
“Non c’è abbastanza reale per la mia sete!”. Benjamin Fondane, l’irraggiungibile
Poesia
Giorgio Anelli
Grande ambasciatore e fine letterato, Maurizio Serra è tra maggiori conoscitori italiani della letteratura europea, tanto da essere il primo italiano a sedere come Immortale tra gli scranni della Académie française. Un ruolo che si è conquistato dopo una intensa attività intellettuale, parallela a quella diplomatica, che lo ha portato a scrivere saggi, prefazioni e biografie di ampio respiro sulle vite dei grandi protagonisti del secolo breve, da Svevo a Malaparte, da D’Annunzio a Paul Morand (di cui ha scritto una illuminante prefazione al suo Londra, in uscita per Settecolori). Un itinerario letterario ricco di immersioni nella cultura politica, nella storia e nel pensiero, che tra le sue opere più suggestive e definitive annovera Fratelli separati. Drieu-Aragon-Malraux. Il fascista, il comunista, l’avventuriero (Settecolori). Un saggio formidabile (giunto alla 5° edizione), su tre figli del secolo che si sono confrontati con i grandi “ismi” del Novecento e con le seduzioni dei miti della loro epoca. Un’opera saggistica che si legge come un romanzo sinottico, un bildungsroman a tre voci sul complesso e inestricabile rapporto tra storia e letteratura, azione e pensiero, società e intellettuali. In cui Serra delinea una rigorosa e monumentale confessione di tre uomini diversissimi e complementari in cui alle sulfuree atmosfere decadenti dei romanzi di Drieu La Rochelle si alternano gli esotismi e le mitomanie immaginifiche delle avventure di André Malraux e i turbamenti da personaggio bettiziano di un Louis Aragon conteso tra ideologia e letteratura, ordine e anarchia. Un viaggio letterario e ideologico-sentimentale nella Francia letteraria, ricco di personaggi e considerazioni per imparare a conoscere e capire questi poeti condottieri, attraverso una scrittura che non vuole definire o stigmatizzare, ma che, invece, illumina, racconta, rivela. Per meglio conoscere le vicende di questi esteti armati protagonisti delle lettere transalpine abbiamo intervistato l’ambasciatore Serra nella sua dimora romana, tra gli oli di Mariette Ledys e i cimeli dell’attività diplomatica.
Chi sono i “fratelli separati”?
Sono tre testimoni del secolo. Tre scrittori dotati di “una certa idea” dell’intellettuale fondata sulla indissolubile complementarità tra la grande letteratura e la grande storia che li rende personaggi paradigmatici dello scorso secolo. I protagonisti di questo libro sono stati, infatti, estremamente rappresentativi dei turbini del Novecento di cui incarnarono tutte le variazioni politiche, culturali e sentimentali. Ed anzi credo che essi siano forse degli autori più “rappresentativi” ed “iconici” di quanto siano in realtà grandi. Il grande scrittore, del resto, spesso è il meno esemplare del suo tempo, perché essendo un classico è sempre a suo agio in ogni epoca, pur essendo radicato nella propria. I tre protagonisti di questo libro che sono, invece, sicuramente dei grandi autori, ma non i più grandi, sono certamente tra i più rappresentativi e fortemente iconici del loro tempo; di cui sono lo specchio, il riflesso, la maschera. Tutti e tre sono, infatti, cresciuti all’interno della stessa generazione, hanno cercato di rispondere alla crisi del poeta-condottiero in Francia e in Europa in modo peculiare. Drieu La Rochelle evolvendo da letterato borghese a fascista romantico e autodistruttivo a causa del suo odio per la borghesia. Aragon transitando dall’avanguardia surrealista al comunismo (per poi tornare alla fine alla sua ispirazione iniziale). Malraux passando dallo slancio rivoluzionario all’ordine gollista pur rimanendo fino all’ultimo sempre un avventuriero e un mitomane. Non si tratta quindi di un’analisi sistematica della loro vita e della loro opera, ma di un viaggio lungo il filo rosso di incontri e scontri, diretti o a distanza, culminati nel suicidio di Drieu, simbolo del fallimento aulico della figura dell’esteta armato e negli sviluppi successivi alla sua scomparsa.
Che significato ha per loro questa “insurrezione” artistica e politica?
Per questi autori ribellarsi non significa sostituire un ordine all’altro; significa capovolgere la realtà, rinnovare l’ordine sociale dalle fondamenta, superando definitivamente l’eredità dei padri (ovviamente in modi e forme tra loro molto diversi). L’illusione dell’esteta è quindi quella di armarsi affinché il mondo venga salvato e riconquistato dalla creatività dell’artista, e ciò è una delle incarnazioni della ferita moderna.
Tutti e tre hanno una infanzia sui generis, caratterizzate da “contorte radici”. Come queste provenienze possono averne influenzato l’opera?
Sono sempre prudente nel cercare una correlazione tra l’origine familiare e l’attività artistica e culturale. Ci sono scrittori banali e borghesi che sono diventati grandi rivoluzionari a livello artistico, anche se spesso è vero pure il contrario. È significativo però che in tutti e tre sia cruciale l’assenza del padre. Aragon era un figlio illegittimo, Malraux viene rifiutato da un padre evanescente, Drieu vorrebbe sostituirsi a un padre segnato da non poche miserie morali e commerciali per sposare la madre. In tutti e tre, quindi, l’identificazione tra padre-borghesia-autorità-ordine è stato il motore di uno sviluppo ribellistico. Non sembra improprio stabilire un raffronto tra questa assenza e l’esigenza di surrogazione della figura paterna verso ciò che de Gaulle significherà per Malraux, Thorez per Aragon, o Doriot per Drieu, in termini di autorità superiore ma protettiva. Allo stesso tempo il bello, nella loro opera, rappresenta ciò che i loro padri naturali hanno sacrificato al potere, al denaro, agli affari sballati. Un ideale superiore ma non antitetico ad essi: per loro, infatti, si può essere belli, giovani ed esteti, ma anche ricchi e potenti, in un modo che i borghesi non possono o non osano immaginare. Il dandy deve costruire il proprio personaggio. Deve prima sedurre, poi forse possedere; amarsi, per poi forse amare. Una pretesa che naufragherà, come il sogno dell’esteta armato tra le devastazioni dei totalitarismi e la mediocrità del potere.
Che corrispondenza c’è tra Aurélien e Gilles e perché sono libri paradigmatici del Novecento?
Sono certamente i due romanzi per dimensioni e messaggi programmatici in cui i loro autori hanno voluto ricostruire un certo mondo anche rispetto all’altro e spiegare le ragioni delle proprie scelte ideologiche. Due opere prismatiche che rappresentano quasi una sfida tra questi due autori, in cui Aurélien esce sicuramente vincitore. Ma non per motivi politici o ideologici, quanto per ragioni artistiche e letterarie. In Aurélien, infatti, il mezzo artistico, la letteratura, prevale sulla politica e non si fa schiacciare dagli abbagli dell’ideologia. Rivelando l’evanescenza e complessità (simile a quella dell’Uomo difficile di Hofmannsthal e dello Zeno Cosini sveviano) dell’uomo che non lascia impronte digitali vere nella propria vita, che non appoggia le mani sulla storia per paura di sporcarsi, praticando quasi una profonda rinuncia tattile al dominio dell’esistenza. Mentre in Gilles, questa complessità letteraria è schiacciata dall’ideologia, ed egli è squadrato e conchiuso nel suo impegno in un romanticismo fascista che finisce per soffocarlo. Una deriva presente, soprattutto nella seconda parte, la più precaria e debole, che quasi sembra una variante fascista del realismo socialista sovietico. La scommessa di Aurélien è più riuscita, invece, perché in esso vi è il trionfo della letteratura sull’ideologia, cosa che a Drieu purtroppo non riesce in Gilles. Tanto che a mio avviso il miglior Drieu è quello che si ritrova proprio nella misura breve, come in Fuoco fatuo, La commedia di Charleroi, la parte diaristica e ovviamente in Beloukia.
Che ruolo ha Gilles nell’opera di Drieu?
L’ambizione di Drieu, nel redigere Gilles, era stata precisamente quella di porre l’intreccio tra politica e letteratura al centro della vicenda, al punto che tutto quello che Drieu aveva scritto negli anni Trenta, nella fase di avvicinamento al fascismo, sembrava costituire la premessa o l’abbozzo del libro. Dopo l’esito della Comédie de Charleroi aveva inseguito l’idea di un romanzo ideologico dagli orizzonti molto ampi, formicolante di eventi e di personaggi, con l’obiettivo di realizzare una cronaca militante della Francia contemporanea, tale da reggere il confronto con le opere dei due fratelli separati: la Condition humaine, L’Espoir, i primi tomi del Monde réel. La sua ambizione era quella di esprimere, da destra, un concetto di rivoluzione, in grado di competere con le utopie progressiste. L’impresa era destinata al naufragio, e Drieu in cuor suo dovette riconoscerlo. Gilles è un documento importante, per certi versi unico nella pubblicistica di quegli anni ed è giusto che se ne sia riproposta una lettura più attenta. Ma è un romanzo fallito, perché l’incertezza esistenziale e morale del protagonista diventa l’incertezza del Drieu scrittore, incapace di governare la materia troppo incandescente che affronta. Aurélien è, invece, la rivincita di Aragon dell’Aragon deviante e consapevole di esserlo e che può essere paragonato al Dottor Zivago di Pasternak, pur con le dovute cautele. Non mancano, infatti, in Aurélien i difetti dell’Aragon romanziere: la prolissità, le iperboli, l’inclinazione al feuilleton. Ma, in compenso, esso è ricco di vita, di complessità, di genuinità, di verità. Qui, finalmente, il “mondo reale” s’incontra ad ogni pagina, senza (quasi) filtri né preconcetti, affidato alla libertà dell’arte.
Che personaggio è il protagonista del romanzo di Aragon?
Aurélien è una sorta di piccolo discendente novecentesco dei Pierre Bezukov di Guerra e pace e dei Frédéric Moreau dell’Éducation sentimentale, col disincanto davanti alla storia, col senso di naufragio delle idee e degli ideali nelle epoche sbagliate. Mentre i protagonisti del Monde réel, i Gilles, i Magnin dell’Espoir si presentavano come espressione dell’impegno, facendosi portatori di messaggi simbolici o ideologici e di temi ben più grandi di loro, Aurélien è solo un uomo in carne ed ossa, come tutti. Non si erge sopra i valori medi del suo tempo, pago di salvare la propria dignità, ma anzi tutto è fuori dalla sua portata, perché prima ancora di sfuggire alla sua volontà sfugge alla sua coscienza adulta. Non sa come raggiungere la sua amata, si muove goffamente nella società parigina, cerca l’amicizia e la confidenza altrui, ma non riesce ad aprirsi; crede nei sentimenti ma si arrende alle convenzioni. In sintesi, se Gilles deve vincere, o sacrificarsi per dimostrare la propria superiorità sugli eventi, Aurélien ha accettato di perdere. Uno è un superuomo di gesso, l’altro è veramente un uomo in carne ed ossa.
Come valuta la “trilogia della morte” che in buona parte non è presente nell’edizione delle ‘Pléiade’?
Sa, io credo in una tradizione critica storicista, come è quella italiana (che difendo), e quindi non posso condividere la scelta di allontanare non solo il Drieu pamphlettistico, ma anche quello letterario con contaminazioni o impostazioni politiche, soprattutto per motivi ideologici. Perché ciò significherebbe disperdere una parte, sicuramente non condivisibile, ma certamente cruciale della sua attività letteraria. Soprattutto perché è proprio in quelle opere che ci appare più chiara e netta la dimensione della sua parabola artistica e intellettuale.
Perché è così importante conoscere l’ultimo Drieu?
In quanto nella trilogia della morte, e nelle opere finali, Drieu La Rochelle va, in qualche modo verso un suicidio annunciato che ne rivela caratteri profondi e inediti della sua opera e della sua personalità. Al punto che io non mi stupirei – seppur con la dovuta prudenza – di un suo eventuale suicidio anche in caso di una vittoria dell’Asse… Tali opere, quindi, non sono solo segnate dalla fine della vecchia Europa, ma dalla incombente presenza della miseria fisica e morale della guerra. La decadenza – tema prediletto degli anni Trenta – ritorna tale e quale nelle vicende del collaborazionismo e della guerra. È la maledizione degli eterni sconfitti, specie di quelli che hanno avuto la vittoria a portata di mano e l’hanno sprecata. Alla decadenza s’accompagna un’altra caratteristica: il misticismo. I romanzi di questa ideale trilogia della morte mostrano come i due aspetti si siano intrecciati nell’ultima fase creativa dello scrittore, alternando alla riflessione sulla fine del fascismo una ascesi quasi buddhista. Il testamento di Drieu rivela, inoltre, il tedio, il disgusto, la disperazione che scandivano i suoi giorni e le sue notti, il poco sonno e le lunghe veglie, tra le ultime donne, le ultime sigarette, gli ultimi libri febbrilmente e invano letti e annotati nel Diario. Ma egli non ci appare neanche allora dominato da una cieca volontà di negazione: ormai lontano dal mito del grand’uomo, vuole solo documentare la sua vicenda, nel bene e nel male. Non cerca attenuanti e consolazioni, non vuole giustificare il militante di una causa persa e degradante, nascondendosi dietro l’innocenza dell’artista impolitico. Drieu è giunto, alla vigilia della morte, a una svolta creativa che poteva restituirgli la pace interiore e riconciliarlo con i molti che continuavano ad amarlo e a credere in lui. Non è andato oltre: gli sono mancati il tempo, la fiducia, la fibra interiore. Restare fedele, contro ogni evidenza, a modelli falliti significava vivere fino in fondo la disfatta poi di cessare di vivere, rivendicando colpe anche e soprattutto non sue. I Chiens de paille, ad esempio, è un apologo dominato dalla lotta politica all’ultimo sangue, dalla nemesi che si abbatte sulla Francia giorno per giorno, dall’orrore e dall’assurdo del fratricidio. Un’opera dove Drieu sembra dar fondo a un disgusto senza limiti, che anticipa il Salò di Pasolini, in cui la sensazione di un crollo generale, compresi gli ideali fascisti, si amplifica e trasforma in un amaro, amarissimo, controcanto a Gilles. Nascondendo dietro una cupa vicenda di borsa nera tutto il suo disagio e tutto il suo disgusto. Le memorie di Dirk Raspe è, invece, l’ingresso a vele spiegate nel mare della fantasia, per un’ultima gloriosa spedizione verso il naufragio. Punto di partenza ne è una vita romanzata di Van Gogh in una serie di paesaggi tetri e fuligginosi, dominati dalla miseria e dall’angoscia che si prefigura come l’ultima rivincita del Drieu scrittore su quello militante. La sconfitta dell’esteta armato e la vittoria dello scrittore asceta. Purtroppo, un’opera che la storia e il tempo lasciarono incompleta per il suicidio del suo autore.
L’unico vero politico dei tre però fu Malraux. Tra mito e realtà come può essere descritto il Malraux postbellico?
Io credo che il caso del secondo Malraux sia uno dei più grandi harakiri fatto da uno scrittore nei confronti della sua attività letteraria. Egli aveva dei cantieri aperti verso una svolta letteraria – che non completò mai – verso nuovi orizzonti narrativi che lasciò incompiuti come con i Noceti dell’Altenbourg, una rivisitazione monastica della grande guerra purtroppo rimasto incompiuto e mancato, o come l’altro progetto mancato: la vita di Lawrence d’Arabia che rimase incompiuta. Tutto ciò però viene ridimensionato da una militanza politica che ne ha fatto un uomo di Potere e un ministro ad un prezzo estremamente alto. Soprattutto perché, quando tornerà negli anni Sessanta alla letteratura con le Antimemorie vedremo solo un pallido riflesso delle capacità del Malraux primonovecentesco. Le Antimemorie hanno del resto pagine bellissime che però sono spesso – troppo spesso – soffocate dagli eccessi, dalle mitomanie (talmente flagranti), dalle pose del suo autore. Donandoci il ritratto di uno scrittore schiacciato dal suo personaggio, dal suo potere e dal suo successo.
Vede delle affinità tra il Malraux che ha lasciato la politica con l’ultimo D’Annunzio?
Il Malraux dopo de Gaulle, a mio avviso, è molto diverso dall’ultimo D’Annunzio. Se confrontiamo l’ultimo Malraux e le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto è evidente che D’Annunzio ne esce nel suo ultimo testo ancora originale, carismatico e vitale. Anche perché il Comandante vive la sua sconfitta politica e cerca di trovare la sua rivincita nella letteratura, mentre il trionfo di Malraux lo uccide artisticamente. L’ultimo Malraux è un Lear in doppiopetto, appannato dall’alcol, che si domanda: “Que penses-tu de ma jeunesse, ô ma lourde vie?”. Non vi è immagine più rivelatrice di quella che lo coglie, con il volto serrato e il corpo ingobbito dalla malattia, mentre sfila sotto l’Arco di Trionfo, in mezzo ai notabili, ai peones, alle massaie del gollismo nel grandioso corteo di sostegno al generale-presidente, dopo i tumulti del maggio ’68. L’uomo che mobilitava le folle e le piegava al suo verbo nei raduni antifascisti degli anni Trenta, nella Spagna in fiamme e nell’Alsazia liberata ora partecipa a un’ultima scena di massa. Ma da comparsa… sia pure di lusso.
A breve uscirà nello splendido catalogo di Settecolori Londra di Paul Morand, di cui lei ha scritto la prefazione. Che ne pensa di questo autore?
Mentre Montherlant avrebbe potuto essere un “fratello separato”, seppur distante nel suo l’olimpico distacco dagli altri tre, Morand è estremamente diverso e atipico rispetto agli autori che abbiamo fino a qui trattato.
Ovvero?
Morand è un parigino cosmopolita, disertore della storia con pochi riferimenti costanti nella sua esistenza come: l’amore per la novità costante (d’altronde anche il suo conservatorismo fu certamente antitradizionalista); il culto del piacere edonistico, non cupo come in Montherlant, ma esuberante e sfavillante che rifiuta ogni sentire di morte in nome di una vitalità scoppiettante; ed infine la nostalgia dei ruggenti anni Venti. Tanto che arriverà a rinunciare alla carriera diplomatica proprio in nome delle donne, del piacere e del godimento. In lui vi fu un distacco dalla storia, dalle militanze, dai credi con cui si confrontò solo in nome di calcoli opportunisti – tra l’altro sbagliati – come nel caso della sua infruttuosa adesione a Vichy. Una esperienza opposta rispetto a quella degli esteti armati. Ed in Londra si trovano tutti questi motivi tipici dell’opera di Morand: l’amore per il godimento, la vita come una festa, una apertura e un amore per la novità portato fino all’eccesso. Motivi che delineano un libro che più che un resoconto su Londra è un grande affresco pieno di vita, luce e piaceri. Londra, infatti, concentrato di racconto, atteggiamento mentale e spirituale, esperienza di vita e così via, rappresenta un caso a sé nella galassia morandiana. Se non è necessariamente il suo libro migliore tra le due guerre, rimane forse il suo testo più rappresentativo. Delineando un libro di desideri, di incontri, di divertimenti; in cui la storia non esiste, in quanto è troppo lontana dal piacere di vivere, dalla varietà degli incontri, dall’ebbrezza del momento. Un testo che quindi ci mostra il miglior ritratto del suo autore.
Che cosa emerge da questo involontario autoritratto londinese?
Il volto di un gaudente piccolo borghese, parigino e cosmopolita, smanioso di emergere ed imporsi sul palcoscenico di quel che per lui, dall’Europa all’Asia, dall’Africa alle Americhe, rappresenta il teatro del mondo, un’ininterrotta Belle Époque, in cui guerre, massacri, pogrom, gulag e via dicendo sono solo fastidiosi incidenti di percorso. E di cui certamente questo libro è un plastico e vivace ritratto.
Tra i cimeli della sua lunga attività culturale, mi ha molto colpito questo acquarello che un tempo fu di Henry de Montherlant. Che storia nasconde?
Si tratta di un acquarello della pittrice Mariette Lydis con una storia a cui tengo molto. Lei lo aveva donato a Montherlant (credo che il volto sia l’originale di un’illustrazione per le Jeunes Filles) che molti anni dopo, alla vigilia del suicidio, lo donò a Gabriel Matzneff, suo erede letterario. E Gabriel lo ha recentemente donato a me, grato dell’amicizia che gli ho anche pubblicamente ribadito in questi anni di caccia alle streghe nei suoi confronti.
Francesco Subiaco
*In copertina: Louis Aragon, intorno al 1929