«Gli uomini non si separano mai da niente senza rimpianto – e persino i luoghi, le cose e le persone che più li resero infelici, non possono che abbandonarli provando del dolore».
È con queste parole che ci accoglie un libro agile, scorrevole, di una levità miracolosa e come percorsa da un sottile velo di malinconia. Una scrittura libera, straordinariamente libera e spensierata che ammaliò anche Aragon. Quando il Paysan de Paris (1927) venne ristampato in Francia dopo circa quarant’anni dalla sua uscita, per le Editions de poche, il testo fu a quanto pare preceduto da una nota anonima, probabilmente redatta da Aragon stesso, dove leggiamo: «nel pieno periodo del surrealismo, questo libro singolare ritorna alle fonti: al Nerval delle Nuits d’Octobre, all’Apollinaire del Flâneur des deux rives».
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Ed è proprio la libertà della scrittura a rappresentare la cifra del Flâneur. Apollinaire “si accontenta” di far rivivere Parigi, la Parigi dei suoi ricordi: e leggere del vecchio quartiere del poeta ad Auteuil, dei suoi poeti vagabondi e vecchi alloggiamenti della Guardia Nazionale; della libreria di Monsieur Lehec, delle sue storie e le tanto taglienti quanto colte risposte di Liseux a simpatizzanti boulangisti; di foglietti di carta afferrati al volo in una via, contenenti rebus biblici che conducono all’appartamento di Ernest La Jeunesse; dei venditori di libri sulle rive della Senna e di cataloghi faceti; di canti popolari e strofe alla Rabelais durante i Noëls in Rue de Buci, o di un piccolo museo napoleonico diretto da due marmocchi di 10 e 12 anni che stampano periodicamente giornaletti con abbonamenti di tre franchi, spendendo buona parte dei soldi guadagnati in cioccolata («è così che un successo prematuro è quasi sempre causa della decadenza di un poeta», nota Apollinaire)… leggere tutto questo è quasi commovente.
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Anzi, è commovente e basta: è commovente perché sentiamo che una vita si è dipanata nel gomitolo di altre vite – Monsieur Lehec, Paul Birault, i poeti e i pittori e gli sbandati nell’ipogeo di Vollard – nessuno potrebbe metterlo in dubbio. Non c’è nulla, in questo libro, nessun aspetto o immagine della vita che l’autore abbia sfiorato dandoci l’impressione di averne tradito la verità, adulterato il contenuto nella sua traduzione letteraria. Strade, lungofiumi, taverne, birrerie… tutto resta e ci si presenta vivo, intatto – tanto più vero quanto la scrittura è senza pretese, senza esagerazioni e turgidume patetico o retorico. La scrittura di Apollinaire si adatta e tira dentro tutto, o meglio: seleziona e delinea in modo da rendere alla perfezione l’idea del tutto, privilegiandone gli aspetti di umile meraviglia. Insieme all’idea del tutto è dipinta una realtà tanto umana, tanto appassionatamente vissuta da esortare quasi a reinventare il mondo, a formarci come perfette macchine di vita – a dare ed esprimere quanto più amore possibile per quegli scorci, quei quadri di bellezza e d’incorrotta umanità che ancora esistono e resistono al mondo, nonostante tutto e tutti.
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Nei frammenti di dialoghi o ricordi di dialoghi passati (divina indifferenza tra poetato e vissuto…) alcune affermazioni che valgono e riassumono mille discussioni: «[…] tutte le teorie possono essere buone – confidava al nostro il poeta Léon Dierx, parnassiano – ma solo le opere contano». E poi i simpatici indizi d’acume, di una intelligenza briosa e spigliata, nutrita d’esperienza: «[…] ho notato che quelli che sanno mangiare bene sono raramente degli sciocchi».
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Il libro compare nel 1918. In quello stesso anno il nostro Ungaretti, tornato a Parigi nei giorni dell’armistizio, recava con sé alcuni toscani da offrire all’amico poeta quando, nelle strade della capitale, udrà il sinistro grido di trionfo che urlava à bas Guillaume! à bas Guillaume! Giunto a casa di Apollinaire scoprirà l’amico lungo disteso a letto, il volto coperto da un velo nero. Guillaume Apollinaire, poeta incomparabile e perfetta macchina di vita, morirà proprio in quei giorni.
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“Numerosi vecchi convitati rimpiangeranno questo angolo pittoresco di Parigi…” scrive l’autore, verso la fine del suo libello. Certo lo rimpiangono anche i nuovi, i futuri convitati all’indecifrabile banchetto dell’esistenza: ma è anche vero che, grazie a questo e a simili libri, essi possono maturare a una fame più umana, educarsi a un gusto più essenziale, sapere quale pane andare offrendo e cercando nella vita.
Francesco Zevio