Venerdì 3 ottobre 1930. T.S. Eliot è in ufficio, forse, o forse a casa, e chi lo sa se è pomeriggio o se l’ora violetta così ben cantata in Waste Land ha già lasciato il passo al buio della sera. È venerdì 3 ottobre ed Eliot, con l’improvvida audacia dei disperati, prende in mano la penna e scrive. Destinataria: miss Emily Hale, insegnante e attrice americana, amica di gioventù mai più vista né sentita – se non in rare occasioni – da quando nel 1914 le aveva confessato il proprio amore partendo per l’Europa. Una confessione che non aveva destato in Emily particolari reazioni, se è vero che a parte un pugno di lettere amichevoli e piuttosto formali scambiate tra il 1914 e il 1915, i due non avranno altri contatti, fatti salvi un paio di incontri occasionali nel ’22 e nel ’27. Cose di novant’anni fa, diremmo. Se non fosse che con l’arrivo dell’anno nuovo quella lettera, insieme a moltissime altre, è ripiombata con prepotenza nel nostro tempo. È del 2 gennaio, infatti, l’apertura al pubblico della corrispondenza che il Possum spedì a Hale tra il 1930 e il 1947. Un corpus di oltre mille lettere donate da Hale a Princeton nel 1956, con la consegna di non aprire i sigilli se non dopo cinquant’anni dalla sua morte e subito finite al centro di una curiosità per certi versi un po’ grottesca, molto più simile a un chiacchiericcio di portinaie che alla pacatezza di un convivio. Certo, è senz’altro vero che l’apertura pubblica di queste lettere è – come dice Tony Cuda, direttore della T.S. Eliot Summer School che si tiene ogni anno a Londra – «l’evento letterario del decennio». Ed è vero altrettanto che il reportage day by day di Frances Dickey – studiosa dell’Università del Missouri che dal 2 gennaio posta ogni giorno una breve sintesi dei temi trattati nelle lettere sul blog della International T.S. Eliot Society – è succoso e fa venire l’acquolina al pensiero della pubblicazione integrale del carteggio, prevista dal curatore e dall’editore Faber per il 2021. Ma proprio questo è il punto, perché la corsa a curiosare in questa tormentata, platonica e intellettuale storia d’amore solleva a chi scrive più di un dubbio sulla liceità di affondare i denti in carte scritte per non essere pubblicate.
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A onor del vero, stando al rapporto di Dickey, lo stesso Eliot pensava inizialmente a una pubblicazione postuma del carteggio, a suo parere capace di illuminare molteplici passi della sua opera. Ma illuminare che cosa? Le occasioni, probabilmente. Sappiamo per esempio che Burnt Norton, il primo dei quartetti, cominciò a maturare dopo una visita che Eliot e Hale vi fecero insieme nel 1933. E altrettanto bene sappiamo come egli, infelicemente sposato con Vivienne Haigh-Wood dal 1915 alla morte di lei nel 1947, conservò sempre una memoria nostalgica di Hale, anche nei quindici anni di silenzio trascorsi prima di ricominciare a scriverle. Nulla, tuttavia, che aggiunga reale conoscenza ai testi: informazione, forse, ma – per usare una dicotomia eliotiana – informazione che non dà conoscenza, che anzi la disperde. Che cosa ci darebbe in più il sapere che Eliot forse pensava a Hale scrivendo versi come «Amico, sangue che scuoti il cuore, / l’audacia terribile di un istante di abbandono / che un’era di prudenza non potrà mai ritrarre»? Quale maggiore conoscenza ci darebbe conoscere la miseria dell’istante, la sordidezza del dettaglio, rispetto all’icastica e universale rappresentazione del dono di sé scolpita in quei versi? Lo sappiamo tutti, tutti l’abbiamo pensato, che la lady della seconda parte di Waste Land è una Vivienne trasfigurata, così come la moglie di Harry – suicida o assassinata dal marito non lo si saprà mai – in The Family Reunion. E allora? A qualunque serio amante di Eliot queste ipotesi sono note e superflue; a un non conoscitore che aspiri a esserlo tutta quest’attenzione al chiacchiericcio e non al testo è invece fuorviante. Eliot ha lavorato una vita intera per fare un’arte impersonale, che non riflettesse il mondo ma rappresentasse un mondo, un possibile più vero del vero. A che scopo, allora, questo incancrenirsi sulla sua biografia?
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Si dirà: ma lo stesso Eliot all’inizio pensava a una futura pubblicazione delle lettere. Appunto: pensava; e lo pensava all’inizio. E sì, perché la vita corre, le cose accadono e si può cambiare idea, senza dover essere inchiodati al detto o al fatto. Eliot lo pensava delle sue teorie (dirà in un’intervista di non essere particolarmente interessato a esse, soprattutto a quelle «anteriori al 1933», e altrettanto farà dire al suo Brunetto Latini in Little Gidding); e lo pensava probabilmente dei fatti della sua vita. Ecco perché quando nel 1947 sua moglie Vivien morì, dopo sette anni di agonia in un sanatorio mentale, anziché gettarsi finalmente libero tra le braccia di Hale, interruppe ogni rapporto con lei. Ed ecco perché, quando seppe una decina d’anni più tardi delle trattative di Hale per cedere a Princeton le lettere, restò «sgradevolmente sorpreso» e decise di stendere un memoriale da rendersi noto contestualmente alla loro apertura: cinquant’anni dopo la morte di Hale o, in caso di fuga di notizie, immediatamente a ridosso. Così, in attesa che le lettere siano integralmente pubblicate nel 2021 – e visto il divieto di citazioni dirette imposto dai curatori testamentari di Eliot agli studiosi che vi vengano in contatto – l’unico documento certo intorno alla vicenda è proprio il memoriale del Possum, datato 25 novembre 1960 e lievemente ritoccato nel settembre di tre anni dopo. Un memoriale adesso reperibile on-line in cui Eliot ricostruisce la propria versione del rapporto con Emily e del contesto in cui fiorì l’epistolario. Ma non è tanto il gioco delle due campane, quello che qui ci interessa, quanto il ritrovare una volta di più nelle parole di Eliot il senso e il tono di un modo di intendere la vita e il mondo.
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Le primissime parole sono già indicative: «È penoso (painful) per me dover scrivere queste righe». Che per uno capace di scrivere come epigrafe del suo primo libro di saggi «A mio padre. Tacuit et fecit» non sembra mostrare nulla di nuovo. È penoso scrivere il memoriale perché è penoso, dopo una vita spesa per far parlare la propria opera al di sopra e al di là delle proprie miserie, trovarsi trascinati in pubblico a dover lavare i propri panni. Tanto più se l’esperienza ci ha insegnato che «ci sono molte cose per cui non troviamo le parole nemmeno in confessionale». Anche qui, siamo davanti a qualcosa che i Quartetti avevano già presentato con plasticità archetipica: quando in Burnt Norton ci parlano delle parole che scivolano e decadono senza mai stare al loro posto; o nel finale di Little Gidding, dove ci viene ricordato per l’ennesima volta che la storia è «irredimibile» all’uomo e che «ogni frase e ogni sentenza è una fine e un inizio, / ogni poesia un epitaffio»; o ancora in East Cocker, quando la vita intera è scolpita come «un raid nell’inarticolato» minacciata «nel casino generale di sentimenti imprecisi / squadroni di emozioni indisciplinate». Di fronte a queste rappresentazioni così plastiche e archetipiche da essere comprensibili a tutti, a tutti esperibili, a che vale lo scavo nella miseria gretta della cronaca di un peccatore? Preso nella rete, Eliot si costringe a una difesa di sé stesso, della propria coerenza ideale e dell’incoerenza pratica tanto ingiusta, quanto penosa a leggersi. Per giustificarsi davanti al nostro storicismo implicito – che giudica il passato con il metro dell’oggi anziché, come sanamente andrebbe fatto, giudicare l’oggi con il metro del passato – si costringe a una demolizione dura e ingenerosa di Emily e dei suoi sentimenti per lei (in certi passi vien da chiedersi perché mai le scrisse per diciassette anni, se era una donna così pessima…), quasi per dimostrare a sé e a noi postumi che in realtà non c’era poi questo grande rapporto – cosa chiaramente non vera. Come che sia, profondo o insincero che fosse quel tempo speso insieme, quelle immagini di quiete che la sua frequentazione gli dava, ecco che «con la morte di Vivienne nell’inverno del 1947», Eliot comprende di colpo di non amare Emily. «Gradualmente mi resi conto che ero stato innamorato di un ricordo, del ricordo dell’esperienza di averla amata in giovinezza». E così, riflessione dopo riflessione, si accorge che l’«amore per Emily era l’amore di un fantasma per un fantasma», e che le lettere che le scriveva «erano le lettere di un uomo allucinato, un uomo che tentava invano di fingere con sé stesso di essere la stessa persona che era nel 1914». Tutto possibile, forse persino vero, se vero e falso fossero concetti affidabili quando guardiamo in retrospettiva quello che abbiamo fatto e quello che abbiamo provato. Ma è questo che chiediamo agli artisti? Questa prossimità da selfie, questo chiacchiericcio da pausa pranzo? Lasciamo che siano i morti a dissotterrare i morti. E a noi, se vogliamo esser vivi, ci tocchi non il cadavere corrotto dei loro giorni, ma quell’anticipo di eredità incorruttibile che hanno saputo lasciarci nell’opera.
Daniele Gigli
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Indicazioni ai miei esecutori riguardo alla busta allegata.
La signorina Emily Hale dal Massachusetts ha presentato alla biblioteca dell’Università di Princeton le lettere che le scrissi tra il 1932 e il 1947 – forse alcune un po’ prima; quelle scritte dopo la morte della mia prima moglie esprimono sentimenti così diversi che potrebbe non averle incluse. Ho saputo che vi ha aggiunto, o si sta preparando ad aggiungere, una sorta di commento personale. Pertanto, mi sembra necessario mettere per iscritto il mio ritratto dello sfondo di questa corrispondenza e il mio sentire attuale nei suoi riguardi.
Desidero che la mia dichiarazione sia resa pubblica non appena le lettere alla signorina Hale saranno rese pubbliche. (Chiarirò più avanti che cosa intendo con il termine «rendere pubblico»). Questo non dovrebbe succedere fino a cinquant’anni dopo la mia morte. Ma una certa qual pubblicità è possibile senza pubblicazione (a stampa), e non ho alcuna certezza che fino a tale data verrà preservata la completa privacy. E se le lettere, o una qualsiasi di esse, o eventuali estratti o citazioni da una qualsiasi di esse, o il «commento» della signorina Hale, venissero divulgati prima di quel momento, o se trapelasse che a qualsivoglia individuo sia o sia stato concesso l’accesso a una delle lettere prima di quella data, allora desidero che la dichiarazione allegata sia resa pubblica allo stesso tempo.
Nel caso in cui la Princeton Library conserverà le mie lettere non aperte (come dovrebbe fare) fino a cinquant’anni dopo la mia morte, quando anche i miei esecutori saranno morti, suggerisco che la busta sigillata col presente documento venga consegnata da mia moglie al bibliotecario incaricato della Eliot Collection per i miei lavori e altre questioni relative all’Università di Harvard. (Questa collezione è attualmente ospitata nella Houghton Library dell’Università di Harvard). Dovrà essergli dato con la rigida ingiunzione che venga aperto e reso pubblico cinquanta anni dopo la mia morte, o qualora la raccolta di lettere alla signorina Hale alla Princeton University venisse resa pubblica prima di quella data. Se quest’ultima raccolta fosse resa pubblica in uno dei modi sopra indicati, la lettera allegata dovrà essere resa pubblica allo stesso modo. Se arrivasse a conoscenza delle autorità di Harvard incaricate della Eliot Collection e di questa busta sigillata, che qualcuno abbia avuto accesso alle lettere nella biblioteca di Princeton, con l’intenzione o meno di utilizzarle in un’opera scritta, o a una sola di quelle lettere o parti di lettera, desidero che questa busta sigillata venga aperta e che il suo contenuto sia reso pubblico.
25 novembre 1960
T.S. Eliot
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La memoria di Eliot
È penoso per me scrivere le seguenti righe. Non riesco a concepire di scrivere la mia autobiografia. Mi sembra che quelli che possono farlo siano quelli che hanno condotto una vita esclusivamente pubblica ed esteriore, o quelli che possono nascondere con successo a sé stessi ciò che preferiscono non sapere di sé stessi – c’è forse una piccola quantità di persone che possono scrivere su sé stesse perché realmente irreprensibili e innocenti. Nella mia esperienza, c’è molto per cui non si riesce a trovare le parole nemmeno nel confessionale; molto che viene dalla debolezza, dall’irresolutezza e dalla timidezza, dal meschino egocentrismo piuttosto che dall’inclinazione verso il male o la crudeltà, dall’errore piuttosto che dalla cattiva natura. Sarò il più breve possibile.
Nel corso della mia corrispondenza con Emily Hale, tra il 1932 e il 1947, amavo pensare che le mie lettere sarebbero state conservate e rese pubbliche dopo la nostra morte, cinquant’anni dopo. Rimasi però spiacevolmente sorpreso quando mi informò che stava consegnando le lettere alla Princeton University noi viventi, precisamente nel 1956. Aveva fatto questo passo, è vero, prima di sapere che stavo per sposarmi. Tuttavia, mi sembrò che disporre delle lettere in quel modo e in quel momento facesse luce sul tipo di interesse che aveva, o era venuta ad avere, per quelle lettere. Gli Aspern Papers al contrario.
Mi innamorai di Emily Hale nel 1912, quando ero alla Harvard Graduate School. Prima di partire per la Germania e l’Inghilterra, nel 1914, le dissi che ero innamorato di lei. Non ho motivo di credere, dal modo in cui fu ricevuta questa dichiarazione, che i miei sentimenti fossero in qualsiasi modo ricambiati. Ci scambiammo alcune lettere, di tono puramente amichevole, mentre ero ad Oxford nel 1914-15.
Spiegare il mio improvviso matrimonio con Vivienne Haigh-Wood richiederebbe molte parole, e anche così la spiegazione rimarrebbe probabilmente incomprensibile. Ero ancora, come credetti un anno dopo, innamorato della signorina Hale. Ma non posso tuttavia fare nemmeno questa affermazione con fiducia: potrebbe essere stata semplicemente la mia reazione verso la mia infelicità con Vivienne e il desiderio di tornare a una situazione precedente. Ero molto immaturo per la mia età, molto timido, molto inesperto. E avevo un dubbio a rodermi, che non potevo nascondere del tutto a me stesso, riguardo alla scelta della mia professione, quella di insegnante universitario di filosofia. Avevo passato tre anni alla Harvard Graduate School, a spese di mio padre, preparandomi a prendere il mio dottorato in filosofia: dopo di che avrei dovuto trovare un posto da qualche parte in un college o in una università. Eppure il mio cuore non era in questi studi, né avevo fiducia nella mia capacità di distinguermi in questa professione. Dovevo ancora desiderare di scrivere poesie: in tre anni avevo scritto un solo frammento, che era brutto (è, purtroppo, conservato ad Harvard); quindi nel 1914 Conrad Aiken mostrò Prufrock a Ezra Pound. L’incontro con Pound cambiò la mia vita. Era entusiasta delle mie poesie e mi faceva lodi e incoraggiamenti in cui avevo smesso da tempo di sperare. Ero più felice in Inghilterra, anche in tempo di guerra, di quanto non fossi stato in America: Pound mi esortò a rimanere in Inghilterra e mi incoraggiò a scrivere altri versi. Penso che tutto ciò che volevo da Vivienne fosse un flirt o una relazione romantica: ero troppo timido e inesperto per ottenere una delle due cose con chiunque. Credo di essermi convinto di essere innamorato di lei semplicemente perché volevo bruciare le mie navi e impegnarmi a restare in Inghilterra. E lei si persuase (anche sotto l’influenza di Pound) che avrebbe salvato il poeta tenendolo in Inghilterra. A lei, il matrimonio non portò felicità: gli ultimi sette anni della sua vita li trascorse in una casa di cure mentali. A me, portò lo stato d’animo da cui nacque The Waste Land. E mi salvò dallo sposare Emily Hale.
Emily Hale avrebbe ucciso il poeta in me; Vivienne fu quasi la mia morte, ma tenne vivo il poeta. Col senno di poi, l’incubo dei miei diciassette anni con Vivienne mi sembra preferibile alla noiosa miseria del mediocre insegnante di filosofia che sarei stato in alternativa.
Per anni fui un uomo diviso (così come, in modo diverso, ero stato un uomo diviso negli anni 1911/1915). Nel 1932 fui nominato per un anno professore di poesia ad Harvard presso la cattedra Charles Eliot Norton; e anche la madre di Vivienne fu d’accordo sul fatto che era fuori questione che lei venisse in America con me. Vidi Emily Hale in California (dove insegnava in un college per ragazze) all’inizio del 1933, e la rividi da allora ogni estate, penso dal 1934 in poi, quando regolarmente raggiungeva sua zia e suo zio che prendevano casa ogni estate a Chipping Campden.
Alla morte di Vivienne nell’inverno del 1947, mi resi improvvisamente conto che non ero innamorato di Emily Hale. A poco a poco mi accorsi che ero stato innamorato solo di un ricordo, il ricordo dell’esperienza di averla amata nella mia giovinezza. Se avessi incontrato una donna di cui avrei potuto innamorarmi, negli anni in cui Vivienne e io stavamo insieme, questo fatto mi sarebbe senza dubbio risultato evidente. Dal 1947 in poi, ho capito sempre di più quanto poco Emily Hale e io avessimo in comune. Avevo già osservato che non era un’amante della poesia, certamente che non le interessava molto la mia poesia; mi aveva già preoccupato quella che mi sembrava prova di insensibilità e cattivo gusto. Forse è troppo duro, pensare che ciò che le piaceva fosse la mia reputazione piuttosto che il mio lavoro. Forse mi ha amato secondo la sua capacità di amare; eppure penso che le opinioni di suo zio (suo zio acquisito, un caro uomo anziano, ma di mentalità confusa) significassero per lei più delle mie. (Era affezionata a suo zio John ma non andava molto d’accordo con sua zia Edith). Non potei mai farle capire che era sconveniente per lei, unitariana, comunicarsi in una chiesa anglicana: il fatto che mi scioccasse il suo fare così non la impressionava. Non posso fare a meno di pensare che se mi avesse davvero amato avrebbe rispettato i miei sentimenti, se non la mia teologia. Adottava un atteggiamento simile nei confronti della visione cristiana e cattolica del divorzio. Potrei dire a questo punto che non ho mai avuto rapporti sessuali con Emily Hale.
Finché Vivienne era viva, sono stato in grado di ingannarmi. Affrontare completamente la verità sui miei sentimenti verso Emily Hale, dopo la morte di Vivienne, fu uno shock dal quale mi ripresi lentamente. Ma mi sono reso conto che il mio amore per Emily era l’amore di un fantasma per un fantasma, e che le lettere che le scrivevo erano le lettere di un uomo allucinato, un uomo che tentava invano di fingere con sé stesso di essere la stessa persona che era nel 1914.
Sarebbe stato un errore ancora maggiore sposare Emily piuttosto che sposare Vivienne Haigh-Wood.
Posso immaginare il tipo di uomo che entrambe avrebbero dovuto sposare – diverso l’uno dall’altro, ma anche molto diverso da me. È solo negli ultimi anni che ho saputo cosa significhi amare una donna che mi ama veramente, altruisticamente e con tutto il cuore. Trovo difficile credere che qualcosa di pari a Valerie ci sia mai stata o potrà esserci di nuovo; non posso credere che sia mai esistita una donna con la quale avrei potuto sentirmi così completamente unito come con Valerie. Il mondo con la mia amata moglie Valerie è stato un mondo come non lo avevo mai conosciuto prima. All’età di 68 anni il mondo si è trasformato per me, e io sono stato trasformato da Valerie. Che tutti possiamo riposare in pace.
T.S. Eliot
Questa memoria è stata scritta il 25 novembre 1960, ma l’ultima pagina è stata leggermente modificata e riscritta il 30 settembre 1963.
Le lettere ricevute da Emily Hale sono state distrutte da un collega su mia richiesta.
T.S. Eliot
*Per gentile concessione si presenta in anteprima parte del “Quaderno T.S. Eliot” pubblicato sul numero di febbraio di “Studi Cattolici”. Il quaderno è costituito dal servizio di Daniele Gigli (“L’amore di un poeta per un fantasma”) e dall’approfondimento di Paola Tonussi dedicato a “Burnt Norton”, dal titolo “Il castello dove sempre siamo stati”
**In copertina: T. S. Eliot con Valerie Fletcher, la seconda moglie, sposata nel 1957