della città parlano e trasudano letteratura, facendo di Parigi, come disse Jean Giraudoux, i cinquemila ettari di mondo dove si è più pensato, parlato e scritto. 

Le orde di turisti mordi e fuggi assaltano normalmente gli highlights della capitale francese, con i canonici pellegrinaggi al Louvre o al Musée d’Orsay, pellegrinaggi da mal di testa e da indigestione artistica, in cui la quantità del cibo spirituale ingurgitato ne vieta ogni più profonda metabolizzazione. Come essere in un gigantesco banchetto con ogni sorta di prelibatezza a disposizione e doversi a forza rimpinzare in una grande abbuffata artistica che alla fine può solo generare nausea.

Ovunque nel mondo i mega musei concepiti come contenitori universali dell’arte, che siano il Louvre o il British o il Metropolitan, finiscono, pur nella loro meraviglia, per sopraffare il visitatore e schiacciarlo. Se non si gode della fortuna di una dilatazione dei tempi e della possibilità di diluire la propria visita in decine e decine di volte, indugiando con i propri tempi di lettura sulle opere, anziché subire passivamente quelli delle audioguide, ben poco si riuscirà ad estirpare da simili luoghi, concepiti all’origine con funzioni politiche e di rappresentanza e destinati ad accogliere il più eterogeneo e fantasmagorico bric à brac dell’arte universale, da Ninive alle avanguardie del Novecento.

Ecco perché la predilezione dei veri amanti dell’arte e delle cose della cultura va piuttosto ai piccoli musei, scrigni concentrati e raccolti di quadri, oggetti, documenti che meglio mettono a fuoco determinati àmbiti e meglio consentono un approccio meditativo e introspettivo al tutto. Anche se Parigi è essa stessa un enorme museo letterario a cielo aperto, i veri e propri musei cittadini con tale indirizzo che io ricordi sono solamente tre: il Musée Victor Hugo, nella perfetta geometria mandalica della Place des Vosges, il Musée Balzac a Passy e, nel Nono Arrondissement, l’incantevole Musée de la Vie Romantique di rue Chaptal.

I musei dedicati a Hugo e Balzac sono entrambi indimenticabili e restituiscono bene il senso dell’opera e della vita dei due sommi scrittori, con molti particolari commoventi come, nel caso del secondo, l’uscita segreta da cui l’autore della “Comédie Humaine” si defilava dai propri pressanti creditori.

Il forse meno noto Musée de la Vie Romantique serba il medesimo incanto, fondendo insieme il dato letterario e quello artistico-figurativo e ricreando forse come nessun altro luogo parigino l’irripetibile rigoglio culturale di alcuni decenni chiave dell’Ottocento. 

Ai piedi della collina di Montmartre e prima che la geografia artistica di Parigi si trasferisse, appunto, prima nella Montmartre propriamente detta e poi a Montparnasse, il quartiere della Nouvelle Athènes fu il massimo epicentro della cultura cittadina. Già “Quartier des Porcherons”, dal nome di una ricca famiglia che vi possedeva numerose abitazioni in epoca medievale, a seguito dell’incalzante urbanizzazione ottocentesca subì radicali rivolgimenti architettonici assumendo l’aspetto che pressappoco ancora riveste e con i luoghi salienti della sua fisionomia ancora in sostanza immutati: la chiesa neoclassica di Notre Dame de Lorette del Lebas, il revival neogreco di molti edifici che lo fece ribattezzare Nouvelle Athènes, il negozio di colori del Père Tanguy ritratto da Van Gogh e in cui si recavano fra i molti Monet, Renoir e Pissarro. 

Fulcro del quartiere, popolato nell’Ottocento dalle “lorettes”, è la squisita Place Saint Georges di forma circolare, in cui spiccano l’una di fronte all’ altra le sontuose abitazioni di Adolphe Thiers e della Paiva, al secolo Esther Lachmann, la più famosa cortigiana della Parigi del tempo, ridondante di statue e motivi neogotici e neorinascimentali, 

Poco distante, in una sorta di isola verdeggiante e quasi bucolica, come scorporata dal brulichio metropolitano, sorge il silenzioso Musée de la Vie Romantique di rue Chaptal. Un silente giardino con pergolati di glicine conduce all’edificio principale, l’Hotel Scheffer-Renan, tipico esempio di hotel particulier dell’età della Restaurazione, di fronte a cui spiccano due ateliers, uno al tempo adibito a salone, l’altro a laboratorio pittorico. 

Questa straordinaria capsula del tempo, costituita nel 1982 come Musée Renan-Scheffer e, nel 1987, con l’attuale denominazione di Musée de la Vie Romantique, è uno dei più ammalianti crocevia fra le arti e le lettere che si possano visitare, espressione di un’epoca come quella romantica in cui i registri espressivi fra le varie arti sembravano gareggiare fra loro e talora compenetrarsi e fondersi, come in una sorta di armonica sinestesia estetica. L’edificio fu l’abitazione e l’atelier di Ary Scheffer, pittore franco-olandese assai vicino a Luigi Filippo e di cui fu anche ritrattista, e la cui opera, per lo più classificata con il bollino dell’ufficialità, ha tuttavia interessanti increspature mistiche, nelle sue numerose tele religiose, e pienamente romantiche, con numerosi quadri ispirati a Dante, al Faust di Goethe, a Byron, a Walter Scott e al grande serbatoio dell’immaginario romantico in genere.

George Sand, Dendrite, Musée de la Vie romantique

Meno ingessato e monodimensionale di come la storia dell’arte tenda talora a presentarlo, Scheffer accoglieva nel suo composito repertorio figurativo il Medioevo filtrato alla luce della fantasia romantica, la mitologia antica, temi orientalistici, elementi attinti al folklore fantastico che immediatamente richiamano l’ associazione alla Sinfonia fantastica, sommo capolavoro di Berlioz e del Romanticismo musicale francese, in cui le vertiginose e incalzanti reveries culminano nella visione notturna di un sabba infernale. L’edificio ospitava ogni venerdì sera dei salons che accolsero, fra i moltissimi, Chopin (che vi si esibiva spesso suonando un piano Pleyel) e George Sand, Liszt (sia Chopin che Liszt furono anche ritratti da Scheffer), Ingres, Delacroix, Rossini, Lamartine, Dickens, Turgenev, Gounod, Pauline Viardot, Ernest Renan (che aveva sposato la figlia di Scheffer, Cornélie).

“Si jamais nous avons senti les liens mystérieux qui unissent les deux arts, c’est dans cet atelier”, scriveva il critico d’arte Charles Blanc, anch’egli frequente ospite delle serate di Scheffer, rilevando proprio l’intreccio che venivano a formarvi arti parallele ma distinte, unite qui in un’unica temperie espressiva in una sintesi quasi portentosa. 

Proprio Blanc rilevava come le musiche che si spandevano in quelle serate nelle stanze, che fossero un andante di Mozart o un notturno di Chopin o la voce della Viardot, aiutassero la comprensione delle opere d’ arte ivi prodotte o accolte, facendo passare nell’ anima certi dettagli e certi sentimenti che l’occhio da solo è inadeguato a cogliere; fuori da questo caso specifico, è proprio la musica a poter dettare i tempi di lettura di un quadro. “D’un autre coté, ces nobles lignes, ce luxe idéal repandu sur les toiles, préparaient merveilleusement l’esprit aux profondeurs et aux audaces de la pensée musicale”.

Si instaurava una circolarità estetica e sinestetica, con le forme pittoriche propedeutiche allo spalancarsi delle sonorità musicali e la musica che a sua volta, in una esemplare catabasi, definiva le condizioni e le tempistiche per la lettura di quelle stesse forme pittoriche. 

Era l’espressione compiuta della totalità dello spirito romantico, prima che esso si scindesse e perdesse il proprio baricentro nella schizofrenia della modernità.

In questi ambienti così meravigliosamente preservati non potrebbe tuttora essere fissato meglio, nella sua grandezza come anche in certe sue angustie, il mondo letterario, artistico e musicale dell’Ottocento francese nell’epoca della Restaurazione. Accanto ai quadri di Scheffer e di numerosi altri pittori, per lo più petits maitres tuttavia altamente evocativi di un’ epoca, spiccano in queste stanze opere e oggetti di estrema eterogeneità: i calchi realizzati da Clésinger della mano sinistra di Chopin e della mano destra della Sand, oggetti appartenuti alla Sand e provenienti dalla dimora di Nohant e i suoi strani e affascinanti acquerelli, le “dendrites”, composti partendo da “taches” aleatorie intese a imitare le forme naturali e precorritrici dei frottages surrealisti di Max Ernst

Viene da dire che il lascito più duraturo della Sand sia oggi ancora più in queste affascinanti dendrites che nei suoi romanzi dal gusto oggi così pesantemente datato che all’ epoca furono preferiti persino dal grande Sainte Beuve ai capolavori balzacchiani. E, inoltre, sculture di Bartholdi come di Pradier, di Vincenzo Vela o di Lorenzo Bartolini, medaglie di David d’ Angers, disegni di Delacroix e di Redouté, il pittore delle rose, servizi da the, vasi in porcellana con ritratti di donne celebri come Harriet Smithson, la Musa di Berlioz, ispiratrice proprio della già evocata Symphonie fantastique.

Questo processo sinestetico fra le varie arti conoscerà alcune propaggini, con altre e diversissime declinazioni, nelle avanguardie del Novecento, ma, anziché prolungare l’idea di una circolarità armonica fra di esse, le avanguardie ne hanno sancito invece la definitiva scollatura. 

In un mondo in cui la psiche individuale e collettiva è lacerata l’unità miracolosa dei vari processi estetici non può più essere ricomposta. Come il pensiero filosofico non può più indirizzarsi nella compattezza monolitica del sistema, così il processo di intuizione ed espressione estetica non può che disperdersi in varie direzioni, in un’infinità di affluenti incapaci di rindirizzarsi ad un corso comune. 

La visita nostalgica e velata di malinconia a luoghi incantevoli come questo Musée de la Vie Romantique servono proprio a trasmetterci per l’ultima volta l’illusione di una totalità psicologica ed estetica ancora preservata e incontaminata.  

Alessio Magaddino

*In copertina: Ary Scheffer, Mrs Robert Hollond, 1851

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