25 Maggio 2023

“Siamo la nostra solitudine”. Elogio di Julien Green, l’anti-Céline

La virtù del pudore, oggi tanto fuori moda in tempi di esibizionismo delirante, andrebbe applicata non solo alla vita privata ma anche alla ricognizione letteraria, resistendo alla tentazione di spiare i propri autori di elezione dal buco della serratura. 

Alcuni scrittori hanno indissociabilmente legato la loro figura e la loro opera alle proprie vicende biografiche, talvolta proprio a quelle più ostentatamente libertine (e questo è, a parere di chi scrive, proprio il limite in cui incorrono autori anche grandissimi come D’Annunzio), mentre altri hanno mantenuto una misura di prudenza, sganciando la propria scrittura dalle circostanze esterne del proprio vivere e alimentandosi a fonti più arcane e sottili. 

La pubblicazione in Francia del Journal intégral di Julien Green mette gli ammiratori di questo gigante delle lettere francesi e mondiali del Novecento in una condizione di palese imbarazzo o, almeno, di disorientamento. In quello che resta, dopo quello di Amiel, il più lungo diario della storia dell’umanità, Green annotò i propri moti del cuore, le letture, gli incontri umani, gli slanci mistici e, come ora sappiamo, anche le proprie avventure sessuali, che questa pubblicazione senza veli e senza censure ci documenta con spietata onestà, proiettando infine dei fasci di luce sulle ampie zone d’ombra che Green aveva voluto lasciare tali sino alla morte, avvenuta nel 1998 quando era quasi centenario. 

Green, impareggiabile esteta e diviso sempre tra la fede cattolica e il rovello dei sensi, tra l’aspirazione a una purezza assoluta e il cedimento alla carne, alimentò la sua letteratura proprio da tale insanabile antinomia ma, nelle parti che dette in luce dei propri diari, mantenne sempre un aristocratico riserbo, preferendo tacere sulla propria vita privata e consentendo così al suo lettore di cogliere la poesia del non detto, di ciò che è semplicemente mormorato o sottinteso. Non è necessario dire tutto; la poesia è spesso un umile fiore che sboccia proprio nel terreno dell’inespresso.

La perplessità che genera il denudamento totale di questo Journal intégral non è legato a pruderie moralistica, alla volontà di preservare un idolo (e nulla è meno infrangibile degli idoli) dalla contaminazione dei pettegolezzi, delle futilità mondane. No, le riserve nascono invece da una ragione di natura discutibile anch’essa ma più profonda ed esigente, quella di mantenere, appunto, l’aura poetica del non detto di ciò che circola impalpabilmente tra le parole ma non ha bisogno di essere verbalizzato. 

Dire tutto, si sa, equivale ad annoiare, e leggere l’insistito racconto di Green dei propri amplessi omosessuali, consumati con l’umanità più varia e nei luoghi più vari, con abbondanza di dettagli che trabocca nella pornografia, soddisfa certamente il voyeurismo del lettore, la sua curiosità indiscreta verso tutto ciò che era stato omesso, ma nulla aggiunge, sinceramente, alla gloria letteraria del grande autore franco-americano. 

Le molte e splendide notazioni di carattere artistico, umano, religioso che si affacciano da queste pagine ritrovate ci restituiscono, queste sì, la finezza e la natura visionaria dell’uomo, l’insistito catalogo delle sue avventure erotiche colma semplicemente un bisogno di morbosità ma, a nostro avviso, uccide proprio l’essenza di quel mistero che egli volle gelosamente preservare da vivo, nulla disvelando e nulla facendo trapelare di cose che dovevano restare soltanto intuibili. Per quello, e non per bigotte ragioni di moralismo, mi chiedo se fosse davvero necessario rispolverare questo in fondo tedioso repertorio di orge e incontri du coté de Sodome. Del resto, Green concepì il proprio diario come il messaggio nascosto in una bottiglia lanciata in mare e fatto sta che le correnti hanno ora condotto questo testo non più velato sino a noi. 

Nulla, in ogni caso, scalfisce la statura letteraria di uno dei massimi scrittori di lingua francese del Novecento, un gigante che fu tra i pochissimi autori monumentalizzati in vita da un’edizione delle sue opere nella Pléiade, autore di capolavori assoluti come Le voyageur sur la terre, Adrienne Mesurat, Mont Cinere, Epaves, o come il brevissimo e folgorante racconto giovanile Christine, fra i più perfetti del secolo. 

Green visse ancora molti decenni dopo questi capidopera giovanili e produsse ancora romanzi pregevolissimi, saggi di estrema raffinatezza (tra tutti gli splendidi medaglioni di Suite inglese, ripubblicati accortamente dall’Adelphi un po’ di anni fa), ma mai più attinse alle profondità, all’incorrotta bellezza, alla ammaliante musica dell’anima che pervadono questi autentici gioielli. Green scrisse sempre in una lingua di classica purezza, cristallizzata in una forma sublime da Grand Siècle, ma increspandola con una sensibilità modernissima, attraversata dalla scoperta degli abissi dell’inconscio di Poe e dal puritanesimo ardente di Hawthorne, forse le scaturigini più profonde e durature della sua prosa. 

La lingua di Green è l’antitesi della lingua ‘sporca’ e maculata dall’argot di Céline ed è quanto di più lontano si possa immaginare dalla tentazione espressionista e grottesca (se volessimo trasportare anche nel campo delle lettere francesi la dualità costante che Contini vide nelle nostre lettere tra plurilinguismo e monolinguismo, dualità che ha inizio nientemeno che coi due giganti Dante e Petrarca). 

Proprio il fatto di avere mantenuto il proprio registro espressivo all’interno di questa ‘bolla’, la sua estraneità a ogni cedimento all’avanguardia e allo sperimentalismo, il suo disinteresse spinto all’avversione nei confronti della politica (che non gli impedì, tuttavia, di scorgere fra i primissimi il pericolo di Hitler e dell’ombra delle dittature sull’Europa e sul mondo, e di mantenersi sempre fedele all’idea della Libertà, su cui scrisse anche un dimenticato pamphlet) non hanno giovato alla fortuna postuma di Green, soprattutto in Italia. 

Ammirato e tradotto da alcuni dei maggiori scrittori e critici del nostro Novecento, dilettissimo a Luchino Visconti (che voleva trarre un film mai realizzato da Leviathan), Green è stato nel nostro paese lentamente sommerso dalla polvere dell’oblio: troppo distante dalle consorterie politiche, dalle facili mode, dal tentativo prolungato che si è fatto di inquinare l’ arte con tutto ciò che arte non è o di algebrizzare in un razionalismo parossistico ciò che germina da un’intuizione aurorale e non è e non sarà mai pienamente cittadina del reame della pura ragione. 

Che Green da noi sia rimasto, tranne poche felici eccezioni, fondamentalmente un incompreso lo documentano anche le pagine che Alberto Arbasino dedica all’incontro con lo scrittore in Parigi o cara, pagine argute e brillantissime come al solito in Arbasino ma che nulla ci dicono di Green come artista e che si limitano a riprodurre in un dotto esercizio di stile un ambiente e una conversazione. 

La sordità al discorso estetico si abbina di solito alla sordità nei confronti del discorso religioso, intendendo per quest’ultimo non certo l’appartenenza a una confessione, a una data fede, ma l’insopprimibile bisogno umano della proiezione verticale verso il Divino e verso l’Infinito. Green, ultimissimo e a nostro avviso massimo rappresentante della grande scuola cattolica del Novecento francese dei Bernanos e dei Mauriac, esercita la sua perdurante fascinazione proprio in virtù di quello stridore cui già accennavamo prima fra un senso del peccato instillatogli dalla tradizione puritana (i suoi genitori erano americani, egli mantenne sempre la cittadinanza statunitense, scrisse anche in inglese e si ritenne sempre figlio non solo dell’America, ma del Sud profondo degli Stati Uniti) e il pungolo del misticismo, fra la macerazione della carne e l’afflato religioso, afflato che farebbe quasi pensare al celebre verso di RImbaud: “J’attends Dieu avec gourmandise”.

Il puritanesimo di Green emerge prepotente nel pamphlet che, con lo pseudonimo di Théophile Delaporte, egli scrisse contro i cattolici di Francia, intendendo metterne a nudo e fustigarne le ipocrisie, l’insanabile abisso che divideva le loro professioni di fede astratte dalle loro azioni. Pamphlet che, anch’esso, sarebbe bene rispolverare e riportare alla luce, essendo noto che nulla è più inedito di ciò che è edito. 

A fare da contrappunto a questo moto pendolare incessante fra le due opposte ma interconnesse regioni dell’anima che abbiamo sopra descritto, è l’idea parasurrealista ma in realtà indipendente dal Surrealismo come da ogni scuola, di una scrittura quasi automatica, in cui a parlare non è la volontà agente dell’autore, ma un altro da sé che si è impossessato della penna, di un qualcosa attinto a una regione inesplorata del proprio inconscio, non governata da alcuna legge a noi nota. 

Green si scinde da sé stesso, e come divide e insieme compenetra la sua natura spirituale e mistica con quella carnale così giunge a frammentare la propria identità aspirando (tema che sarà la costante del romanzo Si j’étais vous del 1947) bramosamente ad essere un altro, a riscoprire la molteplicità insita nel singolo: “nous sommes une infinité de gens”. 

Scrive una volta nel diario, insistendo proprio sulla natura plurale del nostro io: 

“Le persone che siamo veramente nascono dalla nostra solitudine. Più la nostra vita è profonda e più grande è il loro numero. Una vita in cui non esiste la solitudine è una vita senza forza e senza interesse. Insomma, la solitudine è il luogo meno solitario che ci sia”. 

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG