Proprio così. Una fiala di vetro. Un grumo di cavi d’acciaio, sottilissimi, in una fiala di vetro. Basso. Bianco. Eduard Limonov mi sembra un incrocio tra Peter Pan e il capitano Achab. Sembra fragile. È inflessibile. La sua guardia del corpo, Dmitrij, è un ragazzone sorridente. Filma la stazione di Rimini con il cellulare. Filma ovunque. Limonov è seccato. “Ma cosa riprendi? Guarda! Guardati intorno! Scrivi un libro! Cammina!”.
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Limonov ha una cordialità austera, viaggia con una sacca piuttosto piccola, verde, eppure è sempre impeccabile. Lì ha quello che gli occorre, dice. “Se mi sbattono in carcere, ho tutto. Mi basta poco”. Capisco che il lusso dell’albergo riminese lo schifa. Gli chiedono il passaporto, lo cede a fatica, lo rivuole subito. “Gli incontri più importanti della mia vita li ho fatti in carcere e in guerra”, dice. Recita? Forse. Limonov ormai è diventato quello che gli altri credono che sia – non è un uomo, è una rivolta.
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Quando Sandro Teti, l’editore italiano di Limonov, mi telefona, è perentorio: “Vuoi che ti porti Limonov? Trovami un teatro!”. Sandro Teti mi è simpatico, forse in una vita ulteriore siamo stati compagni, nello stesso clan, lungo le pianure di Scizia. Il teatro glielo devo trovare in un paio di giorni. Strologo, maneggio, vinco la mia ansia – del tutto narcisistica – di reclusione. Per un attimo l’acido della misantropia mi sfianca. Alessandro Gnocchi, eroico caporedattore culturale del Giornale mi sfida, cavolo, porta Limonov a Rimini, vengo anch’io – non verrà – e facciamo tre pagine con una intervista prima che atterri in Italia – questo lo abbiamo fatto. Trovo il teatro. A Rimini. La terra del Malatesta, esteta sanguinario, esaltato da Ezra Pound e da Henry de Montherlant, due tipi scomodi, che non si accodano alle mode. Limonov, qui, è perfetto.
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Quando arriva Limonov nevica – ci siamo russificati, gli dico, e lui, “per carità, restate italiani, viva l’Italia!, altrimenti diventate tristi e truci come i russi”. La notte prima telefono a Sandro Teti, tutto a posto? No, mi fa, Limonov è scomparso, si è rotto le palle, vuole tornare in Russia. La vicenda, se vi va, l’ha raccontata Fulvio Abbate su Dagospia (“Alle 21, 10, sprezzante e definitivo, dopo aver confabulato con il suo editore, afferra il suo cappotto, e se ne va. La scena è surreale. Ora che sono arrivati anche gli ultimi ospiti e che è tutto pronto per iniziare, lui non c’è”). Passo la notte pensando a una via di fuga, a un comunicato stampa in cui si renda nota, con dote di menzogne, l’assenza di Limonov. Il giorno dopo – il giorno dell’incontro riminese, il 12 dicembre – a mattina inoltrata, Teti mi scrive, “arriviamo, pericolo rientrato”.
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Limonov non è come Emmanuel Carrère, lo scrittore bronzeo, da copertina, amato da tutti perché va bene a tutti i gusti, titilla le voglie estetiche degli incravattati. Limonov è uno che turba, è uno del sottosuolo, è uno che vuole la rissa più che lo scandalo, che adora essere odiato, che preferisce lo scontro alla laccata leccata, il disastro alla conferma. In un articolo pubblicato sul Giornale Nicola Porro – ancora riguardo alla serata romana – scrive, “Io non c’ero. Ma l’altra sera a casa della mia amica Claudia, le persone sono corse a vedere il Limonov che Carrère gli ha raccontato. Di gran lunga più affascinante e imprendibile del Limonov che si racconta da solo”. Porro non capisce che Carrère scrive per gente come lui – sufficientemente certa di sé e della propria presunta perversione di basso grado – mentre Limonov scrive per la rivoluzione; la differenza è la stessa che c’è tra Arcipelago Gulag – il cui autore, per inciso, è deliziosamente detestato da Limonov – e l’impegno umanitario di uno scrittore parigino di elzeviri, a cavallo della propria sicura scrivania. Limonov ha preso e se ne è andato schifando il bel mondo romano, quello degli amici degli amici, tutti giusti-bravi-belli.
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Questo ha di buono. Limonov è gentile, disponibile, ma fa quel che vuole. Se non sta bene in un posto non recita, s’incazza. Alla fine dell’incontro, un fotografo lo placca. Lui ci sta. Una fotografia, due, cinque, sette. Poi dice basta. Il fotografo si arrabbia. Lui si arrabbia di più, ho detto basta non rompermi le palle. Conosce il limite tra cortesia e offesa, tra patto e contraffazione, tra rispetto e difetto. “Ora sono vecchio, sono repellente, sono più saggio”, dice.
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Non accetta gli applausi, non li capisce. Perché queste foche applaudono? Non me lo merito. Piuttosto, ragioniamo insieme su come fare la rivoluzione. Piuttosto, spaccatemi la faccia. Ci tiene a spiegare la nascita del Partito Nazional Bolscevico, nel 1993, quando è stato messo fuori legge da Putin, quando ha vissuto il carcere. Il partito è stato il tentativo – riuscito, in parte – di dare rappresentanza alla “punk generation”, gente che cannibalizzava la vita.
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Sandro Teti ha pubblicato due libri di Limonov, Zona industriale e Il boia. Il Limonov più bello tradotto in Italia s’intitola Libro dell’acqua, lo ha pubblicato Alet nel 2002. Allineo alcune frasi: “Io ero nato per le guerre e le rivoluzioni”; “Il nuovo senso estetico era quello che nasceva sfrecciando per una città bruciata sopra la corazza di un carro armato circondato da giovani belve con il mitra”; “Deve essere stata splendida immagino la città di Phnom Penh deserta e bruciata. Di persona ne ho viste parecchie di città bombardate e crivellate: c’è in loro una qualche grandezza, una estrema saggezza. Erano belle le città malate, la New York degli anni Settanta, la Parigi dei primi anni Ottanta. La cosa più disgustosa è una città in piena salute, che trabocca grasso e merda”.
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Mimmo Calopresti ha firmato un bel documentario su Limonov, Cani sciolti. Nel 1974 Limonov è a Roma, in attesa di partire per gli Stati Uniti. Povero, maldestro al mondo. Il documentario racconta il suo ritorno in Occidente, l’anno scorso, il cammino verso il monumento a Pasolini, a Ostia. “Una delle figure più potenti del XX secolo”, dice Limonov, omaggiando PPP. Ama ciò che disturba, che non distrae dalla vertigine.
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In Libro dell’acqua, tuttavia, è possente l’atto letterario: Limonov, nonostante i proclami, vede in ogni gesto il verbo, ogni atto inciso nella Storia ha senso ai fini del racconto. “Baudelaire ci ha inventati tutti quanti. Lui e Balzac”, scrive. E quando deve descriversi, accenna a Rimbaud: “ero partito come Rimbaud, una fuga verso il nulla”. Nel libro, Limonov scrive la sua autobiografia raccontando “Mari”, “Fiumi”, “Laghi, Stagni, Paludi”, “Fontane”, “Saune” e piogge. La struttura narrativa è perfetta e intorbidata dalla malinconia: il grande narciso Limonov sa che ogni esistenza è effimera, ogni rivoluzione una traccia sulle acque, presto risolta nel nulla, “l’acqua trasporta, cancella e non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua”. Cancellare, ecco la parola esatta.
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Ne Il boia, piuttosto, la perfetta definizione del mondo ‘americano’, il nostro. “Tutto può essere, tutto può succedere qui, nel migliore dei mondi possibili, dove tutto appartiene a tutti e il capriccio, il malinconico e piacevole bruciore sotto l’addome, governa gli esseri umani”.
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Sbaglia chi ritiene Limonov un ‘esteta armato’ – egli è semplicemente russo. Limonov è un uomo del secolo scorso, convinto, come tutti i russi, che l’idea implichi la lotta, che si scrive per convertire, che non c’è altro se non l’istinto alla vita, il sentore della morte. Limonov è un collega di Gogol’, pare redatto da Dostoevskij, ha bevuto con Majakovskij, è dentro le lucide elucubrazioni di Vasilij Grossman (“Lo sviluppo russo ha mostrato una strana essenza: si trasforma in sviluppo della non-libertà”), dentro i pensieri di Andrej Sinjavskij (“La morte dell’eroe è giustificata, conquistata, dalla vita dell’eroe, e questo equilibrio genera un senso d’armonia. Per contro, nel destino del ‘piccolo borghese’ la morte è quasi comica: colpito da un ictus, soffocato da un osso”), nei gherigli retorici di Iosif Brodskij, l’amico-nemico (“La vera storia della coscienza comincia con la prima bugia. Si dà il caso che io ricordi la mia”). Conta, nell’ardore russo, la ‘postura’ più che la politica, la ‘statura’ prima del giogo dell’intelletto, la facilità al soffrire.
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“Volevo vedere la Storia da miope, a un centimetro dal mio naso… mi trovavo lì perché ero un avventuriero, uno sveglio, e provavo piacere a rovistare nelle interiora della Storia, a pescarle qualcosetta nella pancia”, scrive Limonov. Vuole le domande bastarde, Limonov, vuole qualcuno che lo sfidi a duello. Riguardo alla sua presenza sul fronte serbo, nei Novanta, è chiaro, “La Serbia era un paese assalito da una ventina di potenze straniere. Quanto al resto, è certo, io difendo le mie idee con la mitragliatrice”. La sua risposta – pienamente russa – ci fa schifo, deve farci schifo, perché Limonov non vuole limonare con il grande inquisitore, non cerca assoluzioni, ma chi lo punisca. D’altronde, è sempre stato chiaro. Nel 1998 su “The Exile” sintetizza con aforisma di fuoco la Guerra nel Golfo (“Un nugolo di capi mafia – forze Onu di 27 paesi – che puniscono un piccolo imbroglione, Saddam Hussein”), parla del suo impegno nell’area jugoslava. “Ho partecipato alla guerra serbo-croata. Scioccato e disgustato dai cadaveri torturati di vecchi e bambini serbi, recuperati tra le rovine di Vukovar, ho preso parte per la Serbia… Nell’autunno del 1992 sono stato avvicinato dal produttore cinematografico della BBC, mister Pawlikowsky. Voleva che intervistassi Radovan Karadjic, leader dei serbi bosniaci per un suo documentario. Per tre giorni la BBC ha filmato il presidente della repubblica serba di Bosnia insieme a me, mentre discutiamo. Disonesti, quelli della BBC, che in segreto mi hanno filmato mentre sparo con un mitra a Sarajevo”. Chi fa orrore, qui: Limonov? I cinici della BBC? Tutto corrisponde, in ogni caso, all’immagine che Limonov vuole dare di sé. “Essere odiato da un vasto pubblico televisivo dell’intero mondo occidentale è emozionante. È una sfida. Mi sentivo come Superman assediato da orde di zombie lillipuziani… Ho sempre saputo che se non rinunci alla tua libertà sei un nemico della libertà. Subirne le conseguenze è stato doloroso. Niente pane per l’amico dei Serbi. Niente pane per il politicamente scorretto. Niente pane per il nemico di Gorbacëv. Niente pane per l’avversario di Eltsin. Niente pane per chi la pensa diversamente”.
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Di sera, io e la guardia del corpo di Limonov che corriamo per Rimini – il freddo perfeziona la velocità. Limonov è inflessibile e vecchio. Ha bisogno di un antidolorifico. Troviamo la farmacia aperta. Poi corriamo nell’ultimo supermercato. Limonov è chiuso in camera, in albergo, mangia come un asceta. Non riesce a masticare. Gli compriamo un po’ di lardo e del formaggio morbido. Quest’uomo che ha preso a morsi il muso della vita, non sa più masticare.
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Dopo aver ‘matato’ il pubblico di Rimini – seguiranno vaste code per farsi firmare il libro – Limonov si rivolge a me con aria di sfida. Gli ho chiesto che rapporti ha con Dio. “Ma come si permette?”, fa, “queste sono questioni private”. Intuisco la differenza tra l’icona e il presepe, tra Zosima e il culto dei Santi. Il giorno dopo, in macchina, prima di lasciarlo alla stazione. Siamo in cinque. Sei pronto a scrivere la sua biografia?, mi fa Sandro Teti. Sfidare Carrère eccita. “Devi fare in fretta però, tra poco muoio”, mi dice Limonov. A me pare immortale. Poi va verso il binario. Il treno per Bologna parte mezz’ora dopo. Il freddo inacidisce le intenzioni. Ma Limonov è là, in piedi, al binario, mezz’ora prima, solo. (d.b.)