A proposito di clausura, di transito nel deserto. Così, il 18 novembre del 1964, Cristina Campo scrive all’amico lontano. “Carissimo, continua il cammino ‘per luoghi senz’acqua’… non vorrei aver vicino, adesso, che due o tre persone al mondo: lei, naturalmente. E in modo tutto particolare”. L’amico lontano, confidente di quell’epistolario che arde, pubblicato da Scheiwiller, nel 1989, appunto, come Lettere a un amico lontano, è Alessandro Spina, scrittore dal genio straordinario e inattuale, controcorrente e contro le mode, marmoreo e immodesto. Lo pseudonimo vela, in verità, Basili Khouzam, nato a Bengasi da maroniti di Aleppo, che ha raccolto in eredità l’industria tessile di famiglia. Si scrivevano da qualche anno, la Campo era stata folgorata da un racconto di Spina/Khouzam, Giugno ’40, “Un racconto perfetto. Non ce n’è molti così, forse solo tre o quattro negli ultimi 20 anni in Italia. Ma questo è unico, non ha precedenti estetici italiani, stabilisce una musica, un ritmo, una danza, che non c’erano prima, qui da noi. Lo metterei nell’antologia delle più belle novelle di ogni tempo” (così la Campo, il 24 dicembre del 1961). Si rincorreranno a lungo, Spina e la Campo. Spina/Khouzam si era laureato in lettere a Milano, si trasferì, dopo la nazionalizzazione dell’azienda libica da parte di Gheddafi, in Franciacorta. Chissà quante erano le due o tre persone al mondo anelate come ultima compagnia dalla Campo, che scrive sempre lettere ultime, sull’onda del destino.
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“Lo ha notato?, mi chiese un giorno Cristina Campo, non ci sono più destini”, ricorda Alessandro Spina, di lei, l’ineffabile, molto tempo dopo, nel 2006 (il pensiero è raccolto, insieme ad altri, in L’ospitalità intellettuale, Morcelliana, 2012). In quel saggio, Spina avvicina la giovinezza di Cristina Campo al romanzo più noto di Irène Némirovsky, riferendosi a un episodio “della più intima natura, l’aver amato, pare, nei tragici anni Quaranta un ufficiale tedesco anziché l’eroe della Resistenza, secondo il canone del dopoguerra, un uomo di cui non si sa nulla. È noto che Eros ha gli occhi bendati e deride le piccole virtù del nostro politically correct: si legga Suite francese di Irène Némirovsky… romanzo di ben altra levatura dei nostri premi letterari dove un’ebrea francese di origine russa narra con schubertiana finezza l’amore nella Francia appena occupata dai tedeschi, l’amore dicevo di una giovane francese per un ufficiale della Wehrmacht”. Il punto, comunque, è nel pudore e nel celato. Nel destino della Campo. “Rimanemmo esterrefatti alla morte di Cristina nel ’77 del silenzio della società letteraria che non vide quell’assenza. Oggi tutti sono sorpresi dell’inattesa comparsa di Cristina sulla scena letteraria, éclatante, come nel Flauto Magico l’apparire della Regina della Notte”. Il rapporto tra la Campo e Spina si era consolidato nel libro pubblicato da Scheiwiller nel 1963, Storia della città di rame, quasi un anello – “questo libriccino mi è caro, la sigilla”.
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Alessandro Spina è uno scrittore straordinario, tra i grandi, in un club riservatissimo, del secolo scorso. Il suo difetto? La forma narrativa, impeccabile; le letture, speciali e profonde; la fede nella letteratura come atto di vertigine, né ornamentale né sociologico – un racconto può avere la stessa levigata bellezza di un notturno di Chopin. Piuttosto, il difetto sta nel fatto che Spina non fu conforme a un certo stile letterario d’obbligo, la sua aristocrazia fu presa per vezzo, non lesinò le critiche al sistema italiano (esempio: “Venni a sapere che nella mia Milano, o forse a Torino, Elio Vittorini, proconsole delle lettere, del romanzo italiano in particolare, apriva una nuova strada ai romanzieri invitandoli a occuparsi dell’industria… Non mi risulta che Thomas Mann, Musil, Kafka o Hofmannsthal abbiano mai indicato che strada dovevano fare tutti gli altri insieme – la pastorizia, nelle lettere, è micidiale”). In ogni caso, i suoi romanzi furono pubblicati da Garzanti, da Mondadori – le bellissime Storie di ufficiali –, da Rusconi, per lo più. Negli anni Ottanta e Novanta fu riscoperto da Scheiwiller e da Ares; nel 2006, con la pubblicazione di tutte le opere per Morcelliana, come I confini dell’ombra, una specie di ‘Meridiano’ del più sublime extra-canonico nel nostro canone imposto, si tornò a parlare di Spina. Autorevoli riviste – “Paragone”; “Humanitas” – gli hanno dedicato numeri monografici; autorevoli firme – Claudio Magris, Enzo Bianchi, Sergio Romano – si sono occupate di lui. Nel 2007 Morcelliana – divenuto, nel frattempo, l’editore di Spina – pubblica il Carteggio tra Cristina Campo e Alessandro Spina; un evento straordinario perché per la prima volta si assiste a un dialogo, non solo alle lettere in austero monologo di CC ma anche a quelle del suo interlocutore. Beh, oggi di Spina, morto nel 2013, non c’è più nulla, siamo impediti a leggere il più grande e misconosciuto scrittore italiano del secondo Novecento. Sono, cioè, disponibili i saggi – Elogio dell’inattuale, L’ospitalità intellettuale – e il Diario di lavoro, è difficilmente rintracciabile il Carteggio con la Campo, è irreperibile l’opera di una vita, I confini dell’ombra. Restano, per il lettore, libri laterali: i “tre romanzi brevi” raccolti come Altre sponde (Morcelliana, 2008) e le belle “storie coloniali” edite da Ares come L’oblio (2004). Troppo poco per dire di un maestro.
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Per Cristina Campo, Alessandro Spina fu lo scrittore. Nel 1972, dopo aver letto il manoscritto de Le nozze di Omar: “Ho letto il suo libro in un giorno, come prevedevo e senza, si può dire, staccare gli occhi dai fogli. Il suo mondo è ormai uno dei miei mondi”. Anni prima, nel 1964, la Campo, registrando il proprio deserto: “Scrivo di tanto in tanto qualche rigo… leggo antichissimi libri di celestiali eremiti il cui fiato vivente brucia le pagine: Antonio l’Egizio, Pacomio, Pier Damiano. Non vedo anima viva se non talvolta – forse una volta al mese – il monaco contemplativo di cui parlammo una sera. Mi piacerebbe dire che è il solo amico che abbia, in questa città di quattro milioni d’anime, se la parola avesse un senso con simili personaggi: che danno ma non ricevono, che non hanno alcun bisogno di noi, che ci sono, probabilmente, amici, ma dei quali non si può essere amici. Mi scriva pazientemente, come altre volte, vuole? È una gioia per me sapere che non posso rispondere alle lettere che più amo ricevere. E forse proprio per questo rispondo”. Entrava nelle relazioni come in un tempo, la Campo: per questo, ogni lettera era atto liturgico, un modo per porre candele. Qualche mese prima, Spina le aveva donato uno sketch che ne dice la statura, senza ambizioni. “Con un immenso desiderio di star solo, dopo un pasto frettoloso sono andato al grand hotel in riva al mare… Ordino un caffè turco. Leggo la lettera di un amico (l’agonia di una grande bestia). Poi, neanche me ne accorgo, resto pensieroso. Improvvisamente compare il cameriere per ritirare la tazza vuota. Perché è triste?, dice. Si affidi a Dio. E scompare”. Naturalmente, per questa anime complici fino al sangue e al sospiro non frequentarsi era d’obbligo. (d.b.)
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COSA FARAI DA GRANDE
È il gioco più vecchio del mondo. A ogni ragazzo è stata posta la domanda: gioiosa e inquieta eco, ogni ragazzo l’ha posta quindi a sé.
“Al tempo delle orde barbariche era più semplice”, disse bonario il colonnello Varzi, “si sapeva che si sarebbe imitato il padre, ladro ed eroe”.
Seduti sul minuscolo pontile della spiaggia, tre ufficiali ascoltavano i ragazzi che sull’arenile giocavano al futuro.
Le risposte non si discostavano dal risaputo: uno voleva fare l’aviatore, l’altro il marinaio, il terzo l’inventore, il quarto il corridore automobilista. “Curioso”, commentò il colonnello, che sembrava il più attento, “nessuno è affascinato da una qualunque impresa produttiva”.
“E neppure dal denaro!” disse il generale, senza spiegare se era un segno di maturità o di ignoranza.
Erano in costume da bagno, le divise stavano appese nelle cabine dello chalet come in un magazzino teatrale; tutti e tre di statura medio alta, di corporatura tuttavia asciutta, di colorito bruno.
Fra i ragazzi ce n’era uno biondo, disse che voleva fare il poeta. Il generale chiese severo al colonnello: “È da classificare tra coloro che scelgono la produzione?”.
Forse perché la gente era in costume da bagno (salvo qualcuno in pigiama o con l’accappatoio, come fossero sacerdoti), e quindi – in una primitività riconquistata, con solo una cinta ai fianchi – parevano un’orda barbarica lì accampata, i tre uomini sul pontile cominciarono a discutere intorno alle scarse notizie che si avevano dell’invasione vandalica: era giunta fin lì, in Cirenaica, o non aveva oltrepassato il periglioso golfo delle Sirti?
“L’insegnante di storia del Carducci dice che, scesi dalla Spagna, raggiunsero fulminei Tripoli, dove però si smarrirono, come un corso d’acqua, inspiegabilmente. D’altronde, nessuno ha mai detto che raggiunsero il Nilo”.
“Gli chieda di Garibaldi, a quello”, disse con alterezza il generale, che veniva da Pinerolo, in Piemonte.
La conversazione languiva. I tre storici parevano più incuriositi da una signora dai capelli rossi che, alzatasi, faceva cauta qualche passo sulla riva. Parevano cacciatori, attenti alla preda.
Anche questo, era gioco vecchissimo.
“Facciamo il gioco all’inverso: che passato vorremmo aver avuto?” chiese il colonnello. “Cosa vorremmo, insomma, aver fatto da piccoli?”.
“Dove vorremmo aver vissuto, da piccoli”, corresse il generale, un po’ seccato. Ma non ebbe risposta. Ognuno pareva rapito dai suoi pensieri, da ricordi, da attese, delusioni e stanchezza.
C’era però il ragazzino biondo, smilzo come un’anguilla, quello che da grande voleva fare versi arditi, forse per dar vita all’indicibile, che adesso, staccatosi dagli altri, i piedi nell’acqua, guardava in su malgrado il sole abbagliante: le gambe penzoloni al pontile, i tre ufficiali sembravano scolari svogliati, quelli che invece di ascoltare in classe il maestro, sognano il pallone, la spiaggia, la pesca, il sonno – che genera altri sogni.
Alessandro Spina
*Il racconto è pubblicato per gentile concessione e tratto da: Alessandro Spina, “L’oblio. 24 storie coloniali”, Ares, 2004